Pelléas et Mélisande

Drame lyrique in 5 atti e dodici quadri, L 93

Musica: Claude Debussy (1862 - 1918)
Libretto: Maurice Maeterlinck

Ruoli: Organico: 3 flauti, 2 oboi, corno inglese, 2 clarinetti, 3 fagotti, 4 corni, 2 trombe, 3 tromboni, basso tuba, timpani, archi
Composizione: Parigi, 15 Agosto 1895
Prima rappresentazione: Parigi, Opéra-Comique, 30 Aprile 1902
Edizione: Fromont, Parigi, 1902
Dedica: alla memoria di Georges Hartmann e a André Messager
Introduzione (nota 1)

L'unico dramma musicale portato a compimento da Debussy segna l'apertura del nuovo secolo e inaugura, con un profondo mutamento di stile e di linguaggio, il teatro lirico del Novecento. Per poter pervenire a un modello d'opera così nuovo e rivoluzionario, l'autore dovette lavorarvi per ben dieci anni, a partire dal suo primo incontro col dramma in prosa di Maurice Maeterlinck, alfiere del simbolismo letterario. Debussy acquistò il testo casualmente nell'estate del 1892, quando il dramma era ancor fresco di stampa; la lettura lo lasciò profondamente impressionato, ma fu la visione di Pelléas sulle scene dei Bouffes-Parisiens l'anno successivo che lo convinse a metterlo in musica. In effetti, quel testo corrispondeva esattamente a ciò che Debussy da tempo stava cercando: un dramma che si allontanasse dai modelli correnti di teatro borghese (ad esempio le pièces di successo d'un Sardou) e tanto di più dagli argomenti letterari e fantastici cari ai musicisti suoi contemporanei, più o meno influenzati dal teatro wagneriano. Già in una dichiarazione del 1889, raccolta da Maurice Emmanuel, Debussy sosteneva che il poeta dei suoi sogni avrebbe dovuto essere quello che «disant le choses à demi, me permettra de greffer mon rêve sur le sien», quel poeta che concepirà dei personaggi la cui storia e il cui ambiente non apparterranno ad alcun tempo e ad alcun luogo. Dunque con Pelléas le sue aspirazioni si trovavano improvvisamente realizzate, grazie a un testo che fa della reticenza, del mistero, della lontananza dalla storia la radice principale della sua poetica. Il musicista chiese a Maeterlinck l'autorizzazione a mettere in musica il suo dramma, e la ottenne senza problemi. Le difficoltà sorsero più tardi, quando Maeterlinck cercò d'imporre a Debussy, come interprete principale, sua moglie Georgette Leblanc. Debussy si rifiutò, e lo scrittore dichiarò allora pubblicamente di essere del tutto estraneo al progetto musicale di Pelléas et Mélisande, e di augurarsi il suo fiasco totale. Al tempo di questi contrasti, comunque, l'opera era ormi terminata, ma solo dopo un lavoro lento e certosino, che fece meditare a Debussy, nell'arco di un intero decennio, parola su parola e battuta su battuta. Nel gennaio del 1894, il musicista scriveva all'amico e collega Ernest Chausson: «Ho passato intere giornate a inseguire quel «niente» di cui è fatta Mélisande, e talvolta mi mancava persino il coraggio di raccontarvelo. Non se vi siete mai addormentato, come me, con una vaga voglia di piangere, come se non si fosse potuto vedere durante la giornata una persona amatissima. Adesso è Arkël a tormentarmi: questi è un personaggio d'oltretomba e ha quella tenerezza disinteressata e profetica propria di chi sparirà tra breve. E tutto questo va detto con do, re, mi, fa, sol, la, si, do!!! Che mestiere!». La scelta più significativa di Debussy rispetto al testo letterario fu quella di non adattarlo a libretto ma di mantenere l'originale scrittura in prosa, limitandosi a tagliare alcune scene, sia per motivi di carattere estetico sia per ovvie ragioni di durata dell'opera. I tagli costituiscono, nella loro acuta intelligenza, un sensibile miglioramento al dramma di Maeterlinck, che rimane tuttavia pressoché integro nella lettera. Pertanto, Debussy fu il primo compositore a mettere in musica un testo teatrale preesistente così com'era stato scritto, scelta che si rivelò ancora una volta rivoluzionaria e che aprì la strada a un nuovo modo d'intendere il rapporto fra teatro di prosa e teatro musicale. I primi frutti di quella scelta si potranno già osservare nella Salome di Richard Strauss, rappresentata nel 1905 (soltanto tre anni dopo Pelléas), dove anche il musicista bavarese si attenne fedelmente alla tragedia di Oscar Wilde, limitandosi a farla tradurre in tedesco da Hedwig Lachmann. La fedeltà alla prosa francese di Maeterlinck obbligò Debussy a inventare un modello originale di declamato lirico, capace in tutto di rispettare la prosodia del testo, con il risultato di dar vita a un'intonazione estremamente scorrevole e 'parlante', ma ricca d'incredibili sfumature espressive. Nel tracciare questo nuovissimo stile vocale, il musicista fece tesoro delle sue mélodies per voce e pianoforte, che negli anni immediatamente precedenti la gestazione di Pelléas, in particolare nel 1893, si aprono a uno sperimentalismo determinante per il linguaggio dell'opera futura: è il caso delle Proses lyriques, titolo già di per sé significativo (i testi sono dello stesso musicista), e delle Chansons de Bilitis (1897-98) su testi dell'amico Pierre Louys, nelle quali già par d'intendere la voce di Mélisande (non è certo un caso se la seconda di quelle Chansons, porta il titolo La Chevelure). Si giunse finalmente, tra mille problemi e contrattempi, alla prova generale, fissata all'Opéra-Comique per il 28 aprile 1902, in un clima surriscaldato dall'attesa e dai pregiudizi che erano dilagati nella Parigi dei frequentatori dei teatri e degli artisti, grazie anche alle polemiche scatenate all'ultimo momento da Maeterlinck, che si era spinto fino al punto di sfidare a duello il compositore. All'ingresso del teatro venne distribuito un falso programma di sala, pieno di ironie sulla vicenda e di grevi doppi sensi (fu allora che nacque il calembour - tuttora popolarissimo - «Pédéraste et Médisante»). Alle prime sortite di Mélisande la gente già rideva di gusto, riso che si trasformò in sghignazzo quando la protagonista dice a bassa voce «Non sono felice», al che immediatamente il loggione replicò: «Neppure noi!». Solo pochi restarono fino al termine dello spettacolo per applaudire Debussy, e fra questi Valéry, Mirbeau e Régnier. Alla première vera e propria si formarono invece due partiti contrapposti, e i difensori di Pelléas, incarnati dal gruppo degli «Apaches» che comprendeva anche il giovane Ravel, riuscirono a zittire i molti spettatori di fede wagneriana intenzionati a far cadere l'opera. Invece, a partire dalle prime repliche, Pelléas riuscì a imporsi, fino a diventare un testo alla moda, con schiere di accaniti e sacerdotali difensori. André Messager fu il primo direttore d'orchestra dell'opera, mentre Albert Carré (direttore artistico dell'Opéra-Comique) curò la regia e Lucien Jusseaume le scene e i costumi; questo allestimento fu utilizzato fino al 1927 e poi ripreso anche a partire dagli anni Cinquanta, grazie alla ricostruzione di Deshays. La prima Mélisande fu il celebre soprano Mary Garden, una scozzese destinata a divenire uno dei miti vocali d'inizio secolo («Non posso concepire timbro più dolcemente insinuante», dichiarava Debussy a proposito della sua avvenente prima protagonista). Pelléas fu Jean Périer e Hector Dufrane vestì per primo i panni di Golaud. Da allora, l'opera ha avuto in tutto il mondo allestimenti importantissimi, ed è stata affrontata dai più grandi direttori d'orchestra del secolo: in Francia, gli eredi più autorevoli di Messager furono Désiré-Emile Inghelbrecht, Albert Wolff, Roger Desormière (autore nel 1942 d'una fondamentale registrazione in disco dell'opera, con i suoi più celebrati interpreti vocali, Jacques Jansen e Irène Joachim), Ernest Ansermet, André Cluytens, Jean Fournet e Manuel Rosenthal. La prima italiana fu data alla Scala il 2 aprile 1908, per merito di Arturo Toscanini che ne fu anche il direttore (un'altra celebre rappresentazione, sempre sotto la sua bacchetta, e con regia di Giovacchino Forzano, fu realizzata alla Scala nel 1925). Tra gli altri grandi interpreti di Pelléas nel tempio lirico milanese si ricordano Victor de Sabata (1949 e 1953), Georges Prêtre (1973) con la fascinosa messa in scena di Gian Carlo Menotti e Rouben Ter-Arutunian, e soprattutto Claudio Abbado, la cui incandescente lettura è da considerare uno dei vertici assoluti nella recente storia esecutiva dell'opera di Debussy: il meraviglioso allestimento di Antoine Vitez, con scene e costumi di Yannis Kokkos, fu presentato nel 1986, e poi riproposto alla Staatsoper di Vienna. Tra le altre produzioni di Pelléas si distinguono quella affidata a Pierre Boulez dal Covent Garden di Londra nel 1969: si trattò di una rilettura radicale, che cancellava i toni flou e il monotono simbolismo della tradizione francese, per consegnare l'opera a un «teatro della paura e della crudeltà» di matrice strindberghiana. Boulez ha affrontato di nuovo Pelléas nel 1992 alla Welsh National Opera di Cardiff, in occasione di una messa in scena stilizzatissima firmata da Peter Stein; a distanza di quasi un quarto di secolo, la lettura del grande compositore-direttore francese è tornata parzialmente nel solco della tradizione, con un evidente smussamento delle asperità e del taglio drammatico assai più consono alla poesia del mistero debussyano. Infine, fra gli altri grandi interpreti di Pelléas si deve menzionare Herbert von Karajan, che ha spostato interamente l'attenzione sull'orchestra, ottenendo sonorità impalpabili e una collocazione fiabesca del dramma di marca squisitamente estetizzante.

Sinossi

Atto I. - Scena I. Una foresta nel fantastico regno d'Allemonde. Golaud, nipote del re Arkèl, si è (smarrito in una fitta foresta e qui incontra, ai bordi una fontana, una misteriosa fanciulla, che afferma di essere fuggita da una terra lontana e di chiamarsi Mélisande; all'invito di lui, di recarsi alla reggia, essa, come trasognata, segue i suoi passi.

Atto I. - Scena II. Una stanza del castello. Golaud teme l'opposizione del sovrano al suo proposito di sposare Mélisande; ma sarà il fratellastro Pelléas,accendendo una fiaccola sulla torre più alta del Castello, a comunicargli l'assenso di Arkèl.

Atto I. - Scena III. Mélisande frattanto non riesce il dissimulare la tristezza che la opprime; si confida con Geneviève, madre di Golaud, che cerca di rasserenarla e l'affida a Pelléas con il quale andrà il vegliare Yniold, il figlio adolescente che Golaud ha avuto dalla prima moglie.

Atto II. - Scena I. Una fontana nel parco del castello. Pelléas e Mélisande si avvicinano ad una fontana e la fanciulla ricorda l'incontro con Golaud che oggi è suo sposo. Lancia poi in aria l'anello nuziale, che scivola nell'acqua; il dono del marito non potrà più essere recuperato.

Atto II - Scena II. Golaud giace ferito nel suo letto in seguito ad una caduta da cavallo; è assistito amorevolmente dalla giovane sposa, che improvvisamente scoppia in lacrime. Golaud l'attira dolcemente a sé e così si accorge che al suo dito manca l'anello. Alle domande di lui Mélisande afferma di averlo smarrito sulla riva del mare ed accetta l'invito a tentare di recuperarlo, facendosi però, data l'ora tarda, accompagnare da Pelléas.

Atto II. - Scena III. I due giovani, alla ricerca dell'anello, si ritrovalo all'ingresso di una grotta, al cui interno scorgono tre mendicanti addormentati; Mélisande resta fortemente impressionata e si allontana sconvolta.

Atto III. - Scena I. Ad una finestra del castello Mélisande si intrattiene con Pelléas; ella sta ravviando i suoi biondi e lunghi capelli che improvvisamente si riversano e si avvolgono intorno a Pelléas, che li afferra e li sfiora con le labbra. Sopraggiunge Golaud; rimprovera i due per l'atto infantile compiuto e poi si allontana turbato ed in preda a foschi pensieri.

Atto III. - Scena II. I sotterranei del castello. Pelléas avverte nel suo animo un indefinibile senso di angoscia sin quando, nei sotterranei, si trova in pericolo di precipitare nell'acqua cupa e stagnante e viene trattenuto da Golaud.

Atto III. - Scena III. Una terrazza. Golaud, il quale comincia a nutrire più di un sospetto, avverte Pelléas che Mélisande sarà presto madre e che anche la più piccola emozione potrebbe nuocerle.

Atto III. - Scena IV. La gelosia ora si impadronisce dell'animo di Golaud, che chiama a sé Yniold per conoscere da lui la verità; ed il fanciullo rivela che spesso Pelléas e Mélisande si trovano insieme e che un giorno, durante un violento uragano, vide i loro volti sfiorarsi. Anche ora, sforzando lo sguardo, scorge Pelléas nella stanza di Mélisande: entrambi, come trasognati si volgono verso la luce.

Atto IV. - Scena I. Pelléas sta per intraprendere un lungo viaggio e Mélisande accoglie il suo desiderio di incontrarla un'ultima volta; Golaud frattanto, convinto ormai della colpevolezza della sposa, l'afferra per il lunghi capelli e la getta a terra. Il re Arkél accorre in aiuto di Mélisande e le chiede se il nipote sia ebbro. "No. Ma non mi ama più", risponde la donna.

Atto IV. - Scena II. Una fontana nel parco. Yniold cerca una biglia d'oro che ha perduto; il passaggio di un gregge e del pastore lo mette in angoscia. Mélisande si avvia all'incontro con Pelléas, nel parco; e qui i due vengono sorpresi da Golaud che, con la spada in pugno, si precipita su Pelléas, colpendolo a morte. Egli si avventa poi su Mélisande che, sebbene ferita, riesce a fuggire verso la vicina foresta.

Atto V. - Una camera nel castello. Mélisande, nella sua stanza, si risveglia da un sonno profondo; la lieve ferita, ma ancora più la recente maternità, l'hanno oltremodo spossata. Non risponde alle ripetute richieste di Golaud, che vuol sapere se vi fu colpa nel suo legame con Pelléas; comincia poi a delirare ed a piangere, quindi si spegne dolcemente. Accanto ad essa Golaud turba con i suoi singhiozzi soffocati il silenzio della morte.

Commento

La lunga gestazione di Pelléas ha tra le sue cause molteplici un rovello particolare e costante per Debussy: evitare il più possibile di cadere nella tentazione wagneriana e, peggio, di far assomigliare la sua opera a un Tristano e Isotta francese. Il rapporto di Debussy con Wagner è infatti un tipico esempio di rapporto di amore-odio. Se da un lato le prese di posizione del musicista sono più o meno tutte di natura polemica (se non sarcastica) nei confronti del Gesamtkunstwerk wagneriano, nondimeno la sua formazione e la sua squisita sensibilità estetica non potevano non ammirare, e profondamente, il genio di Bayreuth. Così, se Pelléas si allontana dal dramma musicale wagneriano per la scelta di un testo in prosa e per la conseguente rigenerazione del canto sulla prosodia e sul tono di conversazione («Au théâtre de musique on chante trop», sosteneva Debussy già nel 1889), d'altra parte Debussy fece suo il sistema dei motivi conduttori, spostando però il loro luogo deputato di raccordo psicologico e architettonico alla sola orchestra. A differenza di ciò che accade in Wagner, le voci di Pelléas non fanno mai proprio uno dei tanti temi coi quali è intessuta la partitura. Quanto grande poi sia il debito - criticamente rivissuto - di Debussy nei confronti di Wagner è straordinariamente evidente fin dalla prima apparizione del tema di Golaud, modellato fin quasi al calco sulla Verwandlungsmusik del primo atto di Parsifal, che nel canone wagneriano fu certo il testo più amato e studiato dal musicista francese. Se l'architettura musicale dell'opera risente di un wagnerismo depurato d'ogni enfasi epica e filosofica, e ricondotto a nudo sistema di costruzione motivica, la ricchezza timbrica di Pelléas e il nuovissimo modellato parlante delle linee vocali sono figli piuttosto della conoscenza dell'opera di Musorgskij. Debussy aveva fatto il suo primo incontro con la partitura di Boris Godunov nel 1889, e le sue conoscenze della scuola nazionale russa si ampliarono sensibilmente nel 1896, in occasione di alcune conferenze parigine di Pierre d'Alheim e Marie Olenin. Alla vigilia di Pelléas, nel 1901, Debussy fece uscire un articolo sulla 'Revue blanche' in cui esaltava senza riserve la grandezza del ciclo di liriche musorgskiano La camera dei bambini: «Personne n'a parlé à ce qu'il y a de meilleur en nous avec un accent plus tendre et plus profond». Senza l'assimilazione del canto prosodico di Musorgskij, la vocalità di Pelléas sarebbe stata certo assai diversa. Lo stesso si può dire per l'armonia, con i suoi modalismi, e per la strumentazione, che in certi casi giunge fino a citare alla lettera il capolavoro teatrale del compositore russo: si veda, per esempio, l'Interludio sinfonico tra la prima e la seconda scena del primo atto, immediatamente avanti la lettura della lettera di Pelléas da parte di Geneviève, dove Debussy ricalca genialmente l'accompagnamento orchestrale sulla prima scena di Pimen nel primo atto del Boris. Tuttavia, se un'assimilazione critica dei linguaggi di Wagner e Musorgskij è fra le matrici innegabili di Pelléas, pure la grande portata della rivoluzione stilistica e lessicale di quest'opera è frutto principalmente del suo autore, che già nel Prélude à l'après-midi d'un faune del 1892-94 aveva perfettamente mostrato un'indipendenza assoluta, nell'armonia come nella melodia, sia rispetto al linguaggio accademico sia rispetto alle esasperazioni cromatiche di marca wagneriana tanto care a tutti i suoi contemporanei francesi, Franck in testa. Gli «accordi incompleti, fluttuanti» che la sua anarchia armonica consegnerà maturati alla scrittura di Pelléas sono senza dubbio alcuno la cifra più personale di questo padre della musica moderna, nume tutelare di tutto il Novecento. Su quella base armonica innovativa e sospesa, l'orchestra si fa carico del difficile compito di unire le brevi scene di un testo che rinuncia all'unità di tempo distribuendo l'azione in una regione del sogno e dell'indeterminato, assai pericolosa per l'efficacia drammatica. La scommessa fu vinta a usura, perché l'unità di Pelléas et Mélisande è garantita anche dalla sfaccettatura espressiva, sempre appannaggio dell'orchestra, dei personaggi che vi agiscono, appena tratteggiati da Maeterlinck e resi invece vivi, commoventi, da Debussy: laddove il dramma è fatto spesso di silenzi e reticenze, di mistero fin troppo didascalicamente simbolista, il musicista riesce col solo ausilio di una preziosa e palpitante cornice sonora a rendere credibili le silhouettes quasi fantasmatiche che mette in scena. D'altronde, solo la superficie di Pelléas appartiene al mondo poetico di Maeterlinck: la sostanza profonda dell'opera è alimentata dalla lettura di Edgar Allan Poe, autore carissimo a Debussy, e in particolare da The Fall of the House of Usher, che qualche anno più tardi il musicista tenterà anche di trasformare in opera (La Chute de la maison Usher). I dettami di ambiguità, di indefinitezza propri all'ambiente simbolista si caricano quindi nella partitura debussyana dei misteri dell'inconscio, del morboso, dell'incubo. In tempi recenti, una lettura del capolavoro lirico di Debussy in questa chiave ha finalmente permesso il superamento di quell'immagine monotona e vaga che la tradizione interpretativa aveva fatto vivere per quasi settant'anni dalla prima. Il merito della 'riscoperta' di ciò che di turbato e crudele informa la musica di Pelléas deve essere attribuito specialmente a Pierre Boulez, che è stato, oltre che direttore di due interpretazioni capitali dell'opera in teatro e in disco, anche acutissimo esegeta della scrittura e dei contenuti di Pelléas. Come accade per tutte le più grandi opere d'arte, si può dire che anche per Pelléas sia da poco iniziata una nuova giovinezza, all'insegna di una radicale riconsiderazione dei suoi valori stilistici e poetici, che parte proprio dalla sottolineatura degli elementi legati più a Poe che a Maeterlinck e a tutta la tradizione simbolista, dalla quale - impossibile trascurarlo - Debussy comunque deriva, ma in cui tuttavia non si può circoscrivere il suo lavoro. L'indivisibile complementarità di simbolo e inconscio fa di questo testo anti-operistico, anti-realistico, anti-effettistico e anti-eroico (Nicolodi) una pietra miliare e un punto di partenza nella complessa evoluzione del teatro musicale contemporaneo.

Alberto Batisti

Guida all'ascolto (nota 2)

«Pelléas et Mélisande», l'unica opera compiuta da Claude Debussy, è, in ogni senso, un'opera unica. Al suo apparire, nel 1902, sembrò sfidare ogni portato della tradizione, mentre in realtà portava al più alto compimento quell'ideale del recitar cantando che aveva presieduto alla stessa nascita dell'opera in musica nella Firenze cinquecentesca della Camerata dei Bardi. Cosi come nell'atto stesso in cui si poneva come intenzionale reazione contro l'esperienza drammatico-musicale più attuale che l'aveva immediatamente preceduto, Debussy nel suo «Pelléas» metteva a frutto, anche se in termini personalissimi, proprio l'esperienza delle sostanziali innovazioni musicali di Wagner. Dolcemente rivoluzionario, teneramente eversivo il capolavoro di Debussy assunse ben presto sapore clasisco e apparve come un modello che tuttavia nessuno riuscì mai ad imitare o a seguire. Nemmeno lo stesso autore, il quale ebbe a confessare scherzosamente che piuttosto che fare del «debussysmo», rifacendosi cioè al suo lavoro più tipico, avrebbe preferito di «piantare l'ananas» nel giardino della sua propria casa. E non scrisse più nessun'altra opera, pur avendone il costante desiderio e pur avendo nutrito non pochi progetti teatrali. Come s'è detto, «Pelléas et Mélisande» nacque sotto il segno dell'antiwagnerismo, ma nonostante ogni apparenza diversa, si può sostenere che il «dramma lirico» di Debussy prese corpo tanto contro Wagner quanto grazie a Wagner. Il primo, decisivo impatto wagneriano, Debussy lo subì allo scadere dei suoi dìciott'anni. Precisamente nel 1880 quando, accompagnando la signora Nadejda von Meck a Vienna (la mecenate egeria di Ciaikovski aveva ingaggiato il giovane Debussy come suo pianista personale) vi assistette ad una rappresentazione di «Tristano e Isotta», ricevendone una profonda, indelebile impressione. Nel 1888 e nel 1889 doveva compiere poi due pellegrinaggi a Bayreuth entusiasmandosi per «I Maestri Cantori» e per il «Parsifal». All'antusiasmo si accompagnano però immediatamente le reazioni critiche. Ne resta una testimonianza quanto mai significativa negli «Entretiens inédits d'Ernest Guiraud et de Claude Debussy» che il suo compagno e amico Maurice Emmanuel aveva annotato fedelmente nel 1889-1890, ma che furono pubblicati solo nel 1943 da Arthur Hoérée nella Collection Comedia-Charpentier. Con Ernest Guiraud Debussy aveva compiuto gli studi di composizione presso il Conservatorio di Parigi e nutriva stima ed affetto per colui che tra i suoi maestri era stato il più comprensivo ed illuminato. Era dunque con Guiraud che egli voleva confidarsi e scambiare idee ed impressioni sulla sconvolgente esperienza vissuta a Bayreuth. Debussy dichiara di amare Wagner. Non però come un modello da imitare. Piuttosto come un classico da continuare, superandone le posizioni estetiche anche mediante una decisa reazione. Al diciottenne Debussy Wagner appare come un «classico», come un compositore che rientra nella tradizione perché si limita ad usare il modo maggiore e il modo minore. Perché non lascia gli accordi senza risolverli. Perché non esce dal chiuso delle tonalità vicine. Perché «"sviluppa" come i classici. Al posto dei temi costitutivi della sinfonia collocati nei punti predeterminati egli usa dei temi che rappresentano "della gente o delle cose", ma egli sviluppa questi temi come quelli di una sinfonia. Bach, Beethoven l'hanno formato: lo provano "Tristano", "I Maestri Cantori". Senza parlare dell'orchestra che anch'essa rappresenta un "proseguimento e un ingrandidimento" dell'orchestra classica». Per quanto concerne il cromatismo di Wagner, Debussy ritiene che l'autore del «Tristano» «non usa nemmeno quello della scala dei dodici semitoni temperati offerti dalla tastiera del pianoforte e che resta da sfruttare. Egli rimane tributario del maggiore e del minore diatonici. Non ne esce...». E, anticipando con rivoluzionaria audacia i futuri sviluppi della propria musica e di quella europa del Novecento, Debussy esclama: «... basta con la fede nel "do re mi fa sol la si do"; bisogna "dargli della compagnia"». Con i 24 semitomi (bemollizzati e diesizzati) della nostra ottava «si possono fabbricare le scale più diverse». «La musica non è né maggiore né minore... bisogna mescolare terze maggiori e terze minori... bisogna annegare le tonalità. Allora si arriva dove si vuole, si esce dalla porta che si vuole. Donde allargamento, del terreno. E sfumature». Guiraud non condivide l'intento del giovane ribelle di usare accordi incompleti, non risolti, successioni di quinte vuote e ottave parallele. Trova che alcune delle audacie di Debussy, sebbene «carine» sono «teoricamente assurde». Debussy ribatte «Me ne f...» «Non esiste la teoria: basta sentire. Il piacere è la regola. Per quanto riguarda la concezione di Wagner e le sue innovazioni nel trattare le voci, Debussy non le nega, ma le qualifica come «esteriori» e non abbastanza «avanzate» e radicali. Per lui Wagner tende ad accostarsi alla parola parlata; o piuttosto tende ad avvicinarsi ad essa, pur trattando le voci assai «vocalmente». Egli ha un modo di declamare che non è né il recitativo all'italiana, né l'aria lirica. Egli sovrappone le parole ad un discorso sinfonico continuo, pur subordinando questo discorso sinfonico alle parole. Ma non abbastanza, tuttavia. Le sue opere non realizzano che in parte i principi da lui proclamati al riguardo di tale necessaria subordinazione. Egli manca d'audacia, per applicarli. Egli ha troppa precisione e minuzia; non lascia spazio ad alcun sottinteso. Tutto ciò è molto commovente, ma anche molto compatto... e canta troppo. Bisogna cantare soltanto a tratti. Guiraud suggerisce allora per Debussy la qualifica di «wagneriano liberale» e il giovane replica: «non sono tentato di imitare ciò che amo in Wagner. Concepisco una forma drammatica diversa: la musica vi finisce là dove la parola finisce. La musica è fatta per l'inesprimile. Vorrei che avesse l'aria di uscire dall'ombra e che a tratti vi rientrasse. Che fosse sempre discreta». E al quesito: «chi potrà essere il vostro poeta?» Debussy risponde: «colui che dicendo le cose a metà, mi permetterà di unire il mio sogno ai suo; che concepirà dei personaggi la cui storia e abitazione non saranno di nessun tempo e di nesun luogo; che non m'imporrà despoticamente la «scena da fare» e mi lascerà libero. Ma egli non tema! Non seguirò gli errori del teatro lirico dove la musica predomina insolentemente; dove la poesia è relegata e passa in secondo piano, soffocata da un rivestimento musicale troppo pesante. Nel teatro musicale si canta troppo. Bisognerebbe cantare quando ne vale la pena e riservarsi gli accenti patetici. Ci vogliono differenze nell'energia e nell'espressione. A tratti è necessario dipingere per chiaroscuri e contentarsi di una «grisaglie»... nulla deve rallentare il procedere dei dramma: ogni sviluppo non richiesto dalle parole è un errore. Senza considerare che uno sviluppo musicale anche se appena prolungato, non è idoneo ad associarsi alla mobilità delle parole... io sogno dei poemi che non mi condannino a realizzare atti lunghi e pesanti; che mi forniscano scene mobili, diverse nei luoghi e nei caratteri; dove i personaggi non discutono, ma subiscono la vita e la sorte».

Ben presto Debussy doveva incontrare il poeta e il poema che sognava e che gli erano predestinati. Passeggiando lungo un boulevard parigino durante una sera dell'estate 1892, Debussy scorse nella vetrina d'una libreria il piccolo volume del poeta belga Maurice Maeterlinck che l'editore Lacomblez aveva pubblicato nel maggio dello stesso anno 1892. Lo comprò, lo lesse e lo rilesse e ne rimase conquistato. Delle idee musicali gli si affacciarono spontaneamente (prima fra tutte quella che nella quarta scena dell'atto quarto si associa alle parole rivolte da Pelléas a Mélisande durante il loro ultimo incontro: «On dirait que ta voix a passé sur la mer au printemps!»). Debussy decise subito d'iniziare la composizione del «Pelléas» e non esitò a troncare il lavoro all'opera «Rodrigue et Chimène» su libretto di Catulle Mendés iniziato nel 1890 e quasi completamente abbozzato. Per non dover dare spiegazioni imbarazzanti e per non urtare la suscettibilità del potente poeta francese finse un incidente che avrebbe distrutto il manoscritto tra le fiamme di un incendio. L'abbozzo doveva ricomparire solo dopo la morte di Debussy finendo nelle mani di Alfred Cortot. L'influsso di Wagner vi traspare nettamente anche se contemperato con elementi tipicamente francesi riferibili a Gounod e Massenet e a non pochi tratti personali che anticipano «Pelléas et Mélisande». Con ogni probabilità Debussy aveva intuito però che il mondo poetico alquanto convenzionale posto in essere da Catulle Mendés non era quello che egli cercava e che non gli era possibile immedesimarvisi per trovare sé stesso. L'affinità elettiva col mondo di Maeterlinck gli era apparsa per contro con fulminea immediatezza. Il lavoro del poeta belga sembra infatti scritto a bella posta per corrispondere ai postulati espressi da Debussy nel suo dialogo con Guiraud. Infatti i suoi protagonisti vivono, o meglio subiscono la loro vicenda in un paese indefinito, nel tempo irreale di una favolosa antichità. Non per nulla il nome del regno immaginario in cui l'azione si svolge presenta lo strano connubio di una parola tedesca con una parola francese: «Allemonde ». Alle-monde potrebbe significare letteralmente sia «tutto-il-mondo» che «nessun-mondo» od anche «mondo-finito». Dei protagonisti non si sa niente di preciso se non che il vecchio re Arkel ha un figlio malato che non si vede mai e non si sa dov'è. Geneviève, la madre dei due nipoti di Arkel, Golaud e Pelléas, è quasi priva di contorni. Appare fugacemente nella seconda e nella terza scena del primo atto. Mélisande, una sconosciuta, che non si sa donde venga, sposa Golaud (il quale l'aveva trovata in una foresta in cui ambedue si erano perduti), ma ama Pelléas. Golaud, marito geloso, uccide Pelléas e provoca, forse indirettamente, anche la morte di Mélisande. I protagonisti si perdonano reciprocamente delle colpe che non si sa se abbiano realmente commesso. Si sa solo che avranno subito «la vita e la sorte» come, dopo di loro toccherà alla bambina che Mélisande mette alla luce morendo. Esattamente come Debussy preconizzava. La concezione schopenhaueriana di un mondo «come volontà e rappresentazione» viene esattamente capovolta. Lungi dal neutralizzarla, Wagner l'aveva miticamente esaltata nel «Tristano» mediante l'introduzione del motivo del filtro che disinibisce la volontà e porta alla bruciante luce della coscienza la subconscia, latente, repressa, istintiva volontà d'amore e, abolendo ogni estrinseco freno inibitorio di ordine morale e sociale, la fa straripare in un atto di totale, inarrestabile estroversione che invade ogni recesso esistenziale fino a colmare l'abisso della morte. Nel «Pelléas» la volontà dei personaggi non si dispiega, ma resta passiva nell'ombra di una crepuscolare introversione. Questi personaggi non conoscono un destino che si può sfidare, contro il quale ci si può ribellare anche se mediante una lotta votata alla sconfitta perché del destino possono vedere «solo il rovescio». Su di essi incombe una fato ineluttabile che si può solo contemplare con un senso di sconfinata pietà per le vittime innocenti. Il mondo poetico che vi appare posto in essere è un mondo che è il negativo di quello pensato da Schopenhauer. Un mondo come «non volontà» e come rinuncia alla rappresentazione oggettiva di motivi drammatici. Vengono esibiti più che altro misteriosi nessi simbolici tra oggetti ed immagini del mondo e le oscure forze del fato. Cosi il testo di Maeterlinck inizia con la scena in cui delle ancelle, vestite di nero, «lavano la soglia, la porta e il marciapiede del castello» di un sangue che non è stato ancora versato, mentre il portiere osserva: «Si, si, versate l'acqua; versate tutta l'acqua del diluvio; non ne verrete mai a capo!». Strada facendo i simboli si moltiplicano: la nave che s'allontana incontro al naufragio; la corona caduta nell'acqua; l'anello nuziale caduto nella fontana; i mendicanti vegliardi addormentati nella grotta; i cani cacciati dai cigni; le pecore condotte al macello; i poveri che non riescono ad accendere un fuoco nella foresta; il vecchio giardiniere che rinuncia a sollevare un albero gettato dal vento traverso una strada; la pietra «più pesante del mondo» che il piccolo Yniold non riesce a sollevare etc. etc. Dopo aver assistito il 17 maggio 1893 ai «Bouffes-Parisiens» (Théàtre de l'Oeuvre) alla prima rappresentazione del «Pelléas et Mélisande» di Maeterlinck, Debussy, per nulla scoraggiato dalle ironiche accoglienze del pubblico, decide solo di chiedere a Maeterlinck l'autorizzazione di sfrondare un poco la selva dei simboli e di praticare qualche taglio e qualche adattamento. Accompagnato dall'amico Pierre Louys, Debussy si reca a Gand dove risiede Maeterlinck e ottiene ogni autorizzazione voluta. Pur conservando sostanzialmente il testo di Maeterlinck articolato in cinque atti, Debussy lo alleggerisce di taluni episodi simbolici quali la scena iniziale delle ancelle, il presagio di Arkel nella quarta scena dell'atto secondo, l'inseguimento dei cani per opera dei cigni nel terzo, la scena delle ancelle nella prima scena del quinto atto. Oltre a qualche abbreviazione nei dialoghi, Debussy rifiuta anche una seconda versione della stupenda canzone in tono popolaresco che Mélisande canta dalla finestra della torre (atto terzo, scena prima), seconda versione che il poeta inserirà invece in tutte le successive edizioni del suo lavoro.

Approntato il libretto, per quasi un decennio Debussy lasciò che l'opera maturasse pian piano non finendo mai di limare le figure sonore che costituivano musicalmente, dotandoli quasi di una trasfigurazione poetica di secondo grado, gli esseri intrisi di silenzio e di mistero immaginati da Maeterlinck.

Egli si trovava nel momento della prima e più felice maturità. Una provvidenziale congiuntura storica gli aveva permesso di conoscere quasi alla vigilia dell'inizio della gestazione del «Pelléas» la versione originale del «Boris Godunov» di Musorgskij (una copia era stata portata in Francia nel 1874 da Saint-Saëns il quale, non capendoci nulla e ritenendo Musorgskij «un pazzo, oscuro e grottesco declamatore» l'aveva lasciata a Jules de Brayer il quale la passò più tardi a Debussy). Nel 1889 egli aveva avuto, inoltre, modo di conoscere, in occasione dell'Esposizione Universale, il teatro musicale dell'Indocina e di Giava. Le impressioni che ne ricevette furono decisive. L'esperienza del supremo capolavoro di Musorgskij gli diede la spinta definitiva per rompere le stereotipate cornici delle «forme amministrative» e della quadratura discorsiva. Dal «Boris» Debussy apprese come superare la classica articolazione della trama lirica in recitativi, arie e concertati per adottare di preferenza i moduli di un dialogico recitar cantando che egli riallacciò in modo più radicale all'originario ideale dei primi operisti fiorentini e di Monteverdi. «Ciò si tiene e si compone per piccoli tocchi successivi, collegati da un misterioso legame e mediante un dono di luminosa chiaroveggenza»: nessuna frase meglio di questa che Debussy scrisse a proposito delle «Infantili» di Musorgskij esprimendo nel contempo tutta la sua riconoscenza per il grande compositore russo, nessuna frase, dicevo, meglio di questa, potrebbe caratterizzare lo stile maturo dello stesso Debussy. L'esperienza della musica dell'estremo Oriente incise invece sull'elaborazione timbrica e contribui ad un ulteriore allargamento dell'orizzonte modale della musica di Debussy. La sua occupazione col «Pelléas» non fu peraltro esclusiva nel decennio 1892-1902. Il «Quartetto» (1893), il «Prelude à l'Après-midi d'un Faune» (1892-1894), «Les Nocturnes» (Nuages, Fetes, Sirènes) (1898-1899), «Pour le piano: Prelude, Sarabanda, Toccata» (1896), le «Proses lyriques» (1893), le «Trois Chansons de Bilitis» (1892-1898); tutte queste opere testimoniano della straordinaria felicità creativa di cui Debussy era animato in questo periodo più fecondo della sua creatività. L'editore Hartmann (alla cui memoria Debussy dedicherà il «Pelléas») gli paga un mensile fisso per metterlo in grado di compiere l'opera, la sua notorietà comincia a diffondersi e l'attesa per l'opera cresce parallelamente all'insorgere delle prime resistenze e ostilità contro l'ardito novatore. Assai prima che l'opera fosse terminata e pubblicamente conosciuta nella sua interezza (in privati circoli intellettuali e artistici Debussy faceva ascoltare i frammenti che man mano andava completando) si andavano formando dei gruppi di sostenitori entusiasti e di oppositori altrettanto accaniti del giovane compositore. Il quale, nonostante la felice vena creativa che lo sorreggeva, conosceva sovente il tormento dei dubbi e dei pentimenti. Al punto che, terminato un primo abbozzo completo nella primavera del 1895, rimise tutto il lavoro in cantiere e lo riplasmò interamente. Per l'interessamento del compositore e direttore d'orchestra André Messager (per il quale Debussy formulò poi una seconda dedica dell'opera) il «Pelléas», ancora prima di essere completamente terminato, fu presentato ad Albert Carré, direttore deH'Opéra-Comique. Carré ne rimase profondamente colpito, accettò l'opera seduta stante, sollecitò Debussy di portarla a termine e gli chiese di comporre una serie di intermezzi strumentali per coprire il tempo necessario per i cambiamenti di scena (richiesta che si rivelò davvero provvidenziale dal momento che, per dirla con le parole dello stesso Carré, questi intermezzi risultarono dei veri e propri «capolavori dentro un capolavoro» che con la loro espansività espressiva bilanciano felicemente la delicata riservatezza delle parti vocali). Tale era l'entusiasmo di Carré, tale il suo desiderio di realizzare il «Pelléas» che, per guadagnare tempo, egli suddivise il compito di approntare i bozzetti per le scene e i costumi tra tre artisti (Jusseaume, Ronsin e Bianchini). Debussy era però in ritardo con l'orchestrazione: lavorava ancora alla partitura quando le prove ebbero inizio il 13 gennaio 1902. Innumerevoli errori di copiatura rendevano vieppiù difficile la lettura di una musica che, per quel tempo, era di una novità sconvolgente. La preparazione dell'opera durò tre mesi e mezzo. Le prove d'insieme furono ben quaranta e non mancarono incìdenti e difficoltà d'ogni specie. A tutto ciò si aggiunse la tempestosa rottura con Maeterlinck. Il poeta avrebbe voluto imporre per il ruolo di Mélisande l'attrice-cantante Georgette Leblanc (alla quale era legato dal 1895 e che divenne poi sua moglie), ma Carré aveva scelto la debuttante Mry Garden e, d'accordo con Debussy e Messager, non cedette neanche alle minacce di Maeterlinck di adire le vie legali. Il 13 aprile 1902 (cioè due settimane prima della prova generale) Maeterlinck arrivò ad inviare al «Figaro» una lettera aperta in cui affermava, tra l'altro: «La direzione dell'Opóra-Comique annuncia la prossima rappresentazione di «Pelléas et Mélisande». Questa rappresentazione avrà luogo me malgrado...

Si vedrà quanto il testo adottato dall'Opera-Comique differisce dal testo autentico. In una parola, il «Pelléas» in questione è un lavoro che mi è diventato estraneo, quasi nemico; e, spogliato da qualsiasi controllo sulla mia opera, sono ridotto a desiderare che la sua caduta sia pronta e clamorosa».

Atteggiamento che, se non ci fossero le personali ragioni extra-artistiche di cui s'è detto, apparirebbe, più che paradossale, inspiegabile. Giacché esistono solo pochi altri esempi di un'aderenza cosi idealmente perfetta di una musica ad un testo come quella attuata da Debussy nel «Pelléas». Non per nulla Paul Dukas potè scrivere all'indomani della prima rappresentazione: «Debussy è riuscito magnificamente a circondare il dramma di M. Maeterlinck dell'atmosfera che gli si addiceva. Vi è riuscito senza che la sua originalità musicale e le sue doti — che per qualunque altro sarebbero state, qui, forse, ragione d'imbarazzo — l'abbiano fatto deviare minimamente dalla linea prefissa... Non c'è che la musica; ma una musica incorporata all'azione in un modo cosi naturale, sgorgata tanto naturalmente dalla situazione, dalla scena e dal linguaggio, una musica cosi vicina alla musica inclusa sotto le parole che, nell'impressione totale ingenerata da questa specie di trasfusione sonora, diventa impossibile dissociarla dal testo che essa penetra; al punto che, in ultima analisi, la musica potrebbe apparire come opera inconsapevole del poeta allo stesso modo come il testo potrebbe apparire opera del musicista...». Nello stesso ordine d'idee Maurice Emmanuel poteva affermare: «Dall'incontro, non casuale, tra due artisti che un'armonia prestabilita sembrava avvicinare, è nata un'opera collettiva senza precedenti». Fatto sta però, che Maeterlinck non si riconciliò mai con Debussy e andò a vedere «Pelléas et Mélisande» solo dopo la morte del compositore e quando erano passati ormai due decenni dalla prima rappresentazione dell'opera. Questa première mondiale aveva avuto luogo il 30 aprile 1902 e, alla pari della prova generale pubblica del precedente 27 aprile, fu burrascosissima. Sembrò davvero che il malaugurio del poeta stesse per avverarsi e che l'opera sarebbe rimasta sepolta sotto i lazzi, le pesanti ironie, le risate e gli zittii di un pubblico ostile e impietoso. Tuttavia la fermezza di André Messager che la dirigeva con amorevole dedizione, di Carré e l'appoggio della parte più illuminata della critica e soprattutto di musicisti quali Satie, Dukas, D'Indy, Ravel e Koechlin, riuscirono ad avere ragione della parte più retriva del pubblico e della stampa e a mantenere l'opera in cartellone per 14 sere. Si formò tosto un nucleo di entusiasti che comprendeva non solo artisti e intellettuali raffinati, ma anche molti giovani loggionisti ai quali Carré offri le poltrone disertate dagli abbonati. Grazie a questo partito dei «Pelléastres» l'iniziale fiasco si trasformò gradatamente in un successo duraturo: nei successivi vent'anni «Pelléas et Mélisande» conobbe ben 152 repliche alla stessa Opéra-Comique e 155 rappresentazioni nei principali paesi dell'Europa e dell'America. Pur continuando per qualche tempo a suscitare delle appassionate e anche violente polemiche (per avere un'idea delle reazioni che l'arte di Debussy suscitava allora basta sfogliare le pagine dell'inchiesta «Le Cas Debussy» pubblicata nel 1909 dalla «Revue du Temps Présent») «Pelléas et Mélisande» fu riconosciuto non solo come il capolavoro di Debussy, ma come una delle opere capitali del teatro lirico e della storia musicale in genere. Un capolavoro però, che proprio per le caratteristiche singolarissime della poetica teatrale che in essa si attua non potè creare una tradizione, non potè avere un seguito nemmeno nella successiva produzione di Debussy, non potè, insomma, costituirsi a modello per ulteriori sviluppi dell'opera in musica. Sul piano dell'intrinseco divenire delle strutture linguistiche della musica europea l'incidenza del «Pelléas» fu per contro immensa. E non tanto per l'invenzione di nuovi vocaboli e di nuove entità grammaticali, quanto per la nuova, inedita messa in giuoco di simili elementi di conio nuovo o antichissimo resa possibile dalla radicale liberazione delle più inveterate e consolidate convenzioni discorsive sottese alla tradizione musicale dell'Occidente. La rottura di tali convenzioni si profila ovviamente anche nelle altre composizioni debussyane contemporanee od anche precedenti al «Pelléas»: ma è soprattutto in quest'opera che la rivoluzione sintattica preconizzata da Debussy trova il suo inveramento compiuto e dotato di una forza d'urto che sembra paradossalmente proporzionata alla dolcissima delicatezza con la quale si esplica. Tutti i protagonisti della successiva fase storica della musica europea vi attingeranno: Stravinsky si gioverà dell'emancipazione delle entità armonico-tonali. Schoenberg si varrà delle scoperte timbriche. Bartók profitterà delle une e delle altre. Senza parlare di Ravel, il quale penserà soprattutto a rassodare le più vaporose e impalpabili conquiste debussyane. E ancora oggi Boulez mette a frutto le innovazioni di Debussy nel campo di un'inedita articolazione dei valori concernenti la variabile densità delle figure sonore di cui nessun compositore prima di Debussy aveva saputo trarre un partito consapevole e che fino ad oggi nessun trattato di composizione ha teorizzato.

Le radicali innovazioni vengono bilanciate peraltro nel «Pelléas» da sostanziali, anche se perlopiù dissimulati, elementi di continuità e di aggancio con la tradizione sia lontana che immediatamente precedente. Giustamente Ernest Ansermet, rispondendo all'inchiesta della «Revue du Temps Présent», scriveva che la musica di Debussy «continua nettamente l'opera di Wagner e insieme quella dei Russi, arricchendo e rendendo più snella la prima mediante le trovate di questi ultimi, restando d'altra parte l'espressione di una personalità che riassume fortemente la sua epoca e il proprio paese». Che Wagner assumesse nei confronti di Debussy il ruolo di un vero e proprio classico che non si vuole imitare, contro il quale si reagisce, anzi, polemicamente, ma delle cui esperienze ci si vale in modo tanto più legittimo ed efficace quanto criticamente filtrato, questo lo dimostra tra l'altro il modo nel quale, pur contestando l'abuso della tecnica del «Leitmotiv» di cui Wagner si sarebbe reso colpevole specie nella «Tetralogia», Debussy ricorre ad una tecnica analoga nel «Pelléas». Anche questa non è certo una scoperta critica, dal momento che già quarant'anni fa Maurice Emmanuel nel suo fondamentale studio analitico su «Pelléas et Mélisande» affermava testualmente: «Tuttavia, senza averlo sospettato, e malgrado un orientamento proprio che doveva condurre a delle divergenze radicali, si può dire che nel «Pelléas» egli (Debussy) giuoca coi temi come Wagner ne aveva giuocato nel «Tristano».

Il significato di questa constatazione non viene indebolito certamente dal successivo assunto: «...non bisogna affibbiare ai temi del "Pelléas" l'appellativo wagneriano di temi-conduttori: essi hanno un ruolo più discreto: a tratti li si vede cambiare, apparentemente, valore significativo. Bisogna tenersi unicamente al "simbolo", alle associazioni sottili di sentimenti e d'immagini, per indovinare attraverso quale intenzione segreta il musicista li fa riapparire. "Pelléas" rinchiude una specie di mistica musicale, dal senso nascosto, che conferisce all'impiego dei temi e ai loro ritorni un valore d'eccezione». Lo stesso Emmanuel individua e designa tredici di questi motivi o simboli musicali. Sarebbe oltremodo illuminante ed istruttivo seguire passo per passo le enunciazioni e gli sviluppi che ognuno di questi motivi conosce durante il dipanarsi della vicenda sonora di «Pelléas et Mélisande». Abbiamo cercato di farlo, almeno in parte, in occasione della Conferenza di presentazione di quest'opera. In questa sede dobbiamo limitarci a darne uno schematico elenco.

Nelle ventiquattro battute introduttive della sola orchestra risuonano successivamente tre motivi. Il primo, proposto pianissimo, viene designato da Maurice Emmanuel come «Les temps lontaines...». Effettivamente col suo arcaico sapore modale, esso sembra evocare lontananze infinite di tempo e di spazio. Subito dopo appare il motivo di Golaud inquietamente oscillante tra due note contigue sospese sopra strutture armoniche esatonali che creano qualcosa come un «buco nero» nell'orizzonte tonale. Questa voragine inghiotte ogni forza gravitazionale ingenerando una subitanea incertezza tonale: perfetto correlato dell'angosciosa incertezza di un personàggio, perduto nel proprio mondo interiore come simbolicamente si è perduto nella mitica foresta: «Credo che mi sono perduto da me stesso e i miei cani non mi ritrovano più» Segue e successivamente si sposa al motivo di Golaud il motivo «dolce ed espressivo» di Mélisande che, poco più tardi, si prolungherà con una breve fanfara dei corni che simboleggia la corona caduta in fondo alla fontana (il riferimento, anche se solo istantaneo, a certi incisi del Tristano appare, qui, lampante). Alla fine dell'interludio che porta alla seconda scena trombe e tromboni espongono in crescendo un motivo che Maurice Emmanuel chiama «La destinée» e che, infatti, preannuncia il fatale avvio del dramma. L'ingresso di Pelléas viene sottolineato da un motivo strutturalmente imparentato con quelli di Golaud e di Mélisande in un rapporto quasi triangolare (le prime due note delimitano l'intervallo caratteristico del motivo di Golaud, le altre s'iscrivono nello stesso intervallo di quarta entro il quale prende corpo il motivo di Mélisande). Nella prima scena del secondo atto un liquido arabesco disegnato da archi e flauti si riferisce alla «Fontana nel parco» nella quale cadrà l'anello nuziale dato da Golaud a Mélisande e raffigurato da un motivo simbolico che procede chiaramente dal motivo di Golaud. Nel terzo atto il grave e arcaico motivo iniziale dell'opera si trasmuta mediante il semplice cambiamento di registro e lo spostamento d'ottava di una nota nel fresco tema del piccolo Yniold. Nell'ultima scena del quarto atto si dispiega finalmente il motivo che aveva segnato il primo scatto della fantasia creatrice di Debussy sollecitata dalla vicenda di Pelléas e Mélisande. Maurice Emmanuel lo etichetta «L'Amour déclaré». I motivi de «L'amour éperdu», della morte della bambina e del perdono completano il materiale tematico dell'opera. Materiale ricco di un dolcissimo quanto penetrante potere allusivo a paesaggi, fatti, situazioni e caratteri umani.

Debussy raggiunge però i vertici della propria creatività nei momenti in cui il discorso musicale che egli configura sulla base di questo materiale trascende incommensurabilmente ogni allusione e ogni suggestione riferibili ad una contingenza scenica per toccare quello che egli stesso defini come «la chair nue de l'émotion». In quei momenti supremi lo schivo Debussy non esita a richiedere esplicitamente che la sua musica venga sostenuta «avec la plus grande expression». Questo è il caso, ad esempio, dell'intermezzo orchestrale tra la seconda e la terza scena del quarto atto e che segue all'atroce scena tra Golaud e Mélisande suggellata dalla frase di Arkel (anche questa da eseguire in modo «molto sostenuto, espressivo»): «Si j'étais Dieu, j'aurais pitie de coeur des hommes». Il cuore dell'opera è qui.

Roman Vlad


(1) "Dizionario dell'Opera 2008", a cura di Piero Gelli, edito da Baldini Castoldi Dalai editore, Firenze (2) Testo tratto dal programma di sala del Concerto del Maggio Musicale Fiorentino,
Firenze, Teatro Comunale, 28 gennaio 1977


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Ultimo aggiornamento 6 marzo 2019