Webern compose questi Sei Pezzi nell'estate del 1909, all'età di ventisei anni, quando, dottore in Filosofia (con una tesi in musicologia discussa a Vienna con Guido Adler) e allievo di Schönberg, si guadagnava da vivere dirigendo operette come maestro sostituto alla Volksoper: la nozione di "musica" è ormai diventata qualcosa di così vasto che raramente mondi espressivi così diversi avevano coabitato in un solo individuo; mestiere musicale e composizione, da sempre uniti e fecondi di scambi reciproci, celebravano ormai un assodato divorzio.
Il ciclo dei sei pezzi era stato concepito in origine per una orchestra enorme, e Schönberg s'incaricò di dirigerne la prima esecuzione pubblica, il 31 marzo 1913, nella sala del Musikverein di Vienna; nel 1928 Webern ne approntò una nuova versione per orchestra normale, ma pur sempre cospicua, di portata mahleriana e straussiana per intenderci; in questa occasione dal quarto brano fu soppresso il titolo "Marcia funebre" presente in origine.
L'op. 6 è un lavoro capitale perché mai tanti mezzi erano stati impegnati per dire cose tanto minime, segrete e distillate; la tendenza già presente in Mahler, a spaccare gli accordi e isolare i suoni malgrado gigantesche assemblee sinfoniche, raggiunge l'apice in questa partitura dove ogni suono, vagando in un universo sbattezzato, senza punti cardinali, si incide come una impercettibile scalfittura. Il pensiero dominante è all'opposto dell'impressionismo, i timbri anziché fondersi nello sfumato, si sollevano come un reticolo di ferro, dove ogni combinazione sonora risplende come un evento, mai detto o udito prima; anche la durata minima ha poco in comune con lo spirito dell'aforisma, singolarmente aperto e allusivo: al contrario, qui il tracciato è chiuso in se stesso, e sotto l'aspetto spettrale scatti di furia e abbandoni di tenerezza sono registrati con superbo rigore nella verità dell'opera compiuta.
Giorgio Pestelli