I Cinque canti per baritono e alcuni strumenti di Luigi Dallapiccola sono stati composti su testi presi dalla traduzione di Quasimodo dei Lìrici Greci e costituiscono nel loro insieme un significativo arco che va dai due quadri aurorali dell'inizio (Molto animato e Tranquillo; serenamente), al tormento del giorno (Rapinoso), fino alla tranquilla immobilità della notte (Lentamente), nella quale soltanto le stelle sono in movimento (Mosso: scorrevole). Gli strumenti sono due flauti, due clarinetti, arpa, pianoforte, viola, violoncello.
Come hanno osservato i più attenti recensori dell'opera, i Cinque canti, scritti nel 1956 e quindi poco dopo la cantata An Mathilde, s'inseriscono in quella fase creativa dallapiccoliana dove «la tessitura è frammentaria all'estremo e soltanto raramente il discorso strumentale si cristallizza in frasi melismatiche che si richiamano allo stile dei Goethe-Lieder» e dove, diversamente dalle opere antecedenti il 1950 (Job compreso), si evita «di creare nodi di polarità tonali entro il linguaggio dodecafonico» (R. Smith-Brindle), giungendo a un equilibrio pantonale costante. Il risultato esteticamente più saliente e originale di tale evoluzione in senso, per intenderci, weberniano è il conseguimento di un linguaggio che, pur nei tratti più intensamente mossi e partecipi, conserva una sua levità, una sua dolcezza: quasi che nell'essenza sonora di questi canti, soprattutto degli ultimi due, si sia trasfuso uno stato d'animo di mesta, virile accettazione verso alcunché d'ineluttabile. Ed è di particolare interesse osservare che tale atmosfera poetica promana da una scrittura che, come nel Canto II («Dorati uccelli dall'acuta voce»), si organizza in strutture le meno dissolte, le meno, insomma, «impressionistiche», in quanto le parti degli strumenti che accompagnano la libera linea del canto procedono nelle forme considerate le più rigorose e severe, quelle canoniche. (Per la precisione si tratta di quattro canoni che cominciano e finiscono con lo stesso doppio canone a quattro voci).
Riferiamo anche che lo Smith-Brindle parla del «simbolismo grafico» di Dallapiccola, esemplato nel Canto III («Acheronte, Acheronte»). Un po' increduli, siamo tornati a osservare la partitura e ci siamo arresi all'evidenza. In ben cinque facciate di quel brano la partitura disegna chiaramente, mediante la disposizione dei pentagrammi, una croce. L'ascoltatore può rendersene conto all'inizio e alla fine del canto, là dove, su note tenute dai clarinetti, un grande accordo dell'orchestra, verticale, taglia le due braccia costituite dalla doppia invocazione del baritono «Acheronte»: emblema e sigillo cristiano che rende per un momento «rapinoso» (questa la didascalia del pezzo) l'assorta natura pagana cantata fin qui e dopo. «Questo simbolo di sofferenza e di agonia dell'umanità» conclude per suo conto il citato critico «accresce il significato di tutto il testo e diventa il cuore e il punto culminante di tutta l'opera».
Giorgio Graziosi