Sinfonia n. 6 in la maggiore


Musica: Anton Bruckner (1824 - 1896)
  1. Majestoso
  2. Adagio. Sehr feierlich (Molto solenne). Largo. Adagio
  3. Scherzo: Nicht schnell (Non rapido) - Trio. Langsam
  4. Finale: Bewegt, doch nicht zu schnell (Mosso, ma non troppo veloce)
Organico: 2 flauti, 2 oboi, 2 clarinetti, 2 fagotti, 4 corni, 3 trombe, 3 tromboni, basso tuba, timpani, archi
Composizione: 1879 - 1881
Prima esecuzione: Vienna, Großer Musikvereinsaal, 26 febbraio 1899
Edizione: Doblinger, Vienna, 1899
Dedica: Anton Olzelt-Newin
Guida all'ascolto 1 (nota 1)

Anche Bruckner, come Brahms, escluse l'opera teatrale dalla sua attività di compositore e scrisse prevalentemente sinfonie e lavori corali di carattere sacro e profano, con e senza accompagnamento. Le sue sinfonie sono nove, di cui la "Nona", che egli chiamò "Decima", sostenendo che l'unica Nona sinfonia era quella di Beethoven, rimase incompiuta. Altra sinfonia, iniziata prima di tutte le altre, è una Sinfonia n. O o in re minore, la "Nullte" a sua volta preceduta da una giovanile e incompleta Sinfonia in fa minore (1863). I pezzi polifonici sacri comprendono otto messe (una per coro a cappella), cinque salmi tra cui il Salmo CL del 1892, un Te Deum, un Magnificat, due Requiem e altre composizioni vocali minori. I brani vocali profani raggruppano molte cantate e alcuni Lieder con coro, spesso unito all'organo o ad altri strumenti. I brani strumentali da camera sono pochi, ma di notevole valore musicale, come il Quartetto in do minore (1862) e il Quintetto in fa (1879), ambedue per archi.

Tra le sinfonie più largamente e giustamente note, anche perché più distaccate dalle influenze schubertiane, mendelssohniane e schumanniane che invece sono ancora presenti dettagliatamente nella sinfonia "Nullte" (Zero) e nella "Seconda" in do minore, di cui l'autore lasciò addirittura quattro versioni, con una dedicata a Liszt, vanno segnalate la "Terza" in re minore chiamata anche la "Wagner-Symphonie", in quanto fu dedicata a Wagner, musicista idolatrato e venerato da Bruckner; la "Quarta" in mi bemolle, detta "Romantica", fatta conoscere in quattro versioni successive, di cui la seconda con un nuovo "Jagd-Scherzo" e la terza, diretta a Vienna da Hans Richter nel 1881 con un nuovo finale; la "Settima" in mi maggiore, dedicata a Luigi II di Baviera e il cui celebre Adagio in tempo di marcia funebre sarebbe stato scritto in parte nel presentimento della morte di Wagner e in parte dopo il doloroso avvenimento; e i tre tempi completi della "Nona" in re minore, non terminata nel finale: tre tempi eseguiti postumi a Vienna l'11 febbraio 1903 sotto la direzione di Felix Loewe, che ne fece anche la revisione.

Natura senza pretese intellettualistiche, ingenua e profondamente religiosa, Bruckner si riallaccia sotto il profilo sinfonico al pensiero e alla tradizione classica austriaca e non a caso quando si parla dei suoi componimenti sinfonici ci si riferisce spesso a Schubert, ma con una sensibilità di strumentazione più appariscente e robusta, dato che il musicista di Ansfelden assorbì da Wagner una tecnica armonica più ricca e colorita ed anche l'uso di strumenti, come la tuba bassa o il cornotuba, più adatti ad esprimere una forma architettonica improntata a grandiosità e magniloquenza. Per tale ragione i seguaci e gli ammiratori di Bruckner, guidati dal critico viennese Theodor Helm, contrapposero il compositore austriaco alla schiera ben più nutrita e influente dei brahmsiani, capeggiati dall'autorevole e cattedratico Herr Professor antiwagneriano Hanslich, arrecando più danni che favori al serafico e pacifico organista di Sankt Florian. Tanto è vero che una parte delle sinfonie di Bruckner cominciarono ad essere apprezzate soltanto verso la fine della vita del compositore, la cui fama di artista fu postuma, soprattutto per merito dei cenacoli bruckneriani diffusi e moltiplicatisi dentro e fuori i paesi di cultura germanica. Nell'ultimo periodo della sua esistenza, Bruckner fu compreso e sostenuto soltanto da una ristretta cerchia di musicisti e direttori d'orchestra di prestigio, come Mahler, Levi, Nikisch, Motti e Loewe che cercarono di imporlo al pubblico contemporaneo. Ma né i brahmsiani (Brahms ebbe per lui parole sprezzanti e anche offensive), né l'onnipotente Liszt e nemmeno il patriarca del mondo musicale tedesco Hans von Bülow mostrarono molta disponibilità per capire e far capire le sinfonie del compositore austriaco, il quale più di una volta espresse la sua amarezza per questo stato di cose e in un'occasione di particolare scoramento accarezzò perfino l'idea di suicidarsi.

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Ancora oggi la Sesta Sinfonia in la maggiore non è tra le più conosciute ed eseguite di Bruckner, forse perché non risponde in pieno a quella idea di grandiosità e di potenza strumentale cui è affidata l'immagine più rilevante di questo autore. Non è che nella sinfonia manchino momenti di densa polifonia e di solida disposizione contrappuntistica; soltanto che il tono generale appare più controllato e dimesso e si avverte una intelaiatura strutturale più frastagliata e spezzettata rispetto alla Quarta e alla Quinta Sinfonia, con molti ripiegamenti e ripensamenti intimistici e a volte dispersivi. La Sinfonia in la maggiore, con lo stesso massiccio organico della Quarta, ebbe una gestazione a più riprese: il primo tempo fu composto tra il 27 settembre 1879 e il 9 giugno 1880; il secondo venne terminato il 22 novembre 1880; il terzo fu scritto tra il 17 dicembre 1880 e il 17 gennaio 1881; il quarto tempo fu composto tra il 28 giugno e il 3 settembre 1881. La prima esecuzione parziale (il secondo e il terzo tempo) ebbe luogo a Vienna l'11 febbraio 1883 sotto la direzione di Wilhelm Jahn: tra il pubblico c'erano Brahms, che si unì agli applausi di molti ascoltatori, e Hanslick, che rimase muto e freddo come una sfinge, secondo il racconto di un allievo di Bruckner.

Un insistente e prolungato battito ritmico caratterizza il primo movimento (Majestoso), in cui il tema iniziale molto vigoroso si sovrappone al moto uniforme di una insistente reiterazione. Ogni pesantezza viene fugata in virtù di un disegno ritmico vivace e nervoso, anche quando la pienezza fonica si dilata nella riesposizione della frase iniziale, toccando momenti di straordinaria energia sonora. Il secondo tema, liricamente delicato, si insinua tra le varie sezioni strumentali e determina una linea espressiva più affannosa, interrotta da un breve corale di stampo organistico, prima di sfociare nel terzo tema, energico ed imperioso. A questo punto il discorso musicale si allarga e si anima progressivamente e i vari temi sembrano travolti dalla figurazione ritmica di attacco, riemergente da una solenne riproposta del primo soggetto, esaltato in modo entusiasmante nella coda finale.

L'Adagio ha un tono affettuosamente riflessivo è si articola in tre gruppi tematici: il primo tema in si bemolle minore ha un andamento pensoso e dolente; il secondo tema in mi maggiore è più effusivo e liederistico, mentre il terzo tema si presenta come una marcia funebre anticipatrice del grande Adagio della Settima sinfonia. Secondo alcuni studiosi tale marcia lascia presagire alcuni squarci sinfonici mahleriani: non per nulla il nome di Mahler è legato alla prima esecuzione integrale della Sesta Sinfonia che il musicista diresse a Vienna il 26 febbraio 1899. Dopo laripresa degli altri temi il secondo tempo si conclude in un rarefatto clima sonoro.

Lo Scherzo evoca nel suo incantato fantasticare sensazioni e immagini derivanti dalla mitologia nordica del tipo Notte di Valpurga. Infatti, secondo Sergio Martinetti, il brano sembra accostarsi ad una concezione romantica che da Mendelssohn giunge sino ad un modo di sentire di Berlioz per certe annotazioni strumentali e per i timbri espressivamente cangianti. Il Trio è il classico Ländler bruckneriano con le pastose armonie dei corni immerse in un clima di trasognata e lunare contemplazione.

Nel Finale vivo e tempestoso Bruckner ricapitola situazioni tematiche e atteggiamenti psicologici esposti in precedenza. La tensione, resa più acuta e tagliente dall'intervento concitato degli ottoni, si impone all'ascolto per gli sbalzi dinamici e le impennate sonore che interrompono il fluente discorso orchestrale su una materia densamente contrappuntistica. Improntata ad esultante festosità giunge la conclusione della Sesta Sinfonia, definita da Bruckner la più impertinente («Die Sechste ist die Kechste») tra quelle da lui composte nell'intero arco creativo.

Guida all'ascolto 2 (nota 2)

Intorno alla metà del secolo scorso, per l'Europa musicale, o quanto meno nell'ambito della civiltà strumentale austro-tedesca, si aggirava uno spettro, venerato e terribile: quello di Beethoven. Con Beethoven, la forma musicale aveva conosciuto avventure sconvolgenti, mutando radicalmente i propri modi d'essere e le proprie ragioni etiche: la tradizione musicale classica aveva trovato in tutta l'opera di lui un proseguimento tanto ardito e decisivo che pareva oramai impossibile in alcun modo prescinderne, e rifarsi direttamente a esperienze precedenti, con tutto che queste potessero portare i nomi augusti di un Haydn e di un Mozart; d'altro canto, l'impronta lasciata da Beethoven sulle forme compositive, e sugli stessi meccanismi di queste, era stata tanto individualistica, tanto unica da risultare manifestamente irripetibile, anche perché legata a una dimensione spirituale affatto diversa da quella instaurata dall'affermarsi della sensibilità romantica. Da qui il vero e proprio complesso che afflisse tutti i maggiori compositori delle generazioni immediatamente successive a quella di Beethoven nei loro rapporti con le grandi forme della musica strumentale; da qui il segno particolare che è facile ravvisare anche nelle maggiori realizzazioni da essi conseguite nel campo della Sonata, del Quartetto, della Sinfonia, quando addirittura non si preferisse svicolare, ed evitare ardui confronti con la storia e con la realtà estetica del presente, dedicandosi a schemi costruttivi affatto diversi: ossia rifugiandosi nelle strutture brevi, governate principalmente dalle necessità dell'espressione e della confessione più diretta, oppure eleggendo a principio del divenire della composizione una suggestione non primariamente musicale, come avvenne nel caso della musica a programma o comunque di ispirazione poetico-letteraria e descrittiva. Era naturale che una simile incertezza, di natura tanto storica che estetica, si riverberasse con particolare incidenza proprio sulla Sinfonia, genere compositivo fra i più impegnativi e meno maneggevoli, ben difficile da ricondurre a quella registrazione di emozioni e di suggestioni che viceversa poteva essere consentita dalla scrittura pianistica o dal dialogare di un complesso da camera: fu possibile a uno Schubcrt farsi provvisoriamente, e non senza sporadiche incertezze, una personale concezione della forma; riuscì a un Mendelssohn, e forse in due soli casi, ricostituire con la bravura dell'artigiano felicissimo un equilibrio perduto; riuscì a uno Schumann, con fatica enorme, incanalare in ribollenti intuizioni sinfoniche un'ispirazione e un contenuto musicale che sinfonici propriamente non erano, creando capolavori splendidi ma talvolta traballanti. Ma esaurita con la Quarta l'esperienza sinfonica schumanniana, potè sembrare veramente che la forma principe della composizione orchestrale avesse concluso la sua parabola, e che il grande tronco portato poco più di mezzo secolo prima a rigogliosa maturazione da Haydn non dovesse dare più frutti.

Dopo il 1851, l'anno del definitivo rifacimento della Quarta di Schumann, la storia della Sinfonia, che ovviamente si limita a prendere in considerazione solo le opere degne di memoria, registra un vuoto di quindici anni. Il maestro che con maggior autorità e più caparbio e cosciente senso della storia avrebbe per l'ultima volta rinverdito il ceppo genuino della Sinfonia classico-romantica, Brahms, aveva già due volte tentato la composizione di una Sinfonia; ma si era arrestato, rimandando l'impresa a tempi migliori, imponendosi nel frattempo un faticoso noviziato formale nel campo della musica da camera: la sua Prima e la sua Seconda avrebbero veduto la luce soltanto nel 1876-77. Lo batté di parecchi anni un musicista più anziano di lui anagraficamente, ma di più recente vocazione compositiva, che inaugurando con beata astrazione dalla contingenza del momento storico la genealogia dei grandi inattuali in musica, avviò nel 1865 una delle più singolari esperienze creative della storia della Sinfonia. A differenza di Brahms, che consapevolmente avrebbe siglato la conclusione di un preciso capitolo storico, Bruckner ne scrisse senza rendersene affatto conto, e senza porsi nessun problema rispetto al passato o al futuro, una pagina altrettanto gloriosa, isolata sostanzialmente, ma anche capace di offrire qualche premessa per altre, diversissime avventure di una forma, o del nome di una forma, per altri versi morta e sepolta. Troppo spesso, certo, si è parlato di lui come del precursore di Mahler, e giustamente questa discendenza è stata più volte revocata in dubbio. Ma è altrettanto certo che l'inedita dilatazione delle strutture sinfoniche di Bruckner, il respiro quasi cosmico delle sue maggiori creazioni, l'anelito a una trascendente totalità espressiva implicito nel suo ricorrere al linguaggio armonico e melodico di Wagner, così proiettato verso più vasti orizzonti tonali, costituiscono il solo precedente che si possa riconoscere alle ambizioni universali di certo sinfonismo mahleriano, ferma restando la radicale divergenza delle poetiche e degli assunti spirituali.

Sostanzialmente estranee, nel loro afflato mistico, al ferreo impegno formale di Brahms, ma anche lontanissime, nel loro vigoroso candore, dai compiacimenti letterari degli incandescenti poemi sinfonici di un Liszt, le grandiose composizioni sinfoniche bruckneriane costituiscono un unicum nella storia dell'ultimo Romanticismo centroeuropeo. Il solo termine di confronto che paia proponibile sul piano linguistico, è forse Franck, con il suo tessuto armonico dichiaratamente wagneriano, con il suo colore orchestrale talvolta memore delle scomposizioni di piani timbrici e di volume caratteristiche dell'organo tardoromantico: ma anche qui la dimensione spirituale è profondamente diversa, tingendosi nel musicista franco-belga di venature decadenti, stilizzate in un compiacimento contrappuntistico di sapore neogotico, nell'austriaco di castissime estasi contemplative, di un senso del grandioso e del trascendente autenticamente fuori dal tempo. C'erano dunque tutte le premesse perché Bruckner fosse un musicista solo e incompreso: e lo fu, anche se in misura minore di quanto non ci abbia abituato a pensare tanta facile aneddotica. Al di là del riguardo e dell'affetto di un Mahler e di un Wolf e della benevolenza di Wagner e dei wagneriani, Bruckner seppe guadagnarsi la stima di molti. Ma certo pesò su di lui l'ostilità di un critico come Eduard Hanslick, nemico giurato di tutto ciò che sapesse e si dicesse wagneriano, e quella ancor più temibile di un Brahms: legittima, se si pensa che Brahms aveva da difendere la validità di una propria estetica e di una propria etica del comporre; ma non al punto di giustificare la patente di «idiota» affibbiata a Bruckner dal grande rivale, che lo metteva in un mazzo con «i fratacci di Sankt Florian». Allusione, questa, che nella sua pesantezza ben coglieva un dato importantissimo, e non solo biograficamente, della personalità di Bruckner, quello della fervente e incrollabile fede cattolica, cui bisogna ricondurre il marcato spiritualismo che informa tanta parte della sua musica, come pure talune particolarità del suo lessico di sinfonista. Si è parlato fin troppo, a questo proposilo, dell'inconfondibile impronta organistica di tante prospettive timbriche bruckneriane: della strumentazione divisa per famiglie, ricreando le contrapposizioni di registri caratteristiche appunto del grande organo del secondo Ottocento; del frequente arrestarsi del flusso sinfonico in grandiose masse sonore, effetti grandiosi ottenuti con un sistema semplicissimo, ossia con la molteplice ripetizione di un medesimo inciso articolato in robusti agglomerati accordali, simili a quelli determinati dalla sovrapposizione di tastiere e pedaliera in più raddoppi; della combinazione orizzontale di due o più lince melodiche, meglio se affidate ai legni, contrappuntisticamente dialoganti fra loro come in un divertimento di fuga suddiviso fra i due manuali, e così via. Ma sarebbe errato far risalire tutto ciò a una abitudine eminentemente organistica di Bruckner, che fu viceversa compositore di autentica vocazione sinfonica anche in fatto di strumentazione: si trattava piuttosto di una dimensione genuinamente liturgica, ecclesiastica, del suo modo di intendere la musica «a maggior gloria di Dio»; unico canale che potesse accogliere le torrenziali espressioni di quella genuina «febbre della Sinfonia» che Brahms stesso non potè non riconoscergli.

La composizione della Sesta sinfonia occupò Bruckner fra il 1879 e il 1881. Subito dopo aver terminato questa Sinfonia, il musicista avrebbe avviato la composizione della Settima, aprendo l'ultima fase della sua produzione, quella che avrebbe dato vita alla triade dei massimi capolavori sinfonici (Settima, Ottava e Nona), e al Te Deum in do maggiore. Negli anni precedenti Bruckner aveva prodotto tre Sinfonie di grande impegno formale ed espressivo, passando dalle monumentali e drammatiche strutture della Terza alle espansioni romantiche, vistosamente aperte a sensazioni naturalistiche, della Quarta, all'immensa dilatazione formale della gigantesca Quinta, nutrita di studiate elaborazioni contrappuntistiche: opere ciascuna per suo conto assai importanti, destinate a entrare nel «corpo maggiore» delle Sinfonie bruckneriane, al pari delle ultime tre. Molte cose, dunque, dalla collocazione cronologica nell'ambito del catalogo delle composizioni di Bruckner all'intento espressivo, dal linguaggio in essa impiegato alle stesse dimensioni, relativamente ridotte, quanto a durata media, rispetto al consueto, tendono esteriormente a collocare la Sesta fra le Sinfonie minori di Bruckner: donde una fortuna e una diffusione tutto sommato meno ampie che per le altre, eccezione fatta per la Seconda, che in qualche cosa del restò le assomiglia. Viceversa, questa Sinfonia che Gianandrea Gavazzeni ammira come «intima e teologale, fantastica e solare», resta una pagina perfettamente rappresentativa della spiritualità e della personalità musicale del suo autore, limitandosi a costituire, semmai un momento di più composto ripiegamento riflessivo; e senza che la valutazione estetica debba prestarsi più che tanto a riserve. Se in essa la tenerezza struggente del sinfonismo bruckneriano si adorna più che altrove di gentili suggestioni pastorali, se le grandiose perorazioni degli ottoni occupano uno spazio minore che non altrove, se l'espansione lirica è più contenuta e salva sostanzialmente le proporzioni, se non gli schemi, della forma sinfonica storica, resta tuttavia predominante un assunto spirituale gravido, se non di misticismo, di senso del sacro, le più trasparenti filigrane timbriche si alternano ai fortissimi di un'orchestra gonfia di ottoni, il cromatismo di melodie e armonie non è meno incalzante di sempre, l'inventiva ritmica è anche qui continuamente rinnovata, l'intensità emotiva - basterebbe l'Adagio — tocca punte indimenticabili. Forse a caratterizzare la Sesta nell'ambito delle nove Sinfonie di Bruckner potrebbero bastare le parole del compositore stesso, schiette com'era lui: «Die Sechste ist die Keckste», «la Sesta è la più sfacciata», ma anche «la più sincera», la più immediatamente confidenziale.

All'inizio del primo movimento, i violini stabiliscono con i loro trasparenti ribattuti in pianissimo un'atmosfera fantastica: sotto questa fascia timbrica violoncelli e contrabbassi affermano imperiosi il primo tema, che nonostante l'originalità e la relativa irregolarità del suo disegno ritmico si dipana con ieratica solennità, rendendo subito ragione dell'indicazione agogica prescritta da Bruckner in bizzarro italiano, «Majestoso». Il gruppo tematico si arricchisce via via di nuove proposte, in successive riesposizioni e varianti: l'ampio sviluppo dei motivi si combina con l'ininterrotto pulsare del ritmo iniziale, che si spegne solo al termine dell'esposizione di questo primo tema, lasciando scoperto il flauto a far da ponte prima della presentazione del secondo. Questo è un tema di ampia e densa cantabilità, più lento nel movimento, e anch'esso sottoposto a un intenso sviluppo, nel quale si incastra un frammento di corale, affidato e fiati e violoncelli, di sapore vagamente brahmsiano: alla suggestiva oasi lirica subentra il clima eroico e grandioso del terzo tema, chiaramente derivato dal primo, che esplode in un fortissimo di tutta l'orchestra, percorsa da squilli di trombe: le poderose masse sonore create dalla strumentazione a blocchi acquistano un taglio quasi crudo grazie alla piega ardita assunta dal discorso melodico e armonico. L'ampio sviluppo maschera dietro un'intonazione espressiva prevalentemente tersa, contenuta nella dinamica e scorrevole nell'eleganza delle ornamentazioni, un impianto essenzialmente polifonico, articolato in capillari elaborazioni contrappuntistiche. Una vigorosa presentazione del primo tema, scandito dai fiati in fortissimo contro il consueto accompagnamento ritmico degli archi, stavolta potentemente sbalzati, precede immediatamente la ripresa dei tre motivi principali, coronata da una coda grandiosa, che vede il ritmo iniziale trionfare nelle smaglianti prospettive timbriche e dinamiche degli ottoni.

L'Adagio si apre con un tema di profonda e intensa espressività, esposto dai violini e presto esteso in suggestivi interventi dei fiati; segue un secondo elemento, di più effusa cantabilità, che par anticipare in certe pieghe melodiche un'altra altissima pagina bruckneriana, l'Adagio della Settima: un perentorio intervento del «tutti» orchestrale si placa in un ritorno al clima fondamentale del movimento, sul quale si innesta imprevedibilmente una sorta di Marcia funebre, in tempo Grave. Poi la ripresa dei due temi iniziali, un crescendo che porta a un'altra poderosa espansione sonora, un ritorno della Marcia funebre, sospesa in una corona contrabbassi: la coda è sommessa, con pochi tocchi dei legni, dei corni e dei timpani contro i morbidi pianissimo degli archi. L'inventiva timbrica e ritmica dello Scherzo dà vita a una pagina fra le più originali e fantastiche fra quelle dettate da Bruckner: un aereo e inquieto motivo dei violini stagliato contro la regolare pulsazione dei bassi, punteggiato da trasparenti interventi dei legni, si alterna a un episodio più tagliente, che impegna tutta la massa orchestrale. La brusca conclusione in fortissimo preannuncia l'irrequieto e ancor più fantastico Trio, nel quale si introducono le fanfare dei corni, con una reminiscenza del primo movimento della Quinta sinfonia.

Ancora una volta costruito su tre temi, secondo una prassi pressoché costante in Bruckner (che almeno in questo fu simile a Brahms, e analogamente si discostò dal fondamentale impegno dialettico della forma sonata classica, basata sul contrasto di due temi ben distinti), il Finale si presenta come un ampio e non sempre organico edificio sonoro. Questo è forse l'unico tempo della Sesta che veramente offra il fianco a critiche motivate, non riuscendo a evitare i rischi di un certo disordinato accavallamento di idee, sottolineato dalla faticosa inquietudine di alcune proposte ritmiche. L'impulso entusiasta, vitalistico di questo movimento giunge a travolgere l'impianto eminentemente lirico della maggior parte del materiale tematico, fino alla trionfante perorazione degli ottoni che conclude ambiziosamente la Sinfonia.

Daniele Spini


(1) Testo tratto dal programma di sala del Concerto dell'Accademia di Santa Cecilia;
Roma, Auditorio di via della Conciliazione, 14 dicembre 1985
(2) Testo tratto dal programma di sala del Concerto del Maggio Musicale Fiorentino,
Firenze, Teatro Comunale, 6 giugno 1980

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Ultimo aggiornamento 29 ottobre 2019