Concerto in mi minore per violoncello e orchestra, op. 85


Musica: Edward Elgar (1857 - 1934)
  1. Adagio. Moderato
  2. Lento. Allegro molto
  3. Adagio
  4. Allegro. Moderato. Allegro, ma non troppo
Organico: violoncello solista, 2 flauti (2 anche ottavino), 2 oboi, 2 clarinetti, 2 fagotti, 4 corni, 2 trombe, 3 tromboni, basso tuba, timpani, archi
Composizione: giugno - 8 agosto 1919
Prima esecuzione: Londra, Queen's Hall, 27 ottobre 1919
Edizione: Novello & Co., Londra, 1919
Dedica: Sir Sidney and Lady Frances Colvin
Guida all'ascolto (nota 1)

Il Concerto per violoncello e orchestra in mi minore op. 85 è l'ultima grande partitura orchestrale di Edward Elgar (escludendo la Terza Sinfonia rimasta allo stato di abbozzo nel 1934, anno della morte del compositore), nata dopo un lungo periodo di silenzio creativo. Il compositore non aveva scritto quasi nulla nel periodo della Prima Guerra Mondiale e ciò che lo spinse di nuovo verso la composizione, stando alla testimonianza della figlia Carice, fu un'operazione chirurgica. Nel marzo del 1918 Elgar fu infatti sottoposto a una tonsillectomia, operazione all'epoca piuttosto rischiosa per un uomo di 61 anni, e appena si risvegliò dall'anestesia, chiese subito carta e penna per appuntare un tema musicale in 9/8. Due mesi dopo, con la moglie Alice e la figlia, decise di trascorrere un periodo di convalescenza nel suo cottage, denominato Brinkwells, vicino a Fittleworth, piccolo villaggio nel West Sussex. Elgar, che era nato nel piccolo villaggio di Broadheath, nel Worcestershire, amava la pace della campagna, e nel Sussex si godette le passeggiate nei boschi e la vista rasserenante del paesaggio che si distendeva tra il fiume Arun e le colline calcaree delle South Downs, solo disturbata dai colpi di artiglieria che ancora rimbombavano sulla Manica.

All'inizio dell'estate cominciò ad orchestrare la melodia in 9/8, senza avere ancora un'idea precisa di cosa farne. Ad agosto annunciò alla moglie e alla figlia, stupefatte, che avrebbe fatto trasportare a Brinkwells uno dei suoi pianoforti. Poi si dedicò alla composizione di tre pezzi cameristici (la Sonata per violino in mi minore op. 82, il Quartetto in mi minore op. 83 e il Quintetto con pianoforte in la minore op. 84) che furono eseguiti nel maggio del 1919, e che mostrarono subito un stile introverso ed essenziale, molto diverso rispetto a quello che aveva caratterizzato tutta la precedente produzione del compositore (Adrian Boult lo descrisse come «un nuovo tocco di fantasia, di libertà e di economia»).

Fu proprio nel maggio del 1919 che Elgar decise di usare la melodia in 9/8 come tema per un Concerto per violoncello e orchestra. La genesi di questa partitura si può ricostruire attraverso le lettere del compositore e i diari di Carice: il 2 giugno, giorno del suo sessantaduesimo compleanno, Elgar ricevette a Brinkwells la visita del direttore d'orchestra Landon Ronald, egli suonò lunghi passaggi del suo nuovo Concerto; il 5 giungo venne al cottage il violoncellista Felix Salmond, che suonò la parte solistica e ne fu entusiasta, dando poi preziosi consigli al compositore. Elgar lavorò alacremente a quel Concerto, durante i mesi di giugno e di luglio, svegliandosi spesso alle 4 del mattino, per aggiungere dettagli orchestrali e nuovi passaggi tematici, e portando a termine la partitura l'8 agosto (con dedica all'amico Sidney Colvin e alla moglie Frances). Il debutto avvenne il 27 ottobre 1919 alla Queen's Hall, nel concerto inaugurale della prima stagione sinfonica postbellica della London Symphony Orchestra. Purtroppo le prove furono dedicate per la maggior parte del tempo alle altre musiche in programma (dirette da Albert Coates), e l'esecuzione del Concerto op. 85 fu disastrosa, non piacque né al pubblico né alla critica. Ma è anche vero che questo lavoro vide la luce in un'epoca in cui la musica di Elgar cominciava a essere fuori moda, anche nella conservatrice Inghilterra. Subito dopo quel fiasco, Elgar conobbe la violoncellista Inglese Beatrice Harrison, e con lei diresse due volte il Concerto in sala di registrazione, nel 1920, in una versione incompleta, e nel 1928. Il Concerto conobbe poi una certa fortuna in ambiente anglosassone, fu eseguito da celebri solisti come Gregor Piatigorsky, Pablo Casals, William Henry Squire, che ne fece una storica incisione nel 1936. Ma acquistò una vasta popolarità solo negli anni Sessanta, quando Jacqueline du Pré (che aveva studiato il Concerto di Elgar già a 13 anni, sotto la guida di William Pleeth), lo incise, appena ventenne, per la Emi, con la London Symphony, diretta da Sir John Barbirolli (quasi un predestinato, visto che nel 1919 era tra gli orchestrali, come violoncellista, che suonarono la prima assoluta alla Queen's Hall).

Nel Concerto per violoncello e orchestra Elgar si allontana decisamente dallo stile elaborato ed espansivo delle sue precedenti composizioni: è una partitura asciutta, di grande concentrazione espressiva - come i tre lavori cameristici nati nello stesso periodo - più leggero e condensato rispetto al mastodontico Concerto per violino del 1910 (che era in tre movimenti, ma durava un'ora circa), con una struttura formale semplice, priva di grandi sviluppi ed elaborazioni tematiche, con un ampio melodizzare, quasi un inarrestabile flusso melodico, pervaso di echi brahmsiani, che imprime all'intero Concerto un tono elegiaco, crepuscolare, un carattere insieme solenne e malinconico (non a caso è stato spesso visto come una sorta di addio all'eredità della musica romantica cui Elgar era così legato). Eppure dietro l'apparente semplicità si svela la sapienza compositiva, la cura estrema dei dettagli, il lavoro armonico raffinatissimo, caratterizzato da sorprendenti percorsi modulanti, un'orchestrazione trasparente, ma sempre molto caratterizzata in ogni risvolto espressivo, e un certo gusto modale, che sembra riallacciarsi alla nuova moda neorinascimentale inglese, che aveva avuto il suo exploit nel 1910 con la Tallis Fantasia di Ralph Vaughan Williams. Elgar crea continui innesti tra episodi, descrivendo così, per giustapposizione, una precisa drammaturgia fatta di contrasti e di continui richiami tra elementi ricorrenti, e gioca con grande abilità tra una solida retorica musicale e la sospensione sognante, tra la struttura sinfonica, in quattro movimenti, e il carattere scorrevole e fantasioso di un capriccio - come aveva già fatto nel suo precedente lavoro orchestrale, il poema sinfonico Falstaff del 1913. La concentrazione espressiva della scrittura strumentale è portata alle estreme conseguenze proprio nella linea solistica, che acquista così un carattere introspettivo, quasi ascetico, che al primo impatto lasciò perplessi molti violoncellisti.

I quattro movimenti del Concerto sono raggruppati in due coppie, perché il primo (Adagio-Moderato) e il secondo (Lento-Allegro molto) sono collegati tra loro senza soluzione di continuità, così come non c'è alcuna cesura, nemmeno tonale, tra il terzo (Adagio) e il quarto (Allegro-Moderato-Allegro, ma non troppo).

Il movimento iniziale, in una semplice forma ternaria, si apre con un recitativo del violoncello (Adagio), che costituisce una sorta di motto ricorrente durante tutto il Concerto conferendo al solista quasi il ruolo di una voce narrante. In questa breve introduzione il violoncello alterna quattro ampi accordi (nobilmente), una mesta linea discendente (largamente), accompagnata da scarne punteggiature dell'orchestra, e una breve cadenza dal profilo ascendente (ad libitum). Subito dopo le viole, da sole, introducono il tema principale (Moderato), che è proprio la melodia in 9/8 annotata da Elgar in ospedale. Questa melodia, dal carattere modale e basata su una unica cellula ritmica trocaica, rimase sempre nella mente del compositore, che nel 1933, gravemente malato, la canticchiò ad un amico dicendogli: «se dopo la mia morte sentirai qualcuno fischiettare questa melodia a Malvern Hills, non allarmarti. Sarò sempre io» (questo tema diventerà poi la colonna sonora del film di Anand Tucker, Hilary and Jackie, sulla Jacqueline du Pré). Dopo le viole, il tema viene ripreso dal solista e quindi ampiamente sviluppato da tutta l'orchestra. Una breve transizione, accompagnata da clarinetti e fagotti, porta alla sezione centrale in mi maggiore e in 12/8, con un tema lirico e puntato, una texture più animata, una continua osmosi di elementi cantabili e movenze danzanti. Questo tema subisce poi una metamorfosi e viene gradualmente trasformato nel tema principale, in mi minore: una ripresa accorciata, che ripristina l'atmosfera cupa e meditativa dell'inizio, e che si conclude con una progressiva scarnificazione dell'ordito orchestrale, lasciando il tema, come al suo esordio, privo di accompagnamento.

Gli accordi del recitativo, pizzicati come una chitarra, riemergono all'inizio del secondo movimento (Lento), alternati a brevi squarci di un tema nervoso e pimpante, fatto di semicrome staccate e ribattute, che dopo poche battute si distende come un moto perpetuo (Allegro molto), dallo slancio festoso, ma con qualche venatura ancora malinconica. Questo Scherzo, in sol maggiore, si muove su un accompagnamento leggero e appuntito dell'orchestra (con archi divisi e leggere pennellate dei fiati) ed è concepito come una piccola forma-sonata, con un conciso secondo tema, intensamente lirico, e un breve sviluppo.

Un'ampia arcata melodica del violoncello domina invece l'Adagio si bemolle maggiore, quasi una Romanza senza parole, che rimanda al movimento lento del concerto di Schumann. Questa melodia in 3/8 (molto espressivo), accompagnata dagli archi e, qua e là, da morbidi accordi di clarinetti, corni e fagotti, appare all'inizio segmentata da pause, come dei sospiri, e sembra riprendere ed espandere le potenzialità liriche del secondo tema del precedente Scherzo. La conclusione in fa maggiore, riprende il motivo ansimante di apertura e prepara l'attacco dell'ultimo movimento, ampio e assai articolato: inizia nell'imprevedibile tonalità di si bemolle minore, ma con una trascinante modulazione (Allegro) che riporta, in otto misure, al mi minore. Subito dopo il violoncello intona ancora un recitativo (Moderato), dal carattere nobile e appassionato, seguito da una rapida cadenza, e poi dall'attacco un rondò in 2/4 (Allegro, ma non troppo). Il suo tema, "risoluto" e saltellante, marcato da accenti e da acciaccature, si alterna con una seconda idea in sol maggiore, dal carattere più lirico (dolce), e si dispiega in una grande varietà di colori orchestrali e di slittamenti tonali, con la parte solistica che si fa sempre più animata. Ma verso la fine il tempo gradualmente rallenta e sfocia in una sezione calma (Poco più lento), con un nuovo set di temi tra i quali riaffiora il motivo appassionato del terzo movimento. Il tempo rallenta ancora e lo slancio lirico si affievolisce (Lento) fino a spegnersi su un lungo accordo tenuto. A questo punto riaffiora il recitativo del primo movimento (Adagio), ma con due accordi violenti dell'orchestra che innescano un epilogo, breve e fiammeggiante, con la ripresa del tema del rondò.

Gianluigi Mattietti


(1) Testo tratto dal programma di sala del Concerto dell'Accademia di Santa Cecilia,
Roma, Auditorium Parco della Musica, 8 febbraio 2014


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Ultimo aggiornamento 25 maggio 2016