Grosse Sonate n. 2 in la bemolle maggiore, op. 39, J. 199


Musica: Carl Maria von Weber (1786 - 1826)
  1. Allegro moderato con spririto ed assai legato (la bemolle maggiore)
  2. Andante ben tenuto (do minore)
  3. Menuetto capriccioso: Presto assai (la bemolle maggiore)
  4. Rondò: Moderato e molto grazioso (la bemolle maggiore)
Organico: pianoforte
Composizione: Berlino, 17 febbraio 1814 - 31 ottobre 1816
Edizione: Schlesinger, Berlino, 1816
Dedica: Francois Lauska
Guida all'ascolto (nota 1)

Il posto dell'opera pianìstica di Carl Maria von Weber, la cui diffusione è ancora inferiore ai valori che racchiude, è stata definita recentemente (si veda La Musica-Enciclopedia Storica, Utet) da Claude Rostand con parole che vogliamo sottoscrivere senza esitazione: essa «è la più notevole e la più originale del primo Ottocento dopo quelle di Beethoven e di Schubert. Il suo stile pianistico conserva alcuni aspetti di un classicismo quasi scarlattiano, ma è animata da uno spirito già prettamente romantico: romantico per la ricerca di un virtuosismo elegante e brillante, romantico per la ricerca di un colore quasi orchestrale e di temi patetici di stile quasi melodrammatico, e romantico, infine, per i sentimenti che esprime e per il modo appassionato con cui li esprime, specialmente in certi movimenti lenti». La antitesi irrisolta fra Classicismo e Romanticismo è certo una delle ragioni che rendono l'espressione pianistica di Weber non immediata, e quindi non facile ad un ascolto che non sappia sollevarsi sulle collocazioni astratte; concretando, l'esperienza pianistica di Weber è quella di un romantico che si serve di una lingua che è quella elaborata da Clementi (più che da Scarlatti). Fra Beethoven da una parte e Schumann e Chopin dall'altra, l'arte pianistica di Weber fu fatalmente sospinta verso il Settecento; ma appunto, come ha indicato il Rostand, «la ricerca di un colore quasi orchestrale» e il tono melodrammatico vi sono così accentuati che nessun mistero vien fatto della loro provenienza dalla poetica romantica, in particolare dall'ansia di superare i limiti dello strumento.

La Sonata in la bemolle op. 39 è del 1816, quando alle Sonate di Beethoven mancano solo gli ultimi cinque sommi esempi (anzi proprio nel 1816 nasce l'op. 101). Anche se non molto evidenti, alcune assonanze beethoveniane ci sono; in particolare con la Sonata op. 7 e in genere con il gruppo delle Sonate intime e romantiche op. 78, 81 e 90. Lungo questa via riconosceremo ancora quanto la nostra Sonata preannunci l'esperienza schubertiana. Il primo movimento è fatto di tre elementi tematici principali; il primo è una cullante voluta sull'arpeggio di la bemolle maggiore che richiama la calda voce del clarinetto, sacra all'universo romantico di Weber, soprattutto dopo l'inno che le scioglierà Berlioz nel sua Trattato d'istrumentazione: è un tema che non ha fretta, apre solo un paesaggio facendo ben capire che ci sarà poi tutto il tempo di percorrerlo. Nessun contrasto, nemmeno di tonalità con il secondo tema, che è l'apportatore del principio del moto, del virtuosismo «mecanicus» che sedurrà Strawinski e col quale il pianoforte (quello di Clementi) ha la sua rivincita; il terzo tema proviene dal secondo ed è costituito semplicemente da una figura di due note discendenti, in ritmo sincopato, con un senso di affanno accorato. Lo sviluppo introdurrà subito una nuova idea che sembra evocare ancora una volta la voce del clarinetto, ma tosto verrà disimpegnato dagli affannosi interrogativi del terzo tema intrecciati ai festoni virtuoslstici del secondo; l'eccitazione progressiva renderà necessaria la ripresa, con il ritorno alla placide acque della schubertiana saggezza del primo tema. L'Andante (in do minore) presenta un tema di lied che ritorna per due volte in forma variata (nella seconda esposizione, il tema passa al basso) e contiene alcuni fra gli accenti più puri e incisivi di tutta l'opera del musicista. Nel Minuetto capriccioso, l'aggettivo centra il carattere del pezzo che è quello di uno «scherzo» con tutti i caratteri del pezzo brillante weberiano, come il troppo famoso Invito alla danza; ma questa pagina ha in seno una perla preziosa, cioè il Trio tutto giocato sopra un borbottio (quasi di fagotti) del basso sul quale scende benefica una idea luminosa che sembra annunciare la Promenade dal Carnaval op. 9 di Schumann. E' soprattutto il finale, un Rondò in tempo moderato, che fa pensare a un confronto con l'op. 7 di Beethoven, chiusa anch'essa da una nota di affabile dolcezza; il tema del Rondò di Weber, nel suo candore riserverà fra le pieghe delle successive ripetizioni una ricchezza di sottintesi che richiamerà l'aurea chiusa dell'op. 90 beethoveniana; il cui spirito pare presente davvero nella chiusa della nostra Sonata, così amabile nel suo congedo in pianissimo dall'esecutore e dall'ascoltatore, come quando da una festa a cui si è partecipato contro voglia si va via salutando solo un amico caro.


(1) Testo tratto dal programma di sala del Concerto dell'Accademia di Santa Cecilia;
Roma, Auditorio di Via della Conciliazione, 11 aprile 1969


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Ultimo aggiornamento 14 febbraio 2013