Quando, verso la fine di ottobre del 1920, tornando dalle vacanze estive, il musicista portò con sé lo schizzo completo di questo «Mistero» e ne diede l'audizione a un gruppo d'amici qui a Roma, l'opera fu accolta con molta ammirazione e con un certo stupore tanto essa si staccava nettamente dalle opere precedenti. Un solo dissidente: un critico straniero, amico del compositore, il quale manifestò il proprio malumore dicendo: «Ma questo è il trionfo dell'accordo perfetto!».
Come tutte (o quasi) le affermazioni eccessive, anche questa conteneva una parte di verità: e il critico, che pure aveva salutato con entusiasmo il linguaggio nuovo e ardito e ricco di colore di «Pantea», di «Sette Canzoni» e delle «Tre commedie goldoniane», si trovava naturalmente sconcertato dinanzi alla semplicità del «San Francesco». Eppure proprio quella semplicità - armonica e strumentale - era la qualità essenziale del lavoro, perché era la prima, indiscutibile affermazione di uno «stile» di Malipiero. Non che le opere precedenti fossero stilisticamente deboli o imperfette: ma erano realizzate con un linguaggio decisamente nuovo, talvolta (allora) sconcertante, anche se linguaggio e stile erano ben uniti e personali. Ed ecco che nel nuovo «Mistero» Malipiero metteva da parte questo linguaggio ch'egli stesso si era foggiato, per attingere al vocabolario di tutti. Già: ma quello che importava era il risultato. E pure semplificando il suo linguaggio all'estremo, pure attingendo al vocabolario di tutti, il musicista conservava integra la propria personalità ed affermava la propria sensibilità a ogni battuta, a ogni inciso. Questo perché Malipiero non confondeva i termini: lo stile è frutto di sensibilità, non di applicazione grammaticale: ciò che l'amico critico aveva dimenticato, confondendo il dizionario con lo stile.
Del resto quella semplicità era imposta dal soggetto stesso: l'umiltà dei testi dei «Fioretti» e della poesia di Jacopone trovava una perfetta corrispondenza in quella semplificazione del linguaggio musicale: nella scrittura lineare d'una economia e d'una logica perfetta: in un'orchestra che (nonostante la sobrietà esemplare si afferma d'una vera magia timbrica) - a parte l'ampio «Preludio» e i brevi interludi, che collegano l'uno all'altro episodio - si limita a sottolineare la declamazione melodica: una declamazione ammirevole, che sgorga dalla prosodia del testo.
Tutta questa semplificazione dei mezzi espressivi se, da
un lato, era la prova di «autenticità di
stile», dall'altro corrispondeva perfettamente all'argomento
e al carattere del testo. Pensato per il teatro (per quanto abbia fatto
la sua strada al concerto) il «San Francesco
d'Assisi» è concepito come un'ampio affresco:
meglio, come un «polittico» dove pannelli di
carattere vario e contrastante si seguono senza interruzione. Il
musicista domina il suo soggetto, ma cerca di mantenersi un po'
staccato: talvolta tra i suoi personaggi e la loro espressione, egli
interviene, sia pur fugacemente: ma questo non basta a intaccare
l'unità del lavoro, né quella dello stile. La
espressione - tranne al «Preludio» e nella scena
dell'incendio - è tutta affidata alle voci,
poiché l'orchestra si limita a sottolineare i vari episodi e
ad accentuare il carattere rettilineo di tutto il lavoro. Le melodie si
muovono nell'ambito di pochi gradi e fanno uso volentieri di note
ribattute, quasi sillabate, richiamando alla memoria certe inflessioni
del canto popolare religioso, talvolta del gregoriano. Non che il
musicista si preoccupi d'imitare questo o quello, ma
lo sviluppo dei suoi arabeschi melodici le richiama talvolta
per una specie di analogia, come certi atteggiamenti del suo declamato
(è questa una fra le prime e più .belle
realizzazioni del declamato malipieriano) ricordano il carattere
espressivo di certi recitativi degli antichi maestri italiani. Si veda
la «Canzone della Povertà» con quel
disegnino melodico tutto a note ribattute, che si muove nell'ambito di
un intervallo di «terza» (e che l'ampia melodia
strumentale mette maggiormente in rilievo), così efficace ed
espressiva nella sua semplicità; oppure la linea continua,
flessibile e straordinariamente espressiva della «Predica
agli uccelli», e tutto il «Cantico delle Creature
» (all'ultimo episodio) svolto in una forma così
nuova di «tema con variazioni»: l'espressione
è qui tutta insita nella linea vocale, ed è
così intensa che l'orchestra si limita a sottolinearla
appena. Quando la musica parla da sola, passa in primo piano ed assume
un carattere, si direbbe quasi, evocativo: si veda il
«Preludio» tutto materiato d'una
serenità austera e dolce, che evoca la pace dei colli umbri
e del paesaggio francescano, così impregnato d'un
«buon sapore di terra natia» senza che il musicista
ricorra mai a mezzi descrittivi o impressionistici.
«Mistero»: dove gli episodi - disposti uno di
seguito all'altro, semplicemente, come le illustrazioni d'un racconto
popolare sulla tabella di un cantastorie, ed esposti con una
semplicità che richiama quella dei
«Fioretti» (o, se più vi piace, quella
di un racconto popolaresco) - sono ricreati nello spirito da una musica
che ne intensifica l'espressione e basta da sola ad assicurare
l'unità della creazione.
Domenico De' Paoli