Concerto per violoncello e orchestra

da un Concerto per clavicembalo di Georg Matthias Monn

Musica: Arnold Schönberg (1874 - 1951)
  1. Allegro moderato
  2. Andante, alla marcia
  3. Tempo di minuetto
Organico: violoncello solista, orchestra
Composizione: 11 novembre 1932 - 4 gennaio 1933
Prima esecuzione: Londra, 5 febbraio 1933
Edizione: G. Schirmer, New York, 1935
Dedica: Fabio Casals
Guida all'ascolto (nota 1)

Che cosa dettava il "Comandante supremo" - così Schönberg chiamava il proprio demone, o super-io, o, à la façon de Petrassi, estro - al tempo del Concerto per violoncello e orchestra? "Comandante" irrequieto, disponibile a tracciare sul libro di bordo rotte eccentriche rispetto alla meta prestabilita.

Il primo incontro con il compositore viennese Matthias Georg Monn (1717-1750) data al 1912. Guido Adler lavorava allora all'edizione dei Denkmäler der Tonkunst in Osterreich (Monumenti della musica in Austria) e chiese a Schönberg una revisione critica di tre concerti di Monn, tra i quali un Concerto per violoncello in si bemolle maggiore.

Vent'anni più tardi, il "Comandante" consiglia di rileggere Monn. Dapprima la scelta privilegia il Concerto per violoncello, per il quale Schönberg compone una cadenza, poi, in quell'anno grande e drammatico della propria vita che fu il 1932, un Concerto per clavicembalo.

La conversione alla religione ebraica si accompagna alla decisione, che precede le leggi razziali e le persecuzioni, di abbandonare la Germania di Hitler; il viaggio ha come meta Los Angeles, ma s'arresta per qualche mese a Barcellona. Il tempo di far nascere una figlia e di incontrare Pablo Casals (1876-1973), che lo invita a dirigere la propria orchestra. Schönberg accetta e risponde con la dedica di questo Concerto: il clavicembalo di Monn viene sostituito dal violoncello, che il compositore aveva studiato da autodidatta sin da ragazzo.

Il lavoro merita il titolo di "nuovo": dell'originale poco sopravvive, se si escludono il rispetto per la tonalità d'impianto e la divisione in tre tempi. Casals lo eseguì il 4 gennaio 1933, primo di una serie tuttora esigua di interpreti. Un anno più tardi Schönberg comporrà la Suite nello stile antico per orchestra d'archi. Riconversione all'armonia dell'eversore del sistema tonale, si sentenziò allora; Adorno preferì scorgere lo spirito di Hegel benedire il "compositore dialettico", intollerante dello schematismo che la dodecafonia pretenderebbe imporre alle sue scelte.

«Non ci sono dissonanze che non possano essere spiegate dalla vecchia teoria armonica, e, dopotutto, nulla è atonale», scrive in quel periodo Schönberg a Casals. Nel 1934, in un saggio per la nuova rivista americana Modern Music, dirà che «in nessuna arte si può dire "la stessa cosa" che si è detta una prima volta, e meno che mai in musica». L'artista non è un "geometra catastale", il sistema tonale non è un alfabeto arcaico, ma un docilissimo codice poliglotta. Capace di dialogare con molti, come di inviare messaggi a interfaccia individuati con scrupolo: a chi se non al finto/vero Pergolesi di Stravinsky parla l'inizio dell'Allegra moderato?

Il Settecento lieto e galante si oscura in repentine variazioni del flusso ritmico, che l'autore volentieri interrompe, confonde, goloso di parodie del neoclassicismo. Era necessaria una libera trascrizione per svelare a Schönberg il piacere dello scherzo? Ma ecco la firma riconoscibile: il rarefarsi dell'ordinata successione armonica, lo spazio concesso a imprevisti interventi strumentali - perfettamente novecenteschi - prima della cadenza breve che riconduce al gioco iniziale.

S'imbambola presto l'incedere di marcia dell'Andante; non cammina più, divaga curioso, commosso. Era nel tempo centrale che la schematica settecentesca dell'alternanza degli affetti sfogava la propria sensibilità larmoyante, ma in questo Concerto la ostacolano accenni solenni di un corale, il martellare inopportuno delle percussioni. Il solista riannoda il filo del canto, s'impenna, ma non ne sortisce che un gracile walzerino, danzante quanto sinistro, nel congedo percosso dai colpi dei piatti e dei timpani. Anche ai funerali si marcia.

Echi di galanterie viennesi schiudono il terzo tempo, Tempo di Minuetto. Le care figure sgomitano per porsi, ordinate, sotto la luce della ribalta, ma sadiche slabbrature di ottoni si divertono a spettinare quelle geometrie. E quello xilofono irriverente, perché ricorda che due secoli sono passati? Riprovano, graziose e pizzicando, ma l'orizzonte non promette nulla di buono, il tempo è estremamente variabile, si addensano le scordature. Infine, forse è soltanto un'immagine virtuale, ricompare un segnale tranquillizzante, sventola la bandiera della tonica.

Sandro Cappelletto


(1) Testo tratto dal programma di sala del Concerto dell'Accademia Nazionale di Santa Cecilia,
Roma, Auditorio di via della Conciliazione, 27 novembre 1994


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Ultimo aggiornamento 4 marzo 2015