Douze Études in due libri per pianoforte, L 143


Musica: Claude Debussy (1862 - 1918)

Primo libro
  1. Pour les cinq doigts d'après monsieur Czerny - Sagement. Animé, mouvement de gigue (do maggiore)
  2. Pour les tierces - Moderato, ma non troppo (re bemolle maggiore)
  3. Pour les quartes - Andantino con moto (fa maggiore)
  4. Pour les sixtes - Lento (re bemolle maggiore)
    Composizione: Parigi, 22 Agosto 1915
  5. Pour les octaves - Joyeux et emporté, librement rythmé (mi maggiore)
  6. Pour les huit doigts - Vivamente, moto leggiero e legato (sol bemolle maggiore)

Secondo libro
  1. Pour les degrés chromatiques - Scherzando, animato assai (la minore)
  2. Pour les agréments - Lento, rubato et leggiero (fa maggiore)
    Composizione: Parigi, 12 Agosto 1915
  3. Pour les notes répétées - Scherzando (do maggiore)
  4. Pour les sonorités opposées - Modéré, sans lenteur (do diesis minore)
  5. Pour les arpèges composés - Dolce e lusingando (la bemolle maggiore)
  6. Pour les accords - Décidé, rythmé, sans lourdeur (la minore)
Organico: pianoforte
Composizione: Pourville, 23 Luglio - 27 Settembre 1915
Prima esecuzione: Parigi, Société Nationale de Musique, 14 Dicembre 1916
Edizione: Durand, Parigi, 1916
Dedica: À la mémoire de Frédéric Chopin
Guida all'ascolto 1 (nota 1)

Claude Debussy compose i Dodici Studi, ultimo suo lavoro pianistico, tra l'agosto e il settembre del 1915 a Pourville, nella villetta «Mon coin» che gli era stata offerta per le vacanze. Alla fine dell'anno i dodici pezzi, messi in bella copia, venivano inviati all'editore Durand che li pubblicava nel 1916. La prima esecuzione aveva luogo il 14 dicembre 1916, a Parigi, ad opera del pianista Walter Rummel.

Ciò che colpisce innanzi tutto il lettore, negli Studi di Debussy, sono i titoli, che richiamano problemi tecnici o classiche partizioni dei metodi (cinque dita, terze, seste, ottave, passi cromatici, note ribattute, ecc. ). In antico (Cramer, Steibelt, Berger, Kalkbrenner, Hummel, Bertini, ecc.) lo studio non veniva intitolato altro che studio; anzi, non c'era una netta distinzione tra studio ed esercizio e i due termini venivano usati indifferentemente o venivano sostituiti entrambi, più raramente, con il termine capriccio. Nel 1826, pubblicando i primi dodici di una progettata raccolta di quarantotto pezzi didattici, il quindicenne Franz Liszt intitolava la sua opera Studio in quarantotto esercizi. E il 20 ottobre 1829, scrivendo all'amico Titus Woyciechowski, Chopin comunicava di aver composto un «grande Exercice en forme», che altro non era se non uno degli Studi dell'op. 10. Il Romanticismo cominciava però presto a... mettere ordine nella materia, avviando la netta distinzione tra esercizio e studio. Con il primo termine si indicava la formula tecnica sfruttata in un modo che prescindeva da una logica musicale, con il secondo si indicava l'impegno a costruire su una formula tecnica un pezzo musicalmente compiuto. Distinzione che troviamo negli Studi sui Capricci di Paganini op. 3 di Schumann (1832), in cui gli studi sono preceduti da esercizi preparatori.

La distinzione si complicava però subito perché i primi concertisti che creavano il cosiddetto recital eseguivano in pubblico anche degli studi, i quali per definizione avrebbero invece dovuto essere cosa da retrobottega, non da vetrina. Quando Liszt eseguì alla Scala, nel febbraio del 1838, alcuni di quelli che sarebbero diventati poi gli Studi di esecuzione trascendentale, provocò in uno spettatore un'ovvia obbiezione: «Vengo a teatro per divertirmi, non per studiare».

L'aneddoto è narrato, in una corrispondenza alla Gazette Musicale di Parigi, dallo stesso Liszt, che così conclude: «Non riuscii pertanto a fare apprezzare dal pubblico l'idea barocca di eseguire, altrove che nella mia stanza, uno "studio", il cui scopo doveva essere quello di esercitare le articolazioni e render più agili le dita. Tanto che dovetti considerare la longanimità del pubblico nell'ascoltarmi sino alla fine come una prova di particolare benevolenza».

Siccome Liszt infiora i suoi scritti di brillanti tratti di colore, sulla assoluta veridicità dell'episodio non giureremmo. Ma non è improprio pensare che il pubblico dei teatri, abituato ai cantanti, facesse il viso dell'armi allo studio pianistico. Così come non è improbabile che, una volta ascoltatolo, si accorgesse che nella nuova accezione romantica l'arcigno studio non era poi così lontano dalla graditissima cabaletta.

L'esperienza scaligera non spaventò Liszt, che continuò ad eseguire in pubblico i suoi studi, così come qualche studio eseguiva, nei suoi rari récitals, Chopin. Liszt eseguì anche studi di Chopin, di Moscheles, Döhler, Killer, Kessler; nel 1847, pubblicando uno studio, gli diede un titolo programmatico: Mazeppa.

L'idea dello studio con titolo specifico non era stata di Liszt, ma di Moscheles. Già autore di una raccolta di studi, op. 70, composta nel 1826, Moscheles aveva composto nel 1836 dodici Studi caratteristici op. 95 che cominciavano con Sdegno e finivano con Angoscia, pur contenendo cose più dolci come la Tenerezza e il Chiaro di luna sulla riva del mare. Negli Studi dell'op. 70 si trovava per ogni brano un fervorino esplicativo, ma giunto al ventitreesimo Moscheles aveva confessato: «Nel concepimento del suo piano, l'autore si è proposto di dipingere un Combattimento di demoni». Con la prefazione dell'op. 95, ponendosi in capofila di tutti i romantici, Moscheles dichiarava: «Sono in special modo i sentimenti dell'animo e gli eccessi delle passioni che l'autore bramerebbe manifestare col mezzo del linguaggio musicale».

Studio con titolo programmatico, dunque. L'esempio fu subito seguito da Adolph Henselt negli Studi op. 2, da Liszt e da altri. Tanto gradito divenne l'uso che ai popolari Studi di Chopin vennero in seguito aggiunti titoloni apocrifi, ben noti anche oggi.

Intanto Carl Czerny, che continuava a scrivere valanghe di studi da non eseguire in pubblico, pensò bene di dare dei titoli non caratteristici ai cinquanta pezzi della sua op. 740, L'arte di rendere agili le dita. Nell'op. 740 di Czerny si comincia con Movimento delle dita a mano quieta e si finisce con Bravura nella percussione e nel tempo, passando attraverso squisitezze più raffinate ancora di quelle a venire di Debussy, come Movimento leggero nello staccato tranquillo o Dolce saltellare e staccare o Franca percussione o Melodie legate con accordi sciolti.

Si era così stabilita la netta distinzione tra lo studio didattico o studio tout court e lo studio da concerto. Il primo poteva diventare, più specificatamente, Studio per... (per le.ottave, le terze, gli arpeggi ecc.), il secondo poteva prendere o no un titolo caratteristico. Restava comunque sempre la distinzione di principio tra ciò che era destinato all'utilità dell'esecutore e ciò che trasformava l'utile dell'esecutore in dilettevole per il pubblico.

Nel 1989, con gli Studi op. 111, Camille Saint-Saéns creava però un paradosso: alcuni dei suoi titoli - Per le terze maggiori, ad esempio - richiamavano Czerny e la tradizione didattica; mentre il contenuto era a destinazione concertistica. Sedici anni più tardi Debussy riprendeva con ben altra ampiezza il paradosso di Saint-Saéns e offriva al pubblico titoli a destinazione didattica con contenuti a destinazione concertistica. E destinazione concertistica vuol dire contenuto da comunicare al pubblico, vuol dire presa di posizione sul mondo.

Ma è proprio concertistico, il contenuto degli Studi di Debussy? O, essendolo, è proprio certo che Debussy abbia centrato il bersaglio?

La storia critica e la storia esecutiva degli Studi di Debussy sono due autentici cammini verso il Golgotha, perché la disistima che li circondò, in quanto opere d'arte, fu tanto diffusa quanto diffusa fu la stima dei Preludi. Non è il caso, e non c'è spazio per far qui l'antologia dei giudizi critici: possiamo però dire che le valutazioni interamente positive cominciarono solo di recente, all'incirca negli ultimi vent'anni.

Altrettanto recente, e tutt'altro che consolidato, è l'inserimento degli Studi nel repertorio concertistico. Walter Rummel era un pianista francese di origine tedesco-americana, nato nel 1887, che si era distinto per aver presentato a Londra, il 12 giugno 1913, l'intero secondo libro dei Preludi di Debussy. Un altro po' di notorietà veniva al Rummel dalla sua ascendenza familiare: il nonno materno era l'inventore del telegrafo, Samuel Morse. Comunque, non si trattava di un concertista affermato ma di un giovane di belle speranze. E non è neppur chiaro perché venissero il 14 dicembre 1916 eseguiti dal Rummel tutti gli Studi, visto che a Parigi i Preludi erano stati presentati, sia da Debussy stesso che dal suo interprete principe Ricardo Vines, a gruppetti di tre o quattro per volta.

Dopo il Rummel nessun altro ritentò l'impresa, sebbene le difficoltà tecniche degli Studi stimolassero i virtuosi. Igor Markevitch, in Etre et avoir été, ha raccontato un curioso aneddoto. In montagna sopra Sils Maria, Markevitch sentì pervenire da uno chalet una focosa esecuzione della Sonata di Liszt. Si avvicinò ed entrò. Era Horowitz. La donna che accompagnava Markevitch chiese a Horowitz di continuare a suonare: «Fu straordinario. Volle farci condividere il suo entusiasmo per gli Studi di Debussy, che aveva appena scoperto e che leggeva a prima vista come se li conoscesse da sempre».

Horowitz eseguì in pubblico ben sei Studi (i numeri 1, 3, 4, 6, 8, 11), ma molto raramente e senza riuscire a farli diventare popolari. Pochi Studi eseguì Gieseking, che metteva invece abitualmente in programma un libro o il ciclo completo dei Preludi, e pochissimi ne eseguirono altri concertisti che si dedicavano con zelo a Debussy, come Robert Schmitz e Marcel Ciampi.

Poco prima della guerra i Dodici studi furono incisi in disco da un oscuro pianista, Adolph Hallis, per la Decca. Questa incisione rimase sconosciuta, tanto che ancor oggi viene segnalata come prima incisione integrale quella di Charles Rosen, futuro autore dello Stile classico: «... all'età di ventisette anni [1954] avevo registrato per una piccola casa di dischi americana [la REB] gli Studi di Debussy. Avevo battuto di qualche mese Monique Haas, e Gieseking di circa un anno. Era la prima registrazione integrale degli Studi» (Intervista di Charles Rosen su Le monde de la musique, febbraio 1986). Se aggiungiamo la registrazione di Hans Henkemans, non ricordata dal Rosen e anch'essa del 1954, abbiamo l'idea di come un interesse per gli Studi di Debussy si destasse insieme con l'affermazione della cosiddetta Nuova Musica.

L'interesse delle avanguardie degli anni '50 era orientato specialmente verso Jeux di Debussy; ma l'attenzione si spostava in genere dalle pagine debussiane più note a quelle che erano restate fino ad allora ai margini della vita concertistica. Le esecuzioni pubbliche degli Studi furono così abbastanza frequenti per qualche anno, ma né la raccolta nel suo insieme, né alcuni brani di essa diventavano veramente di casa nei repertori concertistici. E anche le incisioni discografiche, dopo il 1954-55, si facevano molto rare (mentre numerose erano quelle dei Preludi) e si collocavano per lo più nell'ambito delle «integrali» di tutta l'opera pianistica di Debussy. Né gli Studi entravano nel repertorio di interpreti debussiani come Benedetti Michelangeli, Richter o, più di recente, Arrau.

Gli Studi di Debussy sono dedicati "Alla memoria di Frédéric Chopin", e furono composti mentre Debussy preparava una revisione delle opere di Chopin. Ma c'è anche un più sottile filo che lega Debussy a Chopin.

Ci sono opere di Chopin che lo Hedley definisce «scolastiche e riflessive». Stilisticamente, gli Studi di Debussy sono opere molto composite, che vanno dal radicalismo di linguaggio del Per le sonorità opposte alle quasi-citazioni dell'esotismo orientaleggiante del Per le quarte alla quasi-citazione del giovanile Clair de lune che si trova nello studio Per le terze.

Ma se questo aspetto, per la riflessione sul proprio passato e per la ripresa manieristica di momenti stilisticamente diversi della propria evoluzione, la poetica del tardo Debussy riprende la poetica del tardo Chopin, per altri aspetti Debussy e Chopin differiscono radicalmente. E differiscono soprattutto perché nel Debussy degli Studi è molto vivo il piacere del gioco con l'oggetto sonoro.

Per Debussy, al contrario di Czerny, non si tratta di addestrare l'esecutore nelle terze e nelle seste o nelle ottave. I titoli, in questo senso, sono dei veri e propri inganni perché mantengono il pour utilitaristico mentre lo scopo non appare più utilitaristico. Anche la famosa dichiarazione della prefazione, la dichiarazione di non aver voluto indicare diteggiature perché ciascun esecutore deve cercarsi la sua diteggiatura, si prende in realtà, a parer nostro, gioco del lettore.

Moscheles, nella prefazione agli Studi op. 95, aveva espresso lo stesso concetto con infantile candore: «Supponendo le mani dell'esecutore già addestrate per vincere le grandi difficoltà tecniche, [l'autore] ha creduto di dover sopprimere le osservazioni relative al modo di suonare ogni studio [...]; così la diteggiatura non vi è indicata se non accidentalmente». Scrivendo anche lui per mani già addestrate (e perciò non indicava diteggiature), Debussy non mirava però a dipingere «i sentimenti dell'animo e gli eccessi delle passioni» di cui parlava ottant'anhi prima Moscheles. L'abilità del compositore del Novecento consiste ormai nel far muovere un oggetto sonoro giocando con esso, e non più nel suscitare immagini. Non più il mago ottocentesco, ma il novecentesco fantasista. E se il sorgere del virtuosismo romantico coincide con le invenzioni di magia di Robert-Houdin, il virtuosismo di Debussy coincide con il culmine dell'arte del giocoliere: proprio nel 1915 Enrico Rastelli arriva a far volare dieci palle di gomma, battendo il record di Pierre Amoros e stabilendo un insuperabile limite.

Già con il penultimo dei Preludi, Le terze alternate, Debussy era passato nella estetica dell'oggetto (del mobile, potremmo dire anacronisticamente) e non più dell'espressione. Era un'estetica che partiva da Liszt e che nasceva in Sulla riva di una sorgente e che scorreva nei Giochi d'acqua alla Villa d'Este, ma che da Liszt e da altri era stata intesa in senso simbolista.

Nel Saint-Saéns dell'op. 111, nello Skriabin dello Studio op. 65 n. 1 sull'intervallo di nona (1912), nel Debussy delle Terze alternate (1913), il suono non simboleggia invece l'oggetto ma è l'oggetto. Negli Studi questa estetica rivoluzionaria prende corpo e si fa manifesto artistico invece che esperimento, e l'oggetto si presenta come tale, gravato di tutte le memorie storiche ma liberato dai significati simbolico-espressivi. Debussy ci da l'oggetto della sua etichettatura: le terze sono dolci e mormoranti, languide le seste, baldanzose ed eroiche le ottave, monumentali gli accordi, orientaleggianti le quarte, «liquidi» gli arpeggi, ecc. È il catalogo degli oggetti e della loro tipologia espressiva, una raccolta di forme sonore il cui significato permane solo come memoria storica. Il giocoliere fa volare i piatti, Debussy fa volare i tratti cromatici, il giocoliere costruisce una torre di sedie e tavoli, Debussy sovrappone le sonorità,opposte, il giocoliere fa apparire e sparire il mazzo di carte, Debussy fa apparire e sparire le cinque note «secondo il signor Czerny».

Ma il gioco è cosa seria? È serio giocare con le terze nel 1915, nel primo anniversario di una conflagrazione che distruggerà il vecchio ordine delmondo? È questa la risposta di un artista nel pericolo della sua patria e nella crisi della civiltà?

La Berceuse héroïque della fine del 1914 e En blanc et noir dei primi mesi del 1915 sono opere «patriottiche». «Patriottico» è Le tombeau de Couperin di Ravel, iniziato nel 1914. Gli Studi non hanno queste ambizioni ma celebrano, catalogandola e facendola volteggiare, una civiltà che è già morta. Ed è difficile per noi accettarli, non per quel che sono, ma per quel che non rappresentano. Perché in cuor nostro mormoriamo, quasi come l'anonimo ascoltatore di Liszt alla Scala nel 1838: vengo a teatro per studiare, non per divertirmi.

Nel 1976 venne scoperto tra le carte lasciate da Debussy un pezzo intitolato Pour les arpèges composés, esattamente come l'undicesimo Studio. Non si tratta, come dicono alcuni cataloghi, di una "prima versione" dello Studio, perché le due composizioni hanno in comune solo la finalità tecnica. Sembra probabile che si tratti invece di un pezzo destinato in origine a far parte degli Studi e poi scartato. Scartato, perché? Non è facile rispondere, ma sembra legittimo supporre che la scrittura pianistica di questo pezzo fosse troppo genericamente assimilabile a quella di compositori-virtuosi del tardo Ottocento (Moszkowski e Rachmaninov, ad esempio). Il pezzo fu pubblicato con il titolo, apocrifo ma suggestivo, di Étude retrouvée.

Piero Rattalino

Guida all'ascolto 2 (nota 2)

Scritte nel 1915, e dunque nell'ultimissima fase dell'attività creatrice di Debussy, le «Douzes Études» costituiscono, a giudizio della critica - se non per la fortuna presso pubblico ed esecutori - il vertice della produzione pianistica del compositore francese. A determinare questo congedo di Debussy dal pianoforte, ci fu l'intento didattico, ovviamente trasceso, ma anche quello di inserirsi in una tradizione illustre al cui vertice vi erano gli studi di Chopin. E infatti i due volumi uscirono con una dedica «à la mémoire de Frédéric Chopin» e con una breve prefazione. In essa Debussy spiegava, non senza ironia nei confronti delle scuole pianistiche, la mancanza nel testo di indicazioni per la digitazione, concludendo «Cherchons nos doigtés!». A parte questa presentazione, i dodici studi costituiscono un altissimo esercizio che, partendo dai problemi di tecnica elencati nel prospetto, dà una sistemazione definitiva a quanto nella sua lunga serie di opere, pianistiche e non, Debussy aveva fatto per la musica. Scherzosamente il primo studio, per le cinque dita, parte «d'après Monsieur Czerny» con l'indicazione «sagement» e con lo stesso incipit di uno degli esercizi elementari dei virtuosi in erba. Una saggezza che si perde subito nella ricerca di preziosità armoniche e ritmiche. Né l'ultimo Debussy trascura le reminiscenze. Come dietro un velario, sono avvertibili richiami ad opere precedenti, vicine e lontane, soprattutto nel terzo studio «pour les quartes». Su tutto domina il distacco. Debussy, pur malato mortalmente, si permette un altissimo ludus evidenziato anche nei giochi di parole rossinianamente apposti ai passaggi più significativi: «Scherzandare, murmurando...». Il secondo libro va ancora oltre nella via dell'astrazione, il che spiega la relativa fortuna presso il pubblico di questa silloge che, al par di tanti altri lavori dell'addio alla (propria) arte, è un continuum speculare in cui la musica gioca con se stessa e rimanda perpetuamente e solamente a se stessa.

Bruno Cagli


(1) Testo tratto dal programma di sala del Concerto dell'Accademia di Santa Cecilia,
Roma, Auditorio di Via della Conciliazione, 11 Dicembre 1992
(2) Testo tratto dal programma di sala del Concerto dell'Accademia Filarmonica Romana,
Roma, Teatro Olimpico, 9 febbraio 1977


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Ultimo aggiornamento 17 gennaio 2016