Sei cori di Michelangelo Buonarroti il giovane


Musica: Luigi Dallapiccola (1904 - 1975)
Testo: Michelangelo Buonarroti il giovane

Prima serie per coro a cappella
  1. Coro delle malmaritate - Moderatamente mosso
  2. Coro dei malammogliati - Vigoroso e un poco ciarlatanesco
Organico: coro misto senza accompagnamento
Composizione: 1932 - 1933
Prima esecuzione: Trieste, Società dei Concerti, 17 dicembre 1937
Edizione: Carisch, Milano, 1936
Dedica: a mio padre e a mia madre

Seconda serie per piccolo coro femminile e orchestra da camera
  1. Esposizione - Allegramente ma sostenuto
    Sola orchestra
  2. I balconi della rosa - Invenzione; Lentamente
  3. Il papavero - Capriccio; Allegro ma non troppo
Organico: 4 voci femminili, ottavino, flauto, oboe, clarinetto piccolo, clarinetto, fagotto, 2 corni, 2 trombe, trombone, basso tuba, pianoforte, violino, viola, violoncello, contrabbasso
Composizione: 1934 - 1935
Prima esecuzione: Roma, Accademia di Santa Cecilia, 6 aprile 1935
Edizione: Carisch, Milano, 1936
Dedica: A Gian Francesco Malipiero

Terza serie per coro e orchestra
  1. Coro degli zitti - Ciaccona; Largo, grandioso
  2. Coro dei Lanzi briachi - Gagliarda; Allegro, ma ben sostenuto
Organico: coro misto, ottavino, 3 flauti (3 anche ottavino), 3 oboi, corno inglese, clarinetto piccolo, 2 clarinetti, clarinetto basso, 2 fagotti, controfagotto, 2 sassofoni, 4 corni, 3 trombe, 3 tromboni, basso tuba, timpani, triangolo, 4 piatti, 3 tam-tam, tamburo basco, tamburo militare, tamburo, grancassa, xilofono, 2 arpe, pianoforte, archi
Composizione: 1935 - 1936
Prima esecuzione: Firenze, Teatro Comunale "Vittorio Emanuele", 14 maggio 1937
Edizione: Carisch, Milano, 1936

Guida all'ascolto 1 (nota 1)

Le tre serie che formano i Sei Cori di Michelangelo Buonarroti il Giovane furono composte rispettivamente nel 1933, nel 1934-35 e nel 1935-36. La prima e la terza furono eseguite per la prima volta nel 1937, rispettivamente a Trieste e a Firenze, la seconda a Roma nel 1935; la prima esecuzione dell'opera completa ebbe luogo a Praga nel 1938.

E' questo il lavoro più importante composto da Dallapiccola prima dell'opera Volo di notte (1937-39); e insieme quello che fa da ponte fra la fase diatonica e quella cromatica del suo stile. Qui il cromatismo domina soltanto nel Coro degli zitti, il primo della terza serie; ma la vicinanza con gli altri brani, di stile prevalentemente o completamente diatonico, non suscita alcuna impressione di discontinuità o eclettismo. E questo ci avvia a intendere la gran differenza che passa fra Dallapiccola e quella scuola schoenberghiana di cui pure egli doveva divenire il primo apostolo in Italia. Nella scuola di Vienna il cromatismo nasce dalla crisi del linguaggio romantico, è furore modulatorio, espressione d'una instabilità angosciosa: qualcosa che esclude dunque il diatonismo in via di principio. Invece in Dallapiccola il cromatismo non ha quasi mai senso modulante, è semplice ampliamento dell'orizzonte tonale, in uno spirito estraneo al discorso dialettico del sinfonismo romantico. Dallapiccola tende a una musica sottratta in qualche modo al divenire, da contemplare come un paesaggio; i suoi temi non si sviluppano veramente, piuttosto vanno rotando su se stessi, in un crescendo d'intensità espressiva, fino a comporre una sorta di armonia delle sfere. Perciò i suoi ricorsi ad arcaismi modali, tipici del suo primo periodo, non hanno significato molto diverso dai suoi cromatismi di poi.

Michelangelo Buonarroti il Giovane (1568-1642) fu cosi detto già dai contemporanei, a distinguersi dal grande prozio omonimo (ch'era fratello di suo nonno Buonarroto). Partecipò attivamente alla redazione del Vocabolario della Crusca, prima e seconda edizione; e i suoi interessi filologici si documentano anche nei suoi versi, spesso impegnati a recuperare alla lingua letteraria vocaboli eccezionali o dialettali. Scrisse poesie e soprattutto cose di teatro, delle quali la più famosa è la commedia rusticale La Tancia, illustre anche nella storia della musica per esser divenuta, con la musica di Jacopo Melani, una delle prime opere comiche che si ricordino (Firenze 1657). I due cori della nostra prima serie son tratti dagli intermedi ch'egli scrisse per una commedia di Nicolo Arrighetti, quelli della seconda dagli Enimmi (sono infatti due indovinelli, la cui soluzione è nel titolo), quelli della terza dalla veglia Le Mascherate, che fu il suo ultimo lavoro di teatro.

Le tre serie di Dallapiccola si distinguono nettamente fra loro per l'organico, che varia da un minimo a un massimo di mezzi. La prima è per coro a cappella, cioè senza accompagnamento strumentale; ed è di pure forme madrigalistiche: ogni idea del testo, cioè, realizzata in un'idea musicale corrispondente, in uno stile che alterna il contrappunto all'omofonia.

La seconda per quattro voci femminili (da realizzare a piacere con quattro saliste o con un piccolo coro) e diciassette strumenti. E qui lo spirito madrigalistico tende a innervare strutture sinfoniche, secondo un ideale che fu tipico, in Italia, degli anni trenta (basti ricordare il contemporaneo Salmo IX di Petrassi, 1934-36). I due brani sono infatti preceduti da un'ampia introduzione strumentale che ne anticipa non solo i temi principali, intrecciandoli fra loro, ma anche lo stile compositivo. I testi, che come s'è detto sono due indovinelli, provocano una musica carica d'un senso di aspettazione, che culmina nel radiante climax del Balcone («ch'uscendo fuora all'apparir del giorno»).

La terza serie è per coro misto e grande orchestra; e questo accresce i valori sinfonici rispetto alle due precedenti. Il primo brano, Il coro degli zitti, è il più complesso: una ciaccona. La ciaccona, com'è noto, è una forma di tema con variazioni; qui si articola in tre parti, la seconda delle quali è una fuga. Abilmente l'autore sfrutta, in questo grottesco notturno, i timbri delle sibilanti che il poeta ha profuso nei versi, a rendere gli «zitti». Il secondo brano è una gagliarda, la classica danza italiana dal ritmo energicamente scandito, di cui Dallapiccola rispetta pienamente lo spirito.

Guida all'ascolto 2 (nota 2)

Il linguaggio musicale di Luigi Dallapiccola è certo tra i più individualmente caratterizzati di tutto il '900 e questo a onta della dodecafonia di cui si serve. Ciò valga a riprova del fatto che, come già il sistema tonale, così anche la dodecafonia è assolutamente insufficiente di per sé a definire, non dico uno stile, ma neppure un linguaggio. Che essa rispecchia tutt'al più un atteggiamento mentale del compositore in relazione all'oggetto musicale, atteggiamento certo assai diverso dal pensiero armonico-verticale degli ultimi quattro secoli o da quello melodico-lineare dei secoli precedenti, ma altrettanto non vincolante sul piano operativo o tutt'al più vincolante in modo del tutto generico. Dallapiccola ad esempio ci dà (a differenza, poniamo, di Webern, sistematico livellatore dei rapporti verticali) una variante della dodecafonia che possiamo senz'altro chiamare armonica. Non che l'armonia imponga le sue leggi al discorso musicale, come accadeva per il passato, anzi le riceve ora come regole del giuoco seriale; ma proprio queste regole sono stabilite dal compositore in modo da soddisfare il suo «orecchio interno», che nel caso di Dallapiccola è appunto un orecchio armonico. E' quindi possibile, sia pure per questa via traversa, affermare anche per Dallapiccola il predominio dell'armonia. Di qui la penetranza della sua musica, così astratta all'analisi, così concreta all'ascolto; di qui la sua affascinante ambiguità sia sul piano tecnico (non tanto lontana, in fondo, dall'ambiguità del «contrappunto armonico» di Bach) che sul piano espressivo (certe estenuanti eufonie dallapiccoliane rischiano consapevolmente il disfacimento nel puro edonismo sonoro); di qui la presa immediata della sua potente drammaticità; di qui infine il colore originalissimo della sua scrittura strumentale, mai informata a un'ipotetica autonomia del timbro (come in tanta musica di oggi), ma sempre derivante la fisionomia timbrica dalle sue stesse strutture interne secondo un superiore concetto di armonia-timbro. Tale è in Dallapiccola la sicurezza dell'«orecchio interno», che la stessa dodecafonia non è valsa a mutarne" sostanzialmente lo stile. E' noto infatti che la produzione di Dallapiccola presenta, superficialmente almeno, una cesura, corrispondente all'adozione del metodo dodecafonico e localizzabile all'inarca negli anni intorno ai Canti dì Prigionìa (1938-41), al Mursia (1942) e alle Liriche greche (1942-45).

Mutamento di linguaggio, può darsi, ma non di stile, il quale del resto o c'è o non c'è, e se non c'è è assai improbabile che un qualsiasi metodo o atteggiamento mentale possa sostituirlo. Ma Dallapiccola non ha avuto bisogno della dodecafonia, l'ha semplicemente scelta, per delle ragioni che qui non è il caso di indagare. E dell'unità del suo stile, al di sopra delle eventuali cesure, dà una convincente prova il concerto di questa sera, il cui programma abbraccia riassuntivamente tutto l'arco della produzione dallapiccoliana dal lontano Divertimento alle recentissime Parole di San Paolo.

Opera centrale della prima maturità di Dallapiccola ed esempio tipico di quello che è stato chiamato il neomadrigalismo italiano è il ciclo dei Sei cori di Michelangelo Buonarroti il Giovane, ripartito in tre serie. Alla scrittura madrigalistica cinque-seicentesca si rifanno soprattutto i due cori della prima serie (composti nel 1933), vivacissime composizioni che si potrebbero dire à la Banchieri se l'autenticità dallapiccoliana non fosse ovunque, anche nei recuperi neoclassici delle Tartiniane e della Sonata canonica, assolutamente agli antipodi dei pastiches à la manière de. Le risorse della vocalità dallapiccoliana si applicano qui all'a priori di un tessuto madrigalistico preformato, ma l'individuazione timbrica del medium corale e la forza inventiva scatenantesi nei particolari (anche se ancora subordinata al testo da «rendere in musica») sono già del miglior Dallapiccola. Con i due cori della seconda serie la scrittura madrigalistica può dirsi definitivamente superata: ne fa fede già l'ampia introduzione strumentale, dal poderoso carattere di ostinato in crescendo, tipica invenzione dallapiccoliana nel suo incontenibile «furor dramaticus».

Boris Porena


(1) Testo tratto dal programma di sala del Concerto dell'Accademia di Santa Cecilia,
Roma, Auditorio di via della Conciliazione, 16 dicembre 1962
(2) Testo tratto dal programma di sala del Concerto dell'Accademia Filarmonica Romana,
Roma, Teatro Olimpico, 25 marzo 1965


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Ultimo aggiornamento 16 gennaio 2016