Als Flieder jüngst mir im Garten blüht (When lilacs last in the door-yard bloom'd), requiem «per coloro che amiamo»

Cantata per soli, coro e orchestra

Musica: Paul Hindemith (1895 - 1963)
Libretto: Walt Whitman (traduzione tedesca di Paul Hindemith)
  1. Preludio
  2. When lilacs (baritono e coro)
  3. Arioso, In the swamp (mezzosoprano solo)
  4. Marcia, Over the breast of the spring (coro e baritono)
  5. O western orb (baritono e coro)
  6. Arioso, Sing on, there in the swamp (mezzosoprano solo)
  7. Canzone, O how shall I warbie (baritono e coro)
  8. Introduzione e Fuga, Lo! body and soul (coro)
  9. Sing on! you gray-brown bird (mezzosoprano e baritono)
  10. Canto di Morte, Come, lovely and soothing Death (coro)
  11. To the tally of my soul (baritono e coro)
  12. Finale, Passing the visions (soli e coro)
Organico: mezzosoprano, baritono, coro misto, ottavino, flauto oboe, corno inglese, clarinetto, clarinetto basso, fagotto, controfagotto, 3 corni, 2 trombe, 2 tromboni, basso tuba, timpani, triangolo, piatto sospeso, piatti, 4 campane tubolari, gong, tamburo militare, tamburo piccolo, grancassa, glockenspiel, organo, archi
Composizione: gennaio - 20 aprile 1946
Prima rappresentazione: New York, City Center, 14 maggio 1946
Edizione: Associated Music Publishers, Inc., New York, 1948
Guida all'ascolto (nota 1)

Hindemith abbozzò il Requiem "When lilacs last in the door-yard bloom'd" (Quando i lillà fiorirono l'ultima volta sulla porta del giardino) su testo del poeta statunitense Walt Whitman in America all'inizio del 1946 e lo finì di comporre il 20 aprile di quello stesso anno a New Haven nel Connecticut. La prima idea risaliva però a circa un anno prima e si ricollegava a due eventi che, sia pure in modo diverso, avevano lasciato tracce profonde nell'animo del musicista: la morte del presidente americano Franklin Delano Roosevelt, avvenuta nell'aprile 1945, e la fine della seconda guerra mondiale, di poco successiva. Al primo va fatta risalire la scelta del testo, al secondo la decisione stessa di scrivere un Requiem.

A prima vista può sembrare strano che Hindemith abbia pensato di salutare la fine della guerra - conclusione di un lungo, drammatico periodo in cui era stato costretto all'esilio dalla sua patria ora sconfitta e abbattuta - con una composizione di questo genere. Ma neppure in quelle circostanze il suo pensiero riusciva a staccarsi dal ricordo ancora troppo immediato di ciò che la guerra aveva significato in termini di dolore e di vite umane: nell'etica in cui aveva sempre creduto e per la quale non aveva mai cessato di lottare anche come artista, un antico rito imponeva, prima di dimenticare e guardare al futuro, di seppellire i morti e ricordarli con affetto. E questo un musicista poteva farlo solo componendo un Requiem: un Requiem dedicato alla memoria di Roosevelt, ma idealmente destinato ad abbracciare tutti "coloro che amiamo".

Con questo sottotitolo apposto al Requiem il riferimento alla figura di Roosevelt si attenua prendendo significati più ampi, ma rimane comunque importante per l'associazione al testo. Il Requiem di Hindemith non si basa infatti sul consueto testo liturgico latino della messa da morto ma su un poema del maggior poeta statunitense dell'Ottocento, Walt Whitman (1819-1892), che lo aveva a sua volta scritto sotto l'impressione della scomparsa del presidente Abraham Lincoln, ferito a morte nel 1865 pochi giorni dopo la fine della Guerra Civile. L'associazione è data dunque dalla morte di due grandi personaggi della storia americana passata e recente: e Roosevelt viene accostato a Lincoln come figura ideale e simbolo delle aspirazioni all'unità, alla libertà e alla indipendenza della nazione americana. Ciò crea un chiaro collegamento con gli eventi contemporanei; all'orrore della guerra, della tirannia e della morte si contrappongono i valori democratici degli eroi che hanno salvato l'America e la libertà quei valori che Whitman aveva invocato con appassionato fervore e ai quali Hindemith poteva ora dare un proprio riconoscimento personale e artistico.

In fondo si trattava anche di un debito di riconoscenza verso il paese che lo aveva accolto con onori sempre più tangibili dopo che era stato costretto ad abbandonare non solo la Germania (nella quale con l'avvento del nazismo la sua arte era stata messa al bando come "degenerata") ma anche l'Europa, nel 1940. Nel 1941 gli era stata assegnata una regolare docenza all'Universita di Yale a New Haven, dove risiedeva. Oltre che come compositore, aveva potuto riprendere la sua attività di esecutore e di direttore d'orchestra, fondando fra l'altro un "Collegium musicum" per la diffusione della musica antica su strumenti d'epoca: iniziativa per quei tempi inaudita. Il suo cinquantesimo compleanno, che cadeva il 16 novembre 1945, fu festeggiato con particolare solennita e con concerti che reclamavano la presenza del compositore. Gli Stati Uniti erano ormai diventati la sua patria; tanto da spingerlo a prendere la cittadinanza americana nel gennaio 1946 e a non rinunciarvi più neppure dopo il ritorno in Europa.

La lingua inglese era divenuta la sua nuova lingua; e perfino la scelta di Whitman, di cui pure aveva già musicato tre poesie nei Drei Hymnen op. 14 per baritono e pianoforte del 1919 e che dunque gli era già noto da molto tempo, acquistava ora un significato particolare per il fatto stesso che si trattava di un poeta americano.

Quanto ciò che aveva vissuto in quegli anni lo opprimesse nell'intimo, è difficile dire. Musicista tedesco per eccellenza, radicato come pochi altri nella cultura e nel costume del suo paese d'origine, Hindemith aveva combattuto in prima fila le battaglie dell'avanguardia degli anni Venti vedendo in esse - si trattasse dell'espressionismo o della nuova oggettività - un filo continuo con la grande tradizione della musica tedesca.

Neppure nei momenti di più accesa modernità aveva voluto essere un compositore radicale: il controllo costante sulla materia e sui sentimenti si basava su solidi principi di distacco e di ironia, che non impedivano tuttavia di esplorare i domini dell'espressione coniugandoli con una ricerca formale che tenesse conto dell'esigenza di un ordine costruttivo chiaro ed equilibrato. Questa era stata la sua poetica. L'esilio aveva significato non solo la perdita delle radici sulle quali la sua arte si fondava nel connubio di tradizione e modernità, ma anche la consapevolezza che nuovi indirizzi s'imponevano alla sua ricerca: che forse non era più ricerca, ma conferma di un mutato orientamento stilistico e perfino morale.

La tendenza all'astrazione, alla riflessione teorica e pratica sulle leggi naturali della musica, sulle forme del passato e sulla mediazione fra espressione e comunicazione, se esisteva già prima, si manifesta in modo assai accentuato nelle opere dell'esilio, e in quelle del periodo americano in particolare. Non pare però legittimo addebitarla al condizionamento di un ambiente del quale oltretutto si ha spesso un'idea falsata dalle ideologie. Non fu l'America a influenzare le scelte di Hindemith sul piano linguistico, per esempio nel temperamento di certe spigolosità ritmiche e melodiche, nelle semplificazioni armoniche o nelle stilizzazioni formali: tutto questo era già implicito nell'evoluzione del suo stile, e va semmai ricollegato a una precisa coscienza dei compiti di fronte ai quali la storia lo poneva come uomo e come artista. C'e un che di tragico in questa coscienza, che viene trasmesso dall'algida perfezione di una musica cesellata fin nei minimi dettagli, quasi a voler celare in una cura maniacale la sostanza espressiva che vi urge: qualcosa che ha piuttosto a che fare con la fine di un'epoca e di un mondo. Non sentita pero con angoscia e con ripiegamenti nostalgici, men che mai volti al negativo, ma con la serenità di chi ad essa oppone la caparbietà artigianale, il ragionamento sistematico e persuasivo sul presente e soprattutto sul passato, a cui attingere la forza per guardare avanti sentendosi vivi. Tutto questo è autenticamente tedesco e ha a che fare solo esteriormente con l'America: piuttosto, si puo invece credere che Hindemith abbia scritto il suo Requiem soprattutto per se stesso, per ciò che amava e aveva perduto.

* * *

E proprio Whitman era il poeta adatto per esprimere questi stati d'animo. Nella sua produzione poetica, riunita in un'unica raccolta pubblicata per la prima volta nel 1855 (il 4 luglio, anniversario della dichiarazione d'indipendenza degli Stati Uniti) con il titolo Leaves of Grass (Foglie d'erba), continuamente riveduta e accresciuta di nuovi canti fino alle soglie della morte (1891), la storia d'America e quella sua personale sembrano sovrapporsi e illuminarsi a vicenda. Una forte tensione lirica, che assume sovente toni oracolari e profetici nella stessa forma del testo, modellato sul metro di una specie di versetto biblico ampliato in grandi tessiture strofiche, s'accompagna a una densa capacità descrittiva ed evocativa, non soltanto di paesaggi e figure, ma anche di visioni ed emozioni trasognate. Dalla sua attività di giornalista, esercitata nella prima parte della sua vita, Whitman aveva imparato a fissare in immagini nitide e pregnanti le cose e le persone, costruendosi poi in solitudine gli strumenti per tradurre poeticamente le esigenze e le aspirazioni della sua natura inquieta e ambigua, pervasa da un acuto sentimento della vita e della morte. In più di un momento la sua poesia presenta un deliberato ritmo musicale, un andamento per frasi scolpite che tematicamente si accavallano e si sviluppano per assonanze secondo percorsi e respiri "sinfonici"; l'inno e, da ultimo, la forma che esalta e libera il senso della gioia e del dolore nei punti culminanti della sua poesia.

Nella quale un destino individuale, cantato tra il delirio e l'estasi con feconda varietà di spunti e di linguaggio, si riflette nello sfondo di una collettività sentita come una grande massa che si muove verso il compimento di ideali di libertà e di democrazia: "Io canto l'individuo, la singola persona, / Al tempo stesso canto la democrazia, la massa", affermava solennemente Whitman ad apertura delle Foglie d'erba. Più che all'umanità in quanto tale, il poeta si rivolgeva alla sua nazione, ergendosi a portavoce delle sue aspirazioni per trovare in queste la ragione delle proprie ansie. Sotto questo profilo i componimenti In memoria del presidente Lincoln costituiscono il centro della intera raccolta, il riconoscimento dei valori supremi dell'esistenza nel segno di una grandezza eroica e di una nobiltà votata al sacrificio e alla morte. Che nella morte, e nell'epicedio che la celebra, trova la sua giustificazione e la sua catarsi.

Di questi componimenti il poema Quando i lillà fiorirono l'ultima volta, pubblicato nell'autunno del 1865 quattro mesi dopo l'assassinio di Lincoln, è la sezione non solo più cospicua ma anche più significativa. Esso consta di sedici canti, che Hindemith musicò integralmente disponendoli però in undici parti precedute da un Preludio, ognuna con una sua forma musicale di riferimento (furono tralasciati solo i due canti che chiudono la raccolta In memoria del presidente Lincoln: O capitano! O mio capitano e Oggi silenzio). Questa condensazione è motivata in primo luogo dall'esigenza di far combaciare la traiettoria del testo con il rivestimento musicale, che segue una sua logica di sviluppi senza rinunciare a interpretarlo, a seguirne gli snodi e le articolazioni, per sottolinearne poi i momenti cruciali.

Un principio caro a Hindemith, quello della continuità ottenuta con una armonica successione di parti in sè compiute, apparentemente in forma chiusa, sta alla base anche della composizione del Requiem. Alcune di queste parti sono contrassegnate da titoli, altre semplicemente dall'incipit dei versetti. Su tutto sovrintende un ordine formale fatto di chiarezza e di equilibrio, che corrisponde a un'istanza di oggettivazione della materia poetica, di per sè ribollente e magmatica: e ciò è evidente anche nella segmentazione del testo e nella punteggiatura, che non si uniforma all'ininterrotta sequenza dell'originale. L'intervento dell'orchestra, che non si limita mai a far da sfondo neutrale, mira per lo più a portare a conclusione l'arco della definizione musicale, o a raccordarne i passaggi con brevi inserti strumentali; ma in alcuni punti, come per esempio nella evocazione della battaglia del penultimo brano, s'incarica di illustrare in termini puramente musicali ciò che il testo descrive, con effetti anche teatrali (il segnale della tromba fuori scena, carico di allusioni e di dramma).

Altre volte, come nella descrizione dei funerali di Lincoln (n. 3), è una forma musicale, in questo caso una Marcia, a rendere pin incisiva e sagomata la rappresentazione. Questo alternarsi di tensioni e distensioni assume da ultimo, nella visione d'insieme, una figurazione sferica, circolare e ciclica insieme (si pensi solo alla ripresa del primo verso iniziale alla fine, nell'epilogo in dissolvenza affidato ai solisti e al coro).

Naturalmente tutto ciò è anche una conseguenza della distribuzione del testo fra due solisti (baritono e mezzosoprano) e coro (in Whitman il protagonista è uno solo: il poeta idealmente incarnato nelle spoglie del morto illustre e sdoppiato solo per raccaontare il suo ultimo viaggio verso la tomba dell'eterno riposo). Al mezzosoprano sono affidati momenti essenzialmente statici e contemplativi, e perciò solistici, di pura espressione lirica, come indica anche la comune intestazione dei suoi numeri, Arioso (n. 2 e n. 5; nel Duetto n. 8 il mezzosoprano ripete una seconda volta in modo identico il suo cantico appartato e tranquillo, quasi allontanandosi da ciò che la circonda e distanziandosi dal crescendo che drammaticamente culmina nell'inno del baritono). Il canto del mezzosoprano, limpida voce femminile, si identifica con quello dell'uccello, voce della natura e della intatta purezza: il primo dei tre simboli che ricorrono periodicamente con connotazioni eminentemente tematiche sia nel testo che nella musica.

Tutt'altra funzione ha invece i baritono. A lui è affidato il compito di svolgere la narrazione e di illustrarla nei momenti di maggiore intensità lirica. Ciò comporta la scelta di un declamato sempre assai fluido e duttile, a cui non sono tuttavia precluse le sospensioni e le effusioni di una autentica commozione: come nel n. 6, Song (Canzone), posto significativamente a metà della partitura (Hindemith prediligeva la voce di baritono proprio per il suo timbro velato e per la sua flessibilità, tanto da farne il protagonista di quasi tutte le sue opere teatrali). Ma il baritono, a differenza del mezzosoprano, non si esprime mai isolatamente, bensì in un dialogo, da vicino o a distanza a seconda dei casi, con il coro, che idealmente ne raccoglie e rafforza (o sfuma in eco) il canto. Il senso "liturgico" della composizione è anzi in larga misura comunicato proprio da questo canto alternato fra solista e coro, memore di antiche salmodie responsoriali. Nella parabola descritta dal canto del baritono si può vedere il secondo simbolo enucleato anche musicalmente da Hindemith, quello della stella d'occidente che accompagna l'ultimo viaggio verso la morte (n. 4).

Il coro, a sua volta, non si limita a commentare o a sostenere, amplificandone le risonanze, le immagini che scorrono lungo il racconto o che sono da esso evocate. In due momenti - i due pilastri che reggono l'intero edificio della partitura - assurge a protagonista collettivo, a massa che fa sentire la sua voce in tutta la sua energia. Sono due momenti diversi e complementari: nel primo (n. 7) è l'esplosione della vita animata della città e delle campagne a essere descritta con esuberanza di dettagli e di apparizioni, in un tripudio che sembra racchiudere tutto l'amore del poeta per la sua gente e i suoi paesaggi reali o di sogno; nel secondo (n. 9) si effonde invece il Canto di Morte (Death Carol), l'inno funebre che con gioia esalta la venuta della "gentile e forte liberatrice" come l'ultimo premio, l'unica felicità, l'ingresso in un mondo più libero, più vero e sano. Non è certamente senza significato che Hindemith abbia scelto per questi due episodi forme rigorose e severe: la fuga, preceduta da una robusta Introduzione, nel primo caso, il Carol (nell'originale, Death Carol), un canto tradizionale inglese di antica estrazione popolare e rituale, una specie di girotondo, nell'altro. Non si trattava soltanto di dare unità e vigore a questi brani corali slanciati in vertiginose trame polifoniche e sovrastati da ricche ornamentazioni contrappuntistiche, ma anche e soprattutto di racchiudere in forme salde e compatte tutta l'ebbrezza e la visionarietà che emanano dai versi del poeta, dalle suggestioni profuse dalla sua fantasia. Qui si può quasi dire che Hindemith abbia realizzato l'affresco musicale che era già implicito nel testo, adattandone i suoni variopinti in forme costruttive: fedele alla sua convinzione secondo la quale un ordine formale disciplinato e autosufficiente possa contenere anche le più ribollenti immagini dell'invenzione poetica. Nella scelta della fuga per questa radiosa rappresentazione dell'America nella sua pienezza di vita si può pero vedere anche il richiamo e il ricordo della vecchia patria, con la sua cultura e le sue tradizioni musicali che Hindemith non aveva dimenticato.

Tutto il Requiem, d'altronde, si muove sui cardini di un autocontrollo fatto di oggettivazione e di trasfigurazione. Il suo clima viene definito gia nel Preludio, dove su un pedale grave si stagliano figure elementari che a poco a poco si animano e acquistano movimento e vita. Alla staticità di fondo, immobile e continua, si oppone così un impulso dinamico che spezza l'attesa e si articola nel tempo e nello spazio, avviando un processo. E’ un processo che non si traduce solo in canti e in forme, ma che si colora anche di timbri, di atmosfere: funebri ma non lugubri. Non è il nero del lutto il colore della musica di Hindemith, ma un bianco translucido, con riflessi cristallini sotto una superficie plumbea. Così come qui, nell'aria aperta attraversata dalla poesia di Whitman, il profumo dominante è quello pungente dei lillà, il terzo e più riconoscibile simbolo che la musica, nella sua essenza, adotta. Nei lillà che rifioriscono sulla porta del giardino di una vecchia fattoria americana Whitman intreccia l'idea della morte con quella della vita che sempre rinasce e si rinnova: la memoria imperitura di colui che egli amava si universalizza in Hindemith nell'inno "per coloro che amiamo". Inevitabilmente il pensiero corre ai lillà così odorosi della Norimberga di Hans Sachs, certo molto lontani dai fiori dell'America di Whitman ma non forse da quelli di cui poteva serbare il ricordo Hindemith.

Sergio Sablich


(1) Testo tratto dal programma di sala del Concerto dell'Accademia di Santa Cecilia,
Roma, Auditorio di via della Conciliazione, 28 aprile 1991


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Ultimo aggiornamento 6 dicembre 2013