Tempus Destruendi - Tempus Aedificandi

per coro a cappella

Musica: Luigi Dallapiccola (1904 - 1975)
  1. Ploratus - Impetuoso, ma molto misurato
    Testo: Paolino di Aquileia
    Composizione: 3 giugno 1971
  2. Exhortatio - Molto lento
    Testo: Dermati
    Composizione: 3 novembre 1970
Organico: coro misto senza accompagnamento
Composizione: 1970 - 1971
Prima esecuzione: Siena, Teatro dei Rinnovati, 26 agosto 1971
Edizione: Suvini Zerboni, Milano, 1971
Guida all'ascolto (nota 1)

Tempus destruendi / Tempus aedificandi (1970-1971) è l’ultima composizione corale di Luigi Dallapiccola e in assoluto la penultima della sua produzione. Fu data per la prima volta in forma completa il 26 agosto 1971 durante la XXVIII Settimana Musicale Senese, esecutore il Coro da camera della Radiotelevisione italiana diretto da Nino Antonellini: esattamente tre anni dopo che la richiesta di un’opera da eseguirsi per «Testimonium 1971, Gerusalemme» – concerto celebrativo organizzato in Israele una volta ogni due anni – aveva riacceso in lui la fiamma da trentasette anni sopita della composizione per sole voci, ossia, come egli si espresse, «per il più splendente fra tutti i materiali di cui un compositore possa disporre».

La commissione non imponeva limiti di durata, né di mezzi, ma la sola esplicita condizione che la composizione si riferisse alla città di Gerusalemme e quella, più implicita, che fosse in lingua latina. Dopo alcuni mesi di infruttuose ricerche (la scelta di un testo fu sempre per Dallapiccola atto eminentemente poetico se non etico, prima ancora che propriamente compositivo), il musicista, con l’aiuto della moglie, scovò un antico testo medievale del monaco irlandese Dermatus, una Exhortatio dell’undecimo secolo «che suona invito alle genti a partecipare alla prima Crociata, ad andare o a ritornare a Gerusalemme per raccogliere le pietre disperse del Santuario e per ricostruire i muri abbattuti da Nabuzardan, generale in capo dell’esercito babilonese. Mi sembrò che un siffatto testo, vecchio di quasi nove secoli, potesse adattarsi allo stato d’animo degli israeliani, ritornati nella loro patria d’origine». In un paio di settimane di lavoro, la Exhortatio, per coro a cappella, fu compiuta il 3 novembre 1970 e poté essere presentata a Tel Aviv il 4 gennaio 1971, a opera del Coro da camera d’Israele «Rinat» sotto la direzione di Gary Bertini.

Ma la fiamma, tanto a lungo sopita, non era stata appagata dal fuoco di una pur laboriosa ed eccelsa realizzazione. Fu così che, assolta la commissione, Dallapiccola pensò di non lasciare isolato il lavoro appena finito ma di farlo precedere da un brano di significato opposto, ampliandolo così in un’opera dalle dimensioni e dai contenuti tanto più vasti quanto chiaramente simbolici.

Dopo altre ricerche svolte sempre con il prezioso ausilio della moglie, Dallapiccola si risolse ad estrarre una strofa e mezza da un secondo testo dell’antico Medioevo, scritto nell’ottavo secolo da Paolino di Aquileia: una bellissima lamentazione sulla città di Aquileia distrutta per sempre, che, messa in musica in breve tempo e finita il 3 giugno 1971, ebbe il titolo di Ploratus in opposizione a quello di Exhortatio: «con questo accoppiamento», spiegò ancora l’autore, «il significato di Exhortatio esula dalla contingenza (Crociata, o ritorno degli Ebrei alla Terra promessa) per assurgere a un significato più vasto: di edificazione di una civiltà nuova, con valori nuovi o rinnovati, in contrasto con la dissoluzione di una vecchia civiltà, ormai superata». Al dittico così concepito occorse un nuovo titolo complessivo: esso fu trovato nel Qohélet o l’Ecclesiaste, e precisamente in quel terzo capitolo «in cui – a partire dal secondo versetto – si trova, in una sequenza allucinante, ventotto volte il vocabolo tempus (momento adatto a…)». Con una modifica importante, però: giacché Dallapiccola eliminò, rispetto all’originale, la congiunzione et e intitolò la sua opera semplicemente: Tempus destruendi / Tempus aedificandi. Fatto per niente marginale, che lascia aperta la strada a un’interpretazione del dittico più nascostamente sottile di quella apertamente dichiarata dall’autore stesso: come se, in altri termini, i due momenti – quello della distruzione e quello della riedificazione, connessi rispettivamente al compianto e alla esortazione – fossero visti non come un processo lineare di superamento del nuovo rispetto al vecchio, ma come due blocchi contrapposti, quasi drammaticamente, di un eterno ricorso, nel quale momento negativo e momento positivo finiscono per sovrapporsi e rispecchiarsi nella storia circolare dell’uomo e del mondo.

Questa interpretazione, che senza nulla togliere all’ottimismo luminoso della tarda arte dallapiccoliana ne sostanzia i motivi di una sofferta, raccolta testimonianza umana oltre che artistica (con venature intimamente tragiche tuttora misconosciute, ci pare, da analisi troppo univoche), è ancor maggiormente avvalorata dal trattamento dei testi e dall’elaborazione del materiale musicale in sé e rispetto a quelli: trattamento di quelli basato su polifonie intricate, impervie escursioni, drammatiche lacerazioni, disperate contrapposizioni di voci squarciate che anelano alla misura di un ordine; elaborazione di questo improntata a rigorosa unitarietà, che nel trapasso dalla prima alla seconda parte lo lascia in sé intatto pur attraverso le più lontane trasformazioni e le più complesse variazioni. In questo senso Exhortatio cambia letteralmente di significato se eseguita accanto a Ploratus (e va da sé che questa è l’unica esecuzione consentita dall’autore dopo la contingente «prima» di Tel Aviv): giacché essa ricompone, anche musicalmente, gli aspri dissidi del compianto, ma non ne annulla il significato di lutto e tenebre, e si pone, più che come una certezza del trionfo e della luce, come un doloroso appello a ricostruire ciò che è stato distrutto, serbando però, insieme con la fede illimitata nel futuro, il peso della memoria del passato. Ciò che oggi viene ricostruito, forse domani sarà distrutto: e difatti l’Esortazione suona anzitutto invito all’azione («Uscite, come ho detto, uscite da Babilonia, andate o tornate a Gerusalemme») e alla pietas («Raccogliete le pietre del Santuario che sono state disperse»); non offre certezze finali (l’esclamazione perentoriamente imperativa della chiusa è in questo senso fortemente sospensiva). Non si dimentichi, inoltre, che tema dell’Ecclesiaste, da cui Dallapiccola tolse il titolo complessivo del suo lavoro, è la vanità delle umane cose. Vanità che la parola-chiave tempus, quella che nella allucinata sequenza di ripetizioni tanto affascinò il musicista, rende con duplice significato: come coscienza del passare ineluttabile di ogni cosa da un lato (donde il compianto), come «momento adatto a…» dall’altro (donde l’esortazione).

La ricchezza tanto straordinaria quanto criptica dei contenuti delle ultime opere dallapiccoliane dopo Ulisse (da Sicut umbra fino all’estremo Commiato) è calata in strutture compositive così lucenti e di per sé evidenti da celare quegli stessi contenuti e risolverli in valori puramente musicali. In Tempus destruendi / Tempus aedificandi, opera per sole voci, il testo è naturalmente essenziale e, nonostante il suo continuo frazionamento secondo una tecnica compositiva estremamente complessa, rappresenta la guida del discorso musicale; ma ancora una volta è la serie a dettare il carattere e la forma del pezzo. Per Dallapiccola la serie non è mero materiale, ma il principio di individuazione, il nucleo originario, la forma sensibile — per quanto all’inizio astratta — della verità poetica ch’egli vuole trasmettere e che, nell’elaborazione tecnico-compositiva, si concretizza, sviluppando tensioni melodiche, unità metriche, intarsi contrappuntistici, costellazioni di accordi, perfino timbri e dinamiche (e quindi agendo anche sui diversi piani della forma, dalla cellula originaria alla grande architettura complessiva). Nasce di qui, dalla individuale capacità di organizzare e governare il materiale a fini comunque espressivi, la limpida trasparenza della scrittura dallapiccoliana, la sua presa immediata e la piena eloquenza delle sue suggestioni: detto altrimenti, il suo farsi capire anche da chi non possegga gli strumenti specifici dell’analisi.

Sotto questo riguardo, è procedimento tipico di Dallapiccola iniziare da un grado di tensione già altamente sviluppato (un culmine, per intenderci, immediatamente percepibile in quanto tale) e partire da questo per avviare il discorso musicale. La composizione si apre qui con un grido impetuoso, motto ricorrente in molte opere del musicista, specie fra le ultime, vocalizzato sulla sillaba del dolore «Ah!». Spaziando fra ampi, laceranti intervalli melodici, la disperata invocazione ondeggia tempestosa da una linea all’altra della massa corale finché, assestatasi quest’ultima, si assiste alla agghiacciante, quasi sarcastica visione della grandezza distrutta per sempre, della superbia umiliata e atterrata. Punteggiata da interventi parlati e da effetti «a bocca chiusa», l’accesa, drammatica visione si rischiara a poco a poco e, placandosi, introduce il tema del compianto, che dominerà nella seconda parte. Voce eletta del compianto è un soprano solo, indugiante a rievocare, dolcissimamente e vagamente, i preziosi doni del «canto, organo, cetra» ormai perduti, e sostituiti soltanto da «lutto, lamento, gemito». Il vocalizzo che lo sostiene è basato sulla vocale «a» (riduzione di «Ah!», privata del motivo del dolore) e l’accompagnamento ha ora il carattere di una assorta implorazione che prosegue, sempre più depurandosi e spegnendosi, fino alla fine del brano.

La seconda parte del dittico è aperta da una Introduzione sussurrata nella quale il coro, diviso in dodici sezioni, ripete senza connessione sintattica alcune parole particolarmente significative del testo (Exite, Babylon, Jerusalem, lapides, muros); unica forma di canto intonato è qui il pedale tenuto di suoni immobili sulla vocale «a», eco evidente della fine del Compianto. A un tipo di ascolto un po’ ingenuo e immediato, ma almeno in parte non inadeguato, l’Introduzione potrebbe evocare l’immagine di un paesaggio apocalittico e immobile, i luoghi dimenticati e abbandonati dove giacciono le pietre disperse del Santuario, che dovranno essere raccolte per la ricostruzione dei muri distrutti; compositivamente, Dallapiccola se ne serve per fissare una situazione linguistica disgregata e inarticolata, una sorta di «ora zero» del linguaggio che ben si adatta, simbolicamente, a far da contrasto con la compatta chiarezza strutturale della successiva Esortazione (e si osservi ancora come nella scelta e nella concatenazione delle parole sia già la traccia, per così dire concentrata, del testo sintatticamente e semanticamente compiuto: «Uscite da Babilonia per Gerusalemme affinché le pietre ridivengano muri»).

Un grido improvviso, fortissimo, su «Ah!», dà inizio alla Esortazione. L’eloquio, organizzandosi linguisticamente, tende a farsi affermativo, fluido e lineare, ma la sua compattezza è continuamente minata da pause altamente espressive e dalla periodica irruzione del grido, ora quasi urlo sforzato, su «Ah!». Il canto corale, nitido e scorrevole, quasi ansioso di ristabilire un ideale equilibrio omofonico, è nuovamente interrotto dalla voce del soprano solo, ancora più flessibile e dolce nelle sue volute melodiche; un contralto solo gli fa ora eco, quasi accogliendone l’invito alla speranza sul sacro nome di Gerusalemme. È il momento di più alta poesia dell’opera, un attimo di ineffabile, commossa sospensione; cui segue, per aspro contrasto, una nuova, veemente accentuazione drammatica che, passando attraverso le possenti immagini del ricordo della furia distruttiva di Nabuzardan, sbocca nella perentoria esortazione finale, alla quale la ripetizione ascendente sempre più intensa di Exite conferisce il tono di una vera e propria imposizione, senza più possibilità di appello.

Sergio Sablich

Testo

a) Ploratus a) Compianto
O quae in altum extollebas verticem
quomodo jaces despecta, inutilis
pressa ruinis, numquam reparabilis
tempus in omne!
Pro cantu tibi, cithara et organo
luctus advenit, lamentum et gemitus…
O tu che in alto tenevi la testa,
come giaci sprezzata, inutile,
sotto i cumuli delle rovine, irreparabile
per tutti i tempi!
Non canto, non organo, non cetra per te più.
L’ora è giunta del lutto, del lamento, del gemito.
b) Exhortatio b) Esortazione
Exite, ut dixi, exite de Babilonia;
ite, aut redite Jerusalem:
Lapides Sanctuarii qui dispersi sunt recolligite:
Muros quos destruxit Nabuzardan,
princeps militiae Babylonis,
restruite.
Uscite, come ho detto, uscite da Babilonia;
andate o tornate a Gerusalemme:
raccogliete le pietre del Santuario che sono state disperse:
ricostruite i muri che Nabuzardan,
il capo dell’esercito di Babilonia,
ha distrutto.

(1) Testo tratto dal programma di sala del Concerto dell'Ente autonomo del Teatro Comunale di Firenze,
Firenze, Teatro Comunale, 16 novembre 1982


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Ultimo aggiornamento 11 aprile 2020