Job, una sacra rappresentazione

in un atto per soli, voce narrante, coro e orchestra

Musica: Luigi Dallapiccola (1904 - 1975)
Libretto: Luigi Dallapiccola dalla Bibbia, libro di Giobbe

Personaggi:
Organico: soprano, mezzosoprano, tenore, baritono, basso, voce narrante, coro misto, coro recitato, ottavino, 2 flauti, oboe, corno inglese, clarinetto piccolo, clarinetto., clarinetto basso, fagotto, controfagotto, 2 corni, 2 trombe, trombone, basso tuba, timpani, piatti, tam-tam, tamburo piccolo, tamburo militare, tamburo coperto, grancassa, celesta, pianoforte, xilofono, vibrafono, archi
Composizione: 13 settembre 1950
Prima esecuzione: Roma, Teatro Eliseo, 30 ottobre 1950
Edizione: Suvini Zerboni, Milano, 1951
Dedica: Clelia e Guido M. Gatti
Guida all'ascolto 1 (nota 1)

La nascita

Quella dell'associazione Anfiparnaso, creata a Roma nel 1949 e scioltaci nel 1950, fu un'esperienza culturale breve, ma intensa. Presero parte all'iniziativa, tra gli altri, Renato Guttuso, Luchino Visconti, Goffredo Petrassi. L'associazione fu attiva solo nella seconda metà del 1950, producendo a Roma spettacoli di musica contemporanea, come l'opera Morte dell'aria di Petrassi, o di musica del passato, come la prima esecuzione in tempi moderni del Turco in Italia di Rossini, una delle prime apparizioni di Maria Callas. L'ultima produzione, il 30 ottobre 1950, fu una prima assoluta: Job, una Sacra Rappresentazione, di Luigi Dallapiccola.

Guido Gatti, presidente dell'Anfiparnaso, aveva contattato Dallapiccola già nel 1949 proponendogli per il 1950, anno giubilare, una composizione a tematica sacra. L'accordo si concretizzò però solo alla fine di giugno di quell'anno e il compositore cominciò a lavorare a Job subito dopo. Il tema biblico gli era stato ispirato tempo prima da uno spettacolo visto a Firenze la sera del 13 giugno 1949. Il ballerino Harald Kreutzberg aveva interpretato al teatro della Pergola alcune sue coreografie, tra cui una pièce dal titolo «Giobbe lotta contro Dio». Subito il compositore aveva visto in Giobbe che chiede a Dio la ragione dell'ingiustizia del mondo un'ottima risposta in musica alle critiche bigotte che erano state mosse al suo Prigioniero. Quest'opera infatti aveva prodotto sconcerto fra i benpensanti, poiché la sua trama sembrava rimproverare alle istituzioni ecclesiastiche le malefatte dell'inquisizione. Job offriva a Dallapiccola la materia, per di più dedotta dalla stessa storia sacra, con cui poter sottolineare come il suo interesse principale non fosse certo la critica storica e sociale, ma il percorso interiore dell'uomo, di qualunque epoca, che si confronta con una situazione specifica. In Job il protagonista avrebbe aspirato alla giustizia di cui viene privato, così come il Prigioniero aveva aspirato alla libertà che gli veniva negata. La proposta di Gatti capitava nel momento giusto per dare destinazione concreta al progetto.

Tuttavia, realizzarlo non fu facile. In quell'estate del 1950, Dallapiccola ci appare, nell'epistolario, concentrato e teso. Il lavoro lo assorbe completamente fino a notte. Deve fare di fretta e al meglio; glielo impone la sua etica di compositore. Tutto, nel preparare lo spettacolo con gli organi amministrativi dell'Anfiparnaso, gli sembra organizzato male. Non sa chi è il regista, non si fida a spedire gli autografi a Roma e se lo fa, nessuno gli dice se sono giunti. Pineider, proprietario del negozio per fotocopie di sua fiducia, parte per le vacanze e ciò gli provoca grande preoccupazione. Nei giorni in cui termina la partitura, espelle gentilmente di casa moglie e figlia per aumentare la concentrazione. La sera della prima, i musicisti, capeggiati dalla Callas, entrano in sciopero perché non pagati; Dallapiccola si occulta nel camerino del direttore. Job viene rappresentato con grande ritardo, ma l'autore non ode nulla perché, appunto, è chiuso in quello stanzino. All'indomani, nuova delusione: la trasmissione radiofonica della prima, per esigenze di puntualità del palinsesto radiofonico, è avvenuta mentre gli artisti scioperavano, con un nastro di poca qualità registrato all'antiprova generale. Dallapiccola si lamenterà per anni, con amici e confidenti, di questo episodio e di tutte le disavventure precedenti.

All'interno di Job. La vicenda e il testo

Luigi Dallapiccola ha chiamato Job una «sacra rappresentazione». Tale termine identificava un genere rappresentativo diffuso nel Medioevo che veniva usato per inscenare, nelle più importanti ricorrenze sacre dell'anno, vicende tratte dalla Bibbia o dai Vangeli. Con quelle opere Job ha in comune soprattutto una cosa: il suo essere opera "esemplare", ovvero opera che vuole costituire esempio per chi aspiri ad elevare la propria vita spirituale. La vicenda di Giobbe, contenuta nel vecchio testamento della Bibbia, ha avuto origine nell'ambito culturale babilonese del periodo Cassita (XVI-XIII sec. a. C.). La redazione del testo risale pressappoco al V sec. a. C.. Narra, come è noto, di un uomo e della sua ingiusta sofferenza, impostagli da Dio su invito di Satana per verificare quanto la fedeltà dell'uomo retto sopporti le avversità e i tormenti del destino. Ma la proverbiale pazienza del protagonista («Job», in latino) è presente solo nei primi capitoli del Libro; in realtà, più avanti, la polemica contro le ingiustizie della vita, contro l'impunità dei malvagi, assume tratti accesi e polemici che fanno maledire a Job il giorno della sua nascita, che gli fanno dipingere l'esistenza in modo tragico e disincantato, che gli fanno chiedere direttamente a Dio il perché di tutto ciò. L'antica società che ha prodotto questo testo manifesta tratti di crisi nel continuare a credere in un mondo ordinato da una mente superiore, sebbene sembri giustificare tale teoria con la risposta finale di Jahveh, che proclama l'immensità del creato e le sue meraviglie.

Poiché il testo biblico è una sedimentazione di aggiunte successive a un nucleo originario, consistenti in dissertazioni teologiche ed episodi collaterali, il compositore sentì l'esigenza di riorganizzare il materiale disponibile riducendolo a pochi eventi fondamentali collocati in una sequenza nuova. Tale sequenza realizza un crescendo che comincia dalla scommessa tra Satana e Dio, passa per le sofferenze e i lamenti di Job, accusato dai sui stessi amici, e arriva alla violenta invocazione del protagonista verso Jahveh. Allora Dio si manifesta, parla, e, dopo la bufera, tutto torna tranquillo; Job si pente, l'opera e la musica tacciono. Ma il dubbio rimane.

Più nel dettaglio, la vicenda è così distribuita (i numeri corrispondono alle parti in cui è diviso il libretto e la partitura, che lo segue fedelmente): all'inizio lo "storico" presenta il ricco Job, benemerito di Dio, ed elenca i suoi beni; ma la scena si sposta in cielo dove Dio chiama Satana per mostrargli Job come esempio di rettitudine. Il demonio lo sfida: colpiscilo nelle sue ricchezze, gli dice, vedrai che Job ti maledirà. E Dio lascia libero Satana di rovinare Job (n. 1). Uno dopo l'altro arrivano quattro messaggeri ad annunciare al protagonista le disgrazie che lo hanno colpito: le sue ricchezze sono perdute, i figli morti; ma Job benedice Dio (n. 2). Segue un nuovo colloquio tra Dio e Satana in cui quest'ultimo sostiene che, colpito nella salute, Job bestemmierà Dio (n. 3). Talché, colpito dalla lebbra, il protagonista maledice il giorno della sua nascita, si lamenta, finché entrano i tre amici, lo accusano ingiustamente d'essere un peccatore ed egli si difende (n. 4). Usciti i tre amici, Job è solo e ripensa al suo passato di uomo retto e caritatevole; tutto gli sembra così ingiusto che la sua ira monta fino a chiedere a Jahveh perché gli empi continuino a vivere e i giusti a soffrire (n. 5). Si ode la voce di Dio che magnifica il creato e la sua opera; Job si pente (n. 6). Infine, lo storico narra la riconquistata felicità del protagonista, nuovamente ricco e circondato di affetti (n. 7).

Il compositore aveva raccolto testi biblici vari per confezionare il testo mesi prima di avere la certezza di doverlo musicare. Glieli aveva portati la moglie, impiegata alla Nazionale di Firenze, in gran quantità. Altri li aveva comprati o trovati in casa. Oggi, grazie a studi recenti, sappiamo quali aveva scelto. Quello che interessa a Dallapiccola librettista di Job è creare un linguaggio all'apparenza privo di radici storiche. Rifugge dalle ampollose traduzioni in versi, da quelle che ricordano i libretti d'opera dell'Ottocento; cerca un linguaggio che sembri astratto, ultraterreno. Ci riesce scegliendo parole "generiche" ma non quotidiane, creando una prosa con un suo ritmo regolare, che ricorda il rito religioso o la formula magica, a volte il tono della narrazione fiabesca.

La musica

Nella musica di Job il compositore ricerca la stessa suggestione del rito, della fiaba e del mito, perseguita nel testo. Lo fa principalmente con la combinazione inaudita degli strumenti e del loro timbro, favorita dalla libera dissonanza del sistema dodecafonico. Ma anche utilizzando elementi dalla comunicatività immediata, come all'inizio dell'opera, dove la vibrazione metallica del piatto sospeso e il suono dell'oboe evocano subito un'ambientazione orientale. Il trattamento delle voci è di natura tradizionale e si orienta verso il declamato, nel quale ad ogni sillaba, quasi sempre, corrisponde un nota; non è, dunque, un canto dalle ampie fioriture. Fattore assai innovativo è l'uso del coro parlato per realizzare le voci di Dio e di Satana. La voce multipla che ne deriva è così innaturale e terrifica che le riesce magistralmente di interpretare la natura sovrumana delle entità divine. L'orchestra a volte si muove, spesso nei momenti di riflessione, con scatti improvvisi, che paiono moti istintivi; ma sa procedere anche con chiaro andamento architettonico. Punto forte è comunque la combinazione di timbri e ritmi: il linguaggio di questa musica è nell'atmosfera sonora che riesce a creare, atmosfera tesa e suggestiva da cui bisogna farsi guidare senza ricercarvi il già noto. La partitura di Job vuole evocare la durezza della pietra e il fascino scarno del deserto, ambiente in cui la vicenda biblica naturalmente si colloca. Ma tale ambientazione ha anche un valore simbolico legato alla solidità della fede e alla purezza d'animo, alla difficoltà del vivere, alla ricerca di una spiritualità antica e originaria.

Infinite le invenzioni drammatiche che mandano avanti l'azione; il nostro orecchio è stimolato e spesso sorpreso. Anche le scelte musicali che si avvertono meno, spesso quelle più complesse e intellettuali, si ispirano però alla situazione. Un esempio: quando lo storico, alla fine, narra che Job ha riconquistato la felicità e raddoppiato i suoi beni, la musica che si era udita con quelle parole torna indietro come se si guardasse allo specchio, come se a un certo punto camminassimo all'indietro, di spalle, su un tratto di strada già percorsa. Dallapiccola riesce davvero a conferire magnifico senso espressivo a questa riconquista, a questa conferma della onestà d'animo di Job. L'ultimo accordo con cui finisce la sacra rappresentazione è quasi lo stesso cen cui Mozart, nel Don Giovanni, fa morire e risuscitare il Commendatore. E non è l'unica citazione da quest'opera presente in Job. Dallapiccola sottolinea che il problema della giustizia avvicina il suo personaggio al Commendatore mozartiano. Mettendo a fuoco la grande importanza di tale problema, egli intende affidare alla sua musica un profondo messaggio di civiltà.

Simone Ciolfi

Guida all'ascolto 2 (nota 2)

«E' stato osservato che l'idea fondamentale di lutti i miei lavori per il teatro musicale è sempre la medesima: la lotta dell'uomo contro qualche cosa che è assai piú forte di lui. In Volo di Notte assidsiamo alla lotta del Signor Rivière, il solitario direttore di una compagnia di navigazione aerea, che tenta di imporre i voli notturni nonostante l'opposizione generale e - inoltre - alla lotta del pilota Fabien, la vittima, contro gli elementi della natura. Nel balletto Marsia si assiste alla nota contesa tra il fauno, scopritore della musica, e il dio Apollo. Nel Prigioniero, il protagonista lotta contro l'Inquisizione di Spagna e, infine, nella sacra rappresentazione Job, il protagonista pone a Dio la domanda ardua e impegnativa che mai uomo abbia osato rivolgere alla Divinità. [...] Se il Signor Rivière vince a metà la sua partila (non più che a metà, in quanto egli sente chiaramente di trascinare la catena della sua pesante vittoria), Marsia viene completamente sconfitto per aver osato sfidare Apollo. Il Prigioniero cade nelle braccia del Grande Inquisitore, che lo conduce al rogo. Giobbe riesce a salvarsi in virtú del suo pentimento, quando tutto sembrava oramai perduto».

Per quanto marginali rispetto al tema dello scritto in cui si trovano - ossia la nascita del libretto della sua ultima opera Ulisse - queste frasi di Dallapiccola definiscono con estrema precisione il nodo centrale costantemente presente non solo nel teatro ma in quasi tutta la sua produzione musicale. La domanda che viene posta alla fine di Job (n. 5, Job solo) è questa: «Perché gli empi continuano essi a vivere...?». La risposta di Dio a Giobbe è in realtà un'altra domanda: «Dov'eri tu quand'io fondava la terra...?». Più che di una risposta. si tratta dunque di una catena di domande sempre più incalzanti, da cui discende il «primo passo che porterà alla risposta», come Dallapiccola stesso precisò: e questa risposta verrà data nelle sue opere successive. Anche ll prigioniero si chiudeva con una domanda: «La libertà...?» e sanciva, più che una sconfitta delle ragioni che spingono l'uomo a lottare per principi ideali, come a molti parve, l'impossibilità di dare un significato ultimo e una giustificazione alle ansie e alle domande dell'uomo sul piano della storia e delle pure idealità. La fede negli uomini si scontra col dubbio e vacilla: solo trasferendo questi conflitti e questi interrogativi in un ambito spirituale e metafisico, se non religioso, il nodo comincia a sciogliersi, e nuove prospettive cominciano ad aprirsi. Da questo momento i temi centrali dell'opera di Dallapiccola saranno la lotta dell'individuo con se stesso e il senso dei suo colloquio sempre chiarificatore con la Divinità.

L'uno e l'altro tema appaiono con estrema evidenza in Job. Non fu certo solo per reagire ai molti fraintendimenti originati dalla prima rappresentazione scenica del Prigioniero al Maggio Musicale fiorentino del 1950, né tantomeno alle polemiche e alle vergognose insinuazioni già circolanti dopo la prima assolata radiofonica del 1 ° dicembre 1949 a Torino, che Dallapiccola si risolse a scriverlo. Né sembra che vada sopravvalutata l'indicazione, fornita dall'autore stesso, secondo la quale la prima sollecitazione a occuparsi dell'argomento di Giobbe gli venne da uno spettacolo del danzatore e coreografo tedesco Harald Kreutzberg al Teatro della Pergola di Firenze (13 giugno 1949). Per quanto indmenticabile rimanesse l'impressione del penultimo pezzo del programma, «Giobbe lotta con Dio», Dallapiccola sentiva il bisogno di riprendere la questione lasciala aperta - in una visione dolorosamente pessimistica sia con una battuta in fondo anche di teatralissimo effetto - alla fine del Prigioniero, per indirizzarla verso un'altra soluzione. Che sarebbe stata di altro tipo non solo nei contenuti, ma anche nella forma, quella di una «sacra rappresentazione».

Apparentemente decisiva fu la proposta venutagli nel marzo 1950 da Guido M. Gatti di scrivere appunto una sacra rappresentazione per l'associazione romana L'Anfiparnaso, da poco costituita con lo scopo di promuovere l'opera da carnera moderna e, al tempo stesso, far rinascere dall'oblio lavori teatrali antichi. Accettare di comporre una sacra rappresentazione 'moderna' significava anzitutto affrontare il problema drammaturgico dell'azione, che non poteva basarsi su convenzioni operistiche né ripetere le stereotipe funzioni dell'historicus dell'antico oratorio: Dallapiccola lo risolse affidando la parte dello storico a una voce recitante e riservandogli il compito di introdurre la vicenda drammatica, di unire fra loro alcuni episodi con brevi interventi e di concluderla. Non mancavano esempi moderni che avevano già adottato questa linea: ma oltre a quelli comunemente e mecccanicamente citati - Le Roi David di Honegger, Oedipus Rex di Stravinsky e A Survivor from Warsaw di Schönberg - s'imponeva sopratutto con la forza di un'ossessione biblica il peso del contrasto tra parola e azione immanente nel Moses und Aron di Srhönberg. Il quale è il modello tenuto presente da Dallapiccola non solo per la comune fonte dell'Antico Testamento, e per i motivi del rapporto tra uomo e Dio che vi sono raffigurati, mia anche per fondamentali soluzioni drammatiche e musicali, nonché timbriche: come rivela lo stesso organico orchestrale, dove agli strumenti tradizionali si aggiungono celesta, pianoforte, arpa, xilofono e vibrafono. Il grande coro che rappresenta la voce di Dio è accompagnato anche da un gruppo strumentale posto sul palcoscenico e formato da organo, due corni, due trombe e un trombone. Del resto, la data apposta alla fine dell'abbozzo (13 settembre 1950) ha un significato simbolico, coincidendo con il compleanno di Schönberg, e precede di poco il completamento della partitura, 9 ottobre 1950. Poche settimane più tardi, il 3O ottobre 1950, il lavoro ebbe la sua prima rappresentazione assoluta al Teatro Eliseo di Roma.

Per il libretto, Dallapiccola si servì di ben trentequattro diverse edizioni del Libro di Giobbe, in varie lingue e con commenti vari. «Si trattava», spiegò l'autore, «di leggerle tutte, di assorbirne il contenuto. Poi avrei potuto provvedere alla scelta delle parole e a slabilire la forma generale della composizione. Si sa come sia delicata l'operazione che riguarda la scelta delle parole per il teatro musicale, qualora si tratti di estrarle da opere letterarie preesistenti. Delicata operazione, in quanto le parole - immobili sulla pagina stampata - dovranno assumere un'altra veste e un'altra dimensione, onde contribuire a creare il personaggio sulla scena. Per guanto riguarda la 'forma' mi era apparso subito che, in una sacra rappresentazione, una costruzione divisa in pezzi divisi l'uno dall'altro, a numeri, come si diceva una volta, sarebbe stata più che ammissibile anche nel nostro secolo. Una serie di quadri che si succedono l'un l'altro, seguendo lo svolgersi della vicenda». A una lingua volutamente antiquata, che se non giunge a impiegare il latino come nell'oratorio più antico rimane comunque solennemente rituale, si accompagna dunque un impianto formale rigorosamente suddiviso in parti. Che sono sette, tratte da diversi capitoli del Libro di Giobbe. Nel primo e nel terzo numero, la contesa tra Dio e Satana, Dallapiccola impiega due cori parlati a quattro voci, di cui è segnata solo approssimativamente l'altezza e che sono posti in luoghi diversi della scena: con questa soluzione il significato della contesa diviene chiaro e comprensibile al pubblico in tutta la sua enorme importanza drammatica. Ma nel sesto, punto culminante di tutto il lavoro, la voce di Dio è rappresedntata a un coro cantato accompagnato dall'organo, mentre cinque strumenti a fiato posti dietro la scena intonano l'antico inno gregoriano Te Deum laudamus: e qui è la musica che s'incarica di conferire un accento particolare, progressivarnenle impetuoso, alla risposta di Dio alla domanda di Job. Job, i quattro messaggeri e i tre amici sono invece parti cantate: rispettivamente basso-baritono, impegnato in un declamato molto flessibile, soprano contralto tenore e baritono (le parti dei tre amici debbono essere sostenute dagli stessi cantanti che interpretano i primi tre messaggeri). La scelta dei quattro messaggeri (n. 2) è scritta nella forma quasi tradizionale di un quartetto, prefigurata già nella narrazione biblica, dove ogni voce si sovrappone alla seguente prima ancora che questa abbia finito di parlare: come nota Dietrich Kämper nella sua monografia su Dallapiccola, «l'invocazione del nome Job (nona minore discendente: 'ff gridando'), con cui comincia ogni entrata di un nuovo messaggero, presta al quartetto una parvenza di articolazione strofica». Anche la scena in cui gli amici invitano Job a pentirsi (n. 1) è un pezzo d'insieme, costruito però in una drammatica serie di episodi canonici rigorosi.

Job è il primo lavoro dallapiccoliano di una certa lunghezza basato su un'unica serie dodecafonica. Fra i tanti segni nascosti, perfino all'interno delle citazioni e delle allusioni di cui quest'opera è costellata, l'unità realizzata in virtú dell'estensione piú ampia del sistema dodecafonico, accettandone e rispettandone severamente l'articolazione e la logica nello spirito di chi sappia interpretare individualmente le tavole della legge, è un punto di arrivo non soltanto compositivo ma anche simbolico. Ciò che permette la risposta alla domanda di Job e la sua salvezza dopo il pentimento «nella polvere e nella cenere» è il fatto che vi sia riconosciuta una perfetta identità di linguaggio: in altri termini, l'ordine dodecafonico è garante della possibilità di una comunicazione che superi le prove del tormento e le angosce del dubbio. Dio parla all'uomo in un linguaggio che può essere compreso e messo a frutto soltanto perché esiste questa identità. La rivelazione cui alla fine approda Job è dunque la conquista, che d'ora in avanti sarà decisiva, di un mezzo tecnico-espressivo e costruttivo capace di rendere definitiva questa risposta. Una rivelazione per Job quando tutto sembrava oramai perduto, una conquista lungamente preparata e attesa da Dallapiccola.

Sergio Sablich


(1) Testo tratto dal programma di sala del Concerto dell'Accademia di Santa Cecilia,
Roma, Auditorium Parco della Musica, 31 gennaio 2004
(2) Testo tratto dal programma di sala del Concerto del Maggio Musicale Fiorentino,
Firenze, Teatro Comunale, 16 ottobre 1991


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Ultimo aggiornamento 27 agosto 2013