Pelléas et Mélisande, op. 80a

Suite dalle musiche di scena op. 80

Musica: Gabriel Fauré (1845 - 1924)
  1. Prélude - Quasi adagio
  2. Fileuse - Andantino quasi allegretto
  3. Chanson de Mélisande - Molto adagio
  4. Sicilienne - Allegretto molto moderato
  5. La Mort de Mélisande - Molto adagio
Organico: ottavino, 2 flauti, 2 oboi, 2 clarinetti, 2 fagotti, 4 corni, 2 trombe, timpani, 2 arpe, archi
Composizione: 1898
Edizione: Hamelle, Parigi, 1904
Guida all'ascolto (nota 1)

Questa partitura di Fauré, una delle personalità più singolari della letteratura musicale francese tra Ottocento e Novecento, non gode ai nostri giorni della popolarità che le spetterebbe. E forse le ha nuociuto il parallelismo dell'affermazione, assai più splendente, del capolavoro di Debussy. Eppure, allorché nel 1896, nell'atmosfera raffinata e decadente della cultura francese fin-du-siècle, Fauré succedette a Massenet nella cattedra di composizione, nonché, in seguito, quando dal 1905 al 1920 fu alla guida del Conservatorio parigino, la sua figura e tutta la sua opera furono ritenute degne della più alta considerazione, e non soltanto in terra francese.

Considerato dalla critica moderna d'oltralpe "una sorta di Mendelssohn, più ricco però di sostanza, più personale e più nuovo, più diligente, un Mendelssohn che, essendo vissuto più a lungo, ha avuto il tempo e la possibilità di arricchire la propria arte e di cesellarla come un orafo" (Dufourcq, 1985), Fauré, partito dal classicismo razionalista del suo maestro Saint-Saëns, progressivamente venne sviluppando una fisionomia stilistica del tutto personale che indirizzava, senza eccessivo clamore ma con incedere sicuro, la musica francese verso il superamento dei moduli e delle formule del tardo-romanticismo.

L'arte di Fauré, compositore d'elite e mai idolo del grande pubblico, riflette il riserbo del musicista ed anche l'elegante discrezione del suo linguaggio, cogliendo alcune delle sue indubbie affermazioni nell'ambito della produzione cameristica, per la tastiera e nella romanza da salotto, più che nell'opera teatrale, sacra ed orchestrale in genere. L'autentica cifra stilistica di questo compositore risulta caratterizzata da un costante senso d'intimismo, da un colore strumentale e da un'atmosfera espressiva d'estrema suggestione nelle sfumature, da una bellezza tutta interiore, da una scrittura dalle tonalità incerte e sfuggenti, dalle armonie inquiete e modulanti, dai contrappunti insinuanti e delicati.

A tali caratteristiche non si sottrae Pelléas et Mélisande, composto nel 1898 come musica di scena per la rappresentazione del dramma omonimo di Maurice Maeterlinckal Prince of Wales' Theatre di Piccadilly, ove lo stesso Fauré salì sul podio il 21 giugno 1898 per la première della versione inglese. L'esito si tradusse in un notevole successo, salutato dai consensi del medesimo Maeterlinck ed anche di Charles van Lerberghe, Reynaldo Hahn, della principessa Edmond de Polignac (che sarebbe poi diventata la dedicataria della Suite), del pittore John Singer Sargent e della più raffinata società londinese.

Dall'intera successione delle pagine musicali, cui collaborò per l'orchestrazione l'allievo Charles Koechlin, dai diciannove numeri della partitura londinese, di cui Fauré fece dono ad Alfred Cortot, l'autore trasse quattro episodi, disponendoli in forma di suite orchestrale ed è questa l'unica ad esser stata pubblicata: rispetto alla stesura adottata nell'esecuzione londinese della musica di scena, che prevedeva un organico cameristico, la partitura della Suite richiese a Fauré notevole impegno con varie revisioni, oltre alla trasposizione per grande orchestra, con ampliamento, in particolare, della sezione dei fiati e degli strumentini per accrescerne la tavolozza coloristica.

L'iniziale Prelude è introdotto da una sommessa frase degli archi (Quasi adagio), ripresa poi dal flauto, dagli oboi e dai clarinetti: l'evocazione della foresta, fiabesca e misteriosa, ove Golaud incontra Mélisande, si precisa in un lirismo contenuto e severo ed in un clima di rassegnata malinconia che avvolge le due idee principali. Lo sviluppo risulta una delle pagine di maggior suggestione della partitura che, dopo aver attinto il climax (fortissimo e allargando) del massimo della tensione, trascorre ad un lungo degradare cromatico che, dopo un lontano squillo del corno di Golaud, sfuma sulle lunghe note degli archi, ai quali in pianissimo si uniscono flauto e clarinetto.

La successiva Fileuse deriva da un episodio della prima scena dell'atto terzo ove la giovane Mélisande è all'arcolaio mentre parla con Pelléas e con Yniold. All'avvio l'oboe intona una lunga e tenerissima frase melodica, una sorta di romanza senza parole. Una misurata immediatezza di tratto caratterizza tutta la pagina (Andantino, quasi allegretto) che piacque moltissimo a Maeterlinck. L'insieme è un piccolo capolavoro di freschezza e di grazia ove l'agile disegno in moto perpetuo dei violini intesse una trama raffinatissima attorno alla quale si dipana la frase melodica dell'oboe, ripresa poi dagli strumentini.

La Sicilienne è una parentesi mediterranea in 6/8 (Allegro molto moderato) che introduce un netto cambiamento di paesaggio espressivo rispetto al brumoso ambiente dell'antico castello medievale di Arkel. In tale episodio, che proviene dall'avvio del secondo atto, assume uno spiccato risalto l'arguto gioco del flauto con la poetica voce dell'arpa.

Infine La mort de Mélisande corrisponde al n. 17 della musica di scena, all'inizio dell'atto quinto. Ritorna l'allusiva atmosfera dell'introduzione del Prelude, instaurando uno dei momenti di più assorta commozione (Molto adagio) dell'intera partitura. Si riascolta il secondo tema della Fileuse nel contesto d'una nobile, meditativa marcia funebre. Dopo il sommesso avvio dei flauti e clarinetti sul pizzicato di violoncelli e contrabbassi, la scrittura strumentale infittisce la sua trama sino ad un crescendo che attinge la massima tensione con l'intervento dei corni. Di qui l'atmosfera sfuma in una rarefatta dissolvenza, quasi impalpabile, con gli archi accompagnati dal solitario canto del flauto.

Luigi Bellingardi


(1) Testo tratto dal programma di sala del Concerto dell'Accademia di Santa Cecilia,
Roma, Auditorium parco della Musica, 19 novembre 2005


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Ultimo aggiornamento 19 luglio 2012