Canti di prigionia, per voci miste e strumenti


Musica: Luigi Dallapiccola (1904 - 1975)
  1. Preghiera di Maria Stuarda - Introduzione - Molto lento - Preghiera - Sempre molto lento, ma un poco più flessibile
    Testo: Maria, regina di Scozia
    Dedica: Paul Collaër
  2. Invocazione di Boezio - Prestissimo
    Testo: Anicio Manlio Severino Boezio
    Dedica: Ernest Ansermet
  3. Congedo di Girolamo Savonarola - Tempo Primo; molto sostenuto, con violenza
    Testo: Girolamo Maria Francesco Matteo Savonarola
    Dedica: Sandro e Luisa Materassi
Organico: coro misto, 2 pianoforti, 2 arpe, timpani, xilofono, vibrafono, campane, piatti, tam-tam, triangolo, tamburo piccolo, tamburo, cassa rullante, grancassa
Composizione: 1938 - 1941
Prima esecuzione: Roma, Teatro delle Arti, 11 dicembre 1941
Edizione: Carisch, Milano, 1948
Guida all'ascolto 1 (nota 1)

I Canti di prigionia furono composti tra il 1938 e il 1941 da Dallapiccola, il quale così si espresse sulla loro genesi: «Stavo lavorando alla mia prima opera Volo di notte quando presero a circolare strane voci che il fascismo potesse dare il via, dopo l'esempio hitleriano, ad una campagna antisemita... Avrei voluto protestare, ma insieme sentivo che ogni mio gesto sarebbe stato vano. Solo attraverso la musica avrei potuto esprimere la mia indignazione... Proprio in quei giorni avevo terminato la lettura della "Maria Stuarda" di Stefan Zweig in cui avevo scoperto una breve preghiera scritta dalla regina negli ultimi anni di carcere. Tuttavia un solo brano mi sembrava troppo poco per esprimere completamente la mia protesta. Dovevo cercare altri testi, di altri prigionieri famosi». In tal modo nacque il trittico di Dallapiccola, formato dalla Preghiera di Maria Stuarda (O domine Deus! Speravi in Te) per voci miste e strumenti, dall'Invocazione di Boezio (Felix qui potuit boni fontem visere lucidum) per voci femminili e strumenti, dal Congedo di Girolamo Savonarola (Premat mundus, insurgant hostes, nihil timeo) per voci miste e strumenti. Si tratta di canti intensamente drammatici, lanciati come ultimo messaggio da tre prigionieri condannati a morte e in un certo senso traslati alla tragica esperienza vissuta dai popoli europei negli anni '38-'41. Essi appartengono alla cosiddetta protest-music, nella quale i valori della Resistenza hanno trovato la loro più significativa esaltazione estetica.

Un complesso strumentale formato da 2 pianoforti, 2 arpe, 6 timpani, xilofono, vibrafono, campane e batteria, si associa alle voci del coro creando un paesaggio sonoro a volte cupo e «senza luce» (come indica il compositore), scosso da brividi e sussulti drammatici e dissolto in stellari atmosfere timbriche; illuminato altre volte dal penetrante lirismo del filo delle voci che cantano a bocca chiusa; pieno di echi persistenti e freddi delle campane e pervaso, come da un nerbo centrale, dal minaccioso e ammonitore Dies Irae gregoriano: quattro note che si prolungano in serie dodecafoniche per costruire una specie di controtema seriale.

Guida all'ascolto 2 (nota 2)

I Canti di prigionia, composti fra il 1938 e il 1941, sono per unanime riconoscimento il capolavoro della prima maturità di Dallapiccola. L'opera si articola in tre parti ma è concepita complessivamente come un ciclo unitario, sia sotto l'aspetto tematico (il trittico riunisce tre preghiere di prigionieri illustri della storia europea) sia dal punto di vista del linguaggio, alla cui base si trova un'unica serie dodecafonica.

Rievocando in uno scritto autobiografico la genesi dei Canti di prigionia, Dallapiccola individua l'impulso determinante per la sua nascita nella decisione di Mussolini, avvenuta il 1° settembre 1938, di indire anche in Italia una campagna razziale antisemita in appoggio a quella promossa dalla Germania hitleriana. L'indignazione per tale atto di Mussolini, che colpiva Dallapiccola anche nei suoi affetti più cari, lo spinse a cercare nella musica una via di espressione e di liberazione che, ben oltre la testimonianza di un individuo singolo, fosse anche una presa di posizione e un atto di impegno dell'arte di fronte agli eventi della storia contemporanea e più in generale a quelli di ogni epoca di oppressione e di limitazione della libertà. Nacque così uno dei più alti esempi di musica di protesta che, proprio per sottolineare il suo significato universale, si indirizzò verso testi di prigionieri del passato, in lingua latina: tre preghiere di «uomini che avevano lottato e creduto» elevate a simbolo dell'umanità intera (di qui la scelta del mezzo corale) e intensificate, con chiara accentuazione della componente religiosa, dalla concentrata densità dell'interpretazione musicale.

Come sempre in Dallapiccola, infatti, il problema maggiore riguardava la scelta del linguaggio con cui esprimere e comunicare uno stato d'animo così fortemente determinato. «Il sistema dodecafonico», egli scrive, «mi affascinava, ma ne sapevo così poco! Stabilii, comunque, una serie di dodici suoni alla base dell'opera complessiva e vi contrappuntai, a mo' di simbolo, un frammento dell'antico canto della Chiesa, 'Dies irae, dies illa'. Considerando la situazione politica generale [...] non mi sembrava fuori luogo pensare al Giudizio finale. Ero convinto, inoltre, che l'impiego del 'Dies irae' a guisa di 'cantus firmus', avrebbe facilitato la comprensione di quanto volevo dire». Se la sequenza «Dies irae, dies illa» funge da avvio e da cerniera dell'intero discorso musicale, è nelle relazioni che si vengono a creare fra canto corale e accompagnamento strumentale che Dallapiccola concentra l'elaborazione compositiva. Al coro misto si aggiunge un complesso strumentale particolarissimo, costituito da 2 pianoforti, 2 arpe, 6 timpani, xilofono, vibrafono, 10 campane e una folta batteria (piatti, triangolo, tam-tam, tamburi, casse di varie dimensioni). Lo sviluppo integrale della tecnica dodecafonica vale come ideale punto di riferimento di uno stile impregnato di tensioni melodiche, contrappuntistiche e persino armoniche, quando non addirittura sospeso nel ritorno di atmosfere modali dal sapore arcaico; in altri termini, si annuncia già qui quella tipicissima appropriazione della dodecafonia da parte di Dallapiccola che consiste nella coesione di principi costruttivi e di valori eminentemente espressivi, talora in evidente continuità con la tradizione.

La prima parte, Preghiera di Maria Stuarda, si divide in una Introduzione strumentale e nel canto sulle parole della regina cattolica di Scozia, che Dallapiccola trae dalla biografia di Stefan Zweig. Le note iniziali del «Dies irae» sono contrappuntate dalla serie dei dodici suoni in un impulso ascensionale progressivo che prepara l'entrata del coro. Essa avviene all'inizio con il parlato senza timbro, cui segue il canto intonato a bocca chiusa, quello vocalizzato e quello spiegato, sul discorso intrecciato di imitazioni dell'accompagnamento strumentale.

L'Invocazione di Boezio (Dallapiccola usa qui due frasi del De consolatione philosophiae di Severino Boezio, il filosofo latino incarcerato da Teodorico a Pavia) è una sorta di «scherzo» il cui carattere «apocalittico» - scrive Dallapiccola «nell'introduzione strumentale è basato sul pp». Questa introduzione, in tempo «Prestissimo», Si potrebbe descrivere come una toccata strumentale, ribollente di canoni e di artifici contrappuntistici. Con l'entrata delle voci (solo femminili, soprani e contralti), l'atmosfera muta radicalmente per farsi più rarefatta e diatonica, adagiandosi in alcuni momenti su estatiche sospensioni modali.

Una meditazione sul salmo In te Domine speravi di Girolamo Savonarola fornisce il testo per l'ultima parte, il Congedo di Girolamo Savonarola. Essa è la più drammatica e intensa, ma anche la più ricca di passaggi e di sfumature. Dopo che all'inizio il coro (di nuovo a voci miste) canta all'unisono con i pianoforti, con un effetto quasi di fanfara, il dramma riesplode con tutta la sua forza, accentuando il contrasto fra voci e orchestra in pesanti accordi alterati, macerie fumanti di armonie tonali schiantate. Il passaggio all'episodio centrale («quoniam in Te Domine speravi») segna invece una trasfigurazione inattesa, un'apertura lirica di dolcezza sconfinata e ottenuta con elementare semplicità: un canone fra 4 contralti soli e 4 soprani soli, in stile poi fugato, che via via si espande anche alle voci maschili, ma per moto contrario.

Sergio Sablich

Guida all'ascolto 3 (nota 3)

La composizione dei Canti dì prigionìa, avviata nel 1938 e conclusa nel '41, si sovrappone al completamento di Volo di notte, la prima opera teatrale di Dallapiccola, e all'avvio del Prigioniero, secondo confronto con il teatro significativamente non definito «opera» ma «un prologo e un atto». Coincidenza interessante e importante la prima, poiché i Canti di prigionia, dal punto di vista tecnico, riprendono e completano quell'approccio alla dodecafonia, ancora liberamente intesa, che Dalla-piccola aveva compiuto per la prima volta nel '36-37, con le Tre laudi per voce acuta e orchestra da camera, e precisato appunto nel Volo di notte, composto di seguito. Un fatto storico importante, questo, poiché resta la sanzione più significativa del trapianto nella musica italiana del principio compositivo di Schönberg e dei viennesi nonché dei modi speciali con i quali una civiltà musicale con tradizioni così diverse da quella austro-tedesca avrebbe potuto far proprio e condurre a esiti felicissimi un «sistema», come quello dodecafonico, germinato direttamente e senza reale soluzione di continuità da una filosofia del comporre squisitamente germanica. La dodecafonia che Dallapiccola aveva a poco a poco conosciuto, e colto, secondo le sue stesse parole, con non poca difficoltà, era ormai assimilata dal compositore fino a divenire quello che egli ebbe a definire, con un'espressione tanto suggestiva quanto densa di significati morali, «uno stato d'animo». E in questa luce i Canti di prigionia, al di là della loro qualità di capolavoro assoluto, restano un documento capitale della storia italiana della composizione con dodici suoni.

Ma lo «stato d'animo» che Dallapiccola riconosceva nel suo farsi compositore dodecafonico è forse la cosa che più conta, nella fisionomia dei Canti: che ancor più strettamente si legano all'altro capitolo contiguo della creatività del musicista, Il prigioniero. Nato, per quanto riguarda la musica, a partire dal '44, nel clima tragico degli ultimi mesi di guerra in una Firenze agghiacciata dall'occupazione nazista, e terminato, dopo un lavoro lungo e più volte interrotto per altre composizioni, soltanto nel '48, Il prigioniero era frutto di una riflessione, o di un'emozione, nata già alla vigilia del conflitto, e addirittura di suggestioni - come quella della figura emblematica e terribile di Filippo II - rimaste impresse in Dallapiccola fin dal primo dopoguerra, quando la dittatura, l'oppressione, la violenza psicologica erano un fatto meno concreto, legato però, sia pure con ben meno dolorosa evidenza, a una prima esperienza dell'ingiustizia, quella della deportazione a Graz della famiglia Dallapiccola, nel '17. Quanto il sentimento della ingiustizia, della «prigionia», così radicato in lui, abbia potuto riaccendersi in Dallapiccola quando sull'orizzonte già cupo di un mondo in balìa dei regimi totalitari e prossimo alla catastrofe si profilò lo spettro delle persecuzioni antisemite - con il significato particolare che esse dovevano assumere per un uomo che si faceva un vanto di essersi unito a un'ebrea - non è difficile comprendere; e del resto ben lo spiega Dallapiccola nel «frammento autobiografico» Genesi dei Canti di prigionia e del Prigioniero, steso fra il '52 e il '53. La reazione personale si tradusse nell'unica forma di protesta possibile a un musicista, una creazione musicale: i Canti di prigionia. Lavoro di eccezionale interesse tecnico, e certo provvisto di un valore autonomo, puramente musicale, di straordinaria altezza, i Canti non possono comunque esser letti se non alla luce del momento che li vide nascere. E anche impressioni di ordine linguistico o stilistico, pure di notevole rilevanza, come quelle che possono suscitare l'impiego di una concezione compositiva liberamente seriale in una dimensione sonora riferibile a precise esperienze novecentesche (l'unione del coro con un complesso strumentale quasi esclusivamente percussivo potrebbe ricordare, per esempio, lo Stravinsky delle Noces, con tutto che si tratti di un compositore in tante cose estraneo alla mentalità e allo stile di un Dallapiccola), o la tecnica con cui è trattato il coro (misto nel primo e nel terzo brano, di sole voci femminili nel secondo), finiscono per essere in qualche misura sbiadite di fronte all'evidenza con la quale la musica sa comunicare un messaggio di così alta tensione poetica e morale.

Daniele Spini

Commento di Dallapiccola (nota 4)

Stavo lavorando a Volo di notte, quando strane voci cominciarono a circolare: in un primo momento a bassa voce e discretamente; più tardi in modo del tutto chiaro. Avrebbero iniziato i fascisti un movimento antisemita, accodandosi servilmente all'ignobile esempio di Hitler?

A metà febbraio del 1938 la Corrispondenza politico-diplomatica si affrettava a smentire le voci che si erano diffuse. Tuttavia, conoscendo per esperienza il significato delle smentite ufficiali, si ebbe l'impressione che Mussolini avrebbe ceduto una volta di più.

Cinque mesi più tardi, il 15 luglio 1938, apparve sui giornali il manifesto razziale, redatto da un gruppo di «studiosi-fascisti» (!), il cui lerciume risultava anche più ributtante perché venato di concetti pseudo-scientifici. Il 1° settembre la campagna razziale diventava una realtà.

Per quanto la verità mi sia cara, avrei omesso ben volentieri questi ultimi capoversi. Dopo averli scritti, sono felice di poter affermare che il popolo italiano non soltanto non appoggiò la campagna razziale, ma vi fu decisamente contrario.

Se, adolescente, avevo sofferto per il confino a Graz, perché mi sembrava ingiusto, come potrei descrivere il mio stato d'animo in quel fatale 1° settembre 1938, ore 17, nell'udire, proclamate dalla voce di Mussolini, le decisioni del governo fascista? Avrei voluto protestare, ma non ero ingenuo al punto di non sapere che, in un regime totalitario, il singolo è impotente.

Soltanto con la musica avrei potuto esprimere la mia indignazione: ben lontano dall'immaginare che, pochi anni dopo, opere come quella che sentivo nascere in me (come Sur la mort d'un tyran di Darius Milhaud (1936), Thyl Claes di Wladimir Vog'el (1937-38), Ode to Napoleon Buonaparte (1941) o A Survivor from Warsaw (1946) di Schoenberg, per limitare al minimo le citazioni) avrebbero avuto una precisa definizione: protest-music.

Avevo letto da poco la biografia di Maria Stuarda di Stefan Zweig. Debbo a questo libro la conoscenza di una breve preghiera scritta dalla regina di Scozia in uno degli ultimi anni della sua prigionia:

O Domine Deus! speravi in Te.
O care mi Jesu! nunc libera me.
In dura catena, in misera poena, desidero Te.
Languendo, gemendo et genu flectendo,
Adoro, imploro, ut liberes me.

Mi sembrò che questi versi, vecchi di secoli, rispecchiassero una condizione umana di ogni tempo e quindi anche di quello in cui si viveva (non avendo mai creduto che attuale fosse soltanto quanto si legge sulle pagine dei quotidiani ed essendo, inoltre, convinto che tra storia e cronaca il passo sia lungo). Era, perciò, mia intenzione trasformare la preghiera individuale della regina in un canto collettivo; volevo che la divina parola libera venisse gridata da tutti. Chi può affermare o escludere che nella mia coscienza - molto in fondo e senza che me ne rendessi conto - vivesse ancora il ricordo di quella prigioniera, la cui condanna aveva così profondamente scosso la mia infanzia?

A un tratto la musica cominciò a urgere in me: con tanta violenza che mi vidi costretto a interrompere per quattro giorni la partitura di Volo di notte. Segnai sui pentagrammi un primo abbozzo della Preghiera di Maria Stuarda, in attesa di darle forma definitiva quando avessi terminato la partitura che mi occupava e che desideravo portare a compimento.

Nei quattro giorni di lavoro dedicati alla Preghiera non mi fu possibile pensare ad altro: voglio dire con ciò che non sapevo ancora se questo fosse destinato a rimanere un brano isolato o se dovesse costituire una parte d'un lavoro di maggiori proporzioni. Soltanto qualche mese più tardi mi apparve chiara la necessità di un maggiore sviluppo. Dovevo, quindi, mettermi alla ricerca di altri testi; bisognava intraprendere un'indagine negli scritti di altri illustri prigionieri, di uomini che avevano lottato e creduto.

Il sistema dodecafonico mi affascinava, ma ne sapevo così poco!

Stabilii, comunque, una serie di dodici suoni alla base dell'opera complessiva e vi contrappuntai, a mo' di simbolo, un frammento dell'antico canto della Chiesa, Dies irae, dies illa. Considerando la situazione politica generale, a poche settimane dal Convegno di Monaco, non mi sembrava fuori luogo pensare al Giudizio finale. Ero convinto, inoltre, che l'impiego del Dies irae a guisa di cantus firmus, avrebbe facilitato la comprensione di quanto volevo dire. La comprensione, ho detto, non il successo né la possibilità di frequenti esecuzioni. Considerazioni come queste, in nessun momento della mia vita, nemmeno per un istante, hanno influito sul mio modo d'essere o di pensare. Nei Canti di Prigionia ho prescritto il vibrafono, perché mi era necessario; pur sapendo che, nel 1938, in tutta Italia non se ne trovava nemmeno uno. (Chi avrebbe immaginato che, a distanza di pochi anni, si sarebbe ritenuto tale strumento idoneo a risolvere ogni problema, non escluso quello del Bene e del Male?).

In due frasi del De consolatione philosophiae di Severino Boezio trovai il testo necessario per il secondo pezzo, al quale lavorai tra la primavera e l'estate del 1940: una sorta di scherzo, il cui carattere «apocalittico», nell'introduzione strumentale, è basato sul pp. Per il brano conclusivo lavorai a lungo attorno a un madrigale di Tommaso Campanella. Senonché un giorno mi apparve chiara l'incongruenza che sarebbe derivata da un testo italiano che tien dietro a due testi latini. Aggiungerò che due versi del madrigale, quelli che seguono lo stupendo

Se nulla in nulla si disfà giammai,

essendo puro pensiero, non sembravano consentire, almeno a me, una interpretazione musicale.

Le ricerche furono riprese. Senza dubbio, le ultime parole di Socrate mi attraevano straordinariamente; ma le due dottissime traduzioni latine che mi fu possibile consultare mi sembrarono fredde, inavvicinabili. Credetti di aver trovato quanto cercavo in una lettera di Sebastiano Castellio; ma mi accorsi in pochi giorni di essermi ingannato una volta di più.

Il 19 agosto mi trovavo con mia moglie al Covigliaio, piccola località dell'Appennino. Quella sera, al Reichstag, Hitler pronunciò il violentissimo discorso nel quale dava per imminenti i bombardamenti sul territorio della Gran Bretagna. Mi ritornarono alla memoria gli orrori che Girolamo Savonarola aveva profetizzato e che si avverarono. Samuel Hoare, allora ministro dell'aeronautica, rispondendo a Hitler, invitò il popolo alla preghiera.

Avevo trovato finalmente! O non aveva scritto qualche cosa di analogo il tragico frate del convento di San Marco in quella Meditatio sul salmo In te Domine speravi, che la morte gli impedì di completare?

Premat mundus, insurgant hostes, nihil timeo.
Quoniam in Te Domine speravi,
Quoniam Tu es spes mea,
Quoniam Tu altissimum posuisti refugium Tuum.

Debbo la prima esecuzione della Preghiera di Maria Stuarda alla Radio Fiamminga di Bruxelles e all'allora suo direttore Paul Collaer, cui la Preghiera è dedicata. Fu il 10 aprile 1940 e fu l'ultima volta che ebbi modo di seguire una trasmissione da quella coraggiosa stazione radio, prima del suo quinquennale silenzio. Perché nel maggio di quell'anno le truppe naziste occuparono il Belgio.

La prima esecuzione dell'opera complessiva ebbe luogo nell'atmosfera sinistra di una Roma eccezionalmente fredda, nelle cui strade non si vedevano se non poliziotti e militi fascisti: parlo dell'11 dicembre 1941, del giorno in cui Mussolini ebbe la pensata di dichiarare la guerra agli Stati Uniti.

Dopo questa esecuzione non fu difficile a uomini e circostanze far cadere nel dimenticatoio i Canti di prigionia. A parte qualche riga pettegola apparsa in alcuni quotidiani, nessuno se ne occupò sino a guerra finita.

Sono grato a Fedele D'Amico per un importante articolo scritto sui Canti nel 1945 - il primo, in ordine di tempo - e alla Società Internazionale per la Musica Contemporanea che, nel primo Festival del dopoguerra (luglio 1946), a Londra «riscoperse» la mia opera.

Luigi Dallapiccola

Testo

PREGHIERA DI MARIA STUARDA

O Domine Deus! Speravi in Te
O care mi Jesu! Nunc libera me
In dura catena, in misera poena
Languendo, gemendo et genuflectendo desidero Te.
Adoro, imploro ut liberas me.

INVOCAZIONE DI BOEZIO

Felix qui potuit boni
Fontem visere lucidum
Felix qui potuit gravis
Terrae solvere vincula.

CONGEDO DI GIROLAMO SAVONAROLA

Premat mundus, insurgant hostes, nihil timeo.
Quoniam in Te Domine speravi
Quoniam Tu es spes mea
Quoniam Tu altissimum posuit refugium Tuum.
(1) Testo tratto dal programma di sala del Concerto dell'Accademia di Santa Cecilia,
Roma, Sala Accademica di via dei Greci, 5 febbraio 1982
(2) Testo tratto dal programma di sala del Concerto della RAI - Radiotelevisione italiana,
Napoli, Sede Regionale per la Campania, 15 novembre 1985
(3) Testo tratto dal programma di sala del Concerto del Maggio Musicale Fiorentino,
Firenze, Teatro Comunale, 15 ottobre 1980
(4) Luigi Dallapiccola, Appunti Incontri Meditazioni, Suvini Zerboni, Milano, 1970


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Ultimo aggiornamento 2 novembre 2017