Sonata n. 2 in mi bemolle maggiore per clarinetto (o viola) e pianoforte, op. 120 n. 2


Musica: Johannes Brahms (1833-1897)
  1. Allegro amabile (mi bemolle maggiore)
  2. Allegro appassionato (mi bemolle maggiore). Trio: Sostenuto (si maggiore)
  3. Andante con moto (mi bemolle maggiore). Tema con variazioni. Allegro (mi bemolle minore)
Organico: clarinetto (o viola), pianoforte
Composizione: Ischl, estate 1894
Prima esecuzione: Vienna, Großer Musikvereinsaal, 12 Novembre 1894
Edizione: Simrock, Berlino 1895
Guida all'ascolto 1 (nota 1)

La musica da camera occupa un posto di rilievo nell'arco dell'intera produzione artistica brahmsiana, non solo per il numero e la varietà delle composizioni, quanto piuttosto per la qualità di certi lavori, che racchiudono i tratti più sinceri e duraturi della personalità dell'autore del Requiem tedesco. Non per nulla quello struggente senso di malinconia e di poesia crepuscolare, il quale viene sottolineato spesso a proposito dell'arte di Brahms, si ritrova in maniera così chiara e precisa in alcuni dei tre Quartetti per archi e dei sei Trii per pianoforte, violino e violoncello, per non parlare delle stupende tre Sonate per violino e pianoforte, un insieme di opere che maggiorimente testimoniano delle vigorose facoltà inventive e costruttive del compositore. Qui si avverte un romanticismo intimo e riflessivo fatto di tenera nostalgia per i sentimenti più semplici e delicati, espressi con naturalezza e freschezza di immagini, non privi di certi accenti scherzosi e popolareschi, tipici della musica cameristica schubertiana. Non a caso qualche studioso ritiene che Brahms sia non solo il continuatore, ma l'ultimo epigono di Beethoven, in quanto nella sua arte sentimentalmente borghese non c'è più l'esaltazione della volontà di lotta nella vita, intesa come elemento dialettico e drammatico, che sta alla base invece dell'estetica del musicista di Bonn. Ma ciò non toglie che Brahms resta una delle componenti più valide del romanticismo tedesco e proprio i più zelanti esaltatori del pensiero germanico lo innalzarono, lui vivente, a contraltare del cenacolo di Weimar che aveva Liszt a sommo pontefice e adunava sotto il suo vessillo avvenirista i wagneriani più esagitati e intransigenti.

E' noto che con il Quintetto in sol maggiore op. 111, composto nell'estate del 1890, Brahms pensava di porre fine alla sua attività creatrice, che aveva toccato tutti i generi musicali, esclusa l'opera lirica. C'è una lettera dell'editore Simrock che testimonia con un tono di amarezza questo stato d'animo del compositore. Tuttavia per una pura coincidenza l'anno seguente Brahms conobbe a Meiningen il famoso clarinettista Richard Mühfeld, che lo spinse a scrivere delle musiche per il suo strumento, il più dolce e malinconico degli strumenti a fiato, che rispondeva molto alla particolare «stimmung» brahmsiana. Nacquero allora quattro lavori cameristici di notevole significato tecnico ed estetico: il Quintetto in si minore per clarinetto e quartetto d'archi op. 115, che è un autentico capolavoro, il Trio in la minore per clarinetto, violoncello e pianoforte op. 114 e le due Sonate in fa minore e in mi bemolle maggiore per clarinetto e pianoforte op. 120. Queste ultime furono scritte nell'estate del 1894 e fu lo stesso Brahms ad indicare indifferentemente la parte sia per il clarinetto come per la viola, sottolineando in tal modo la particolare tessitura timbrica abbastanza omogenea dei due strumenti, i quali non escono mai dai confini del registro medio-grave.

L'elemento cantabile e delicatamente intimistico della Sonata op. 120 n. 2 viene fuori sin dal tema iniziale dell'Allegro amabile, così morbido e tenero nella sua sinuosità melodica. Da esso si sviluppa quel gioco delle variazioni in cui Brahms era maestro, fedele ad uno stile compositivo che può definirsi in questo modo: l'idea resta la stessa, ma cambiano le forme e gli atteggiamenti espressivi. Non per nulla Schoenberg e Webern parlarono di un Brahms progressista e anticipatore, in nuce naturalmente, di procedimenti tecnici e creativi assurti a regola fondamentale presso la scuola dodecafonica viennese. L'Allegro del secondo movimento, impostato come uno Scherzo vivace e impetuoso tra momenti di sospensioni liriche, si richiama maggiormente ad una linea tradizionale, mentre nell'ultimo tempo e specialmente nel pensoso Andante con variazioni si ritrova il Brahms più autentico e coerente con se stesso, capace di scomporre e di valorizzare nelle combinazioni armoniche più diverse la stessa cellula sonora. Tutto ritorna luminosamente classicheggiante nell'Allegro conclusivo, prima che la Sonata torni ad immergersi nello stesso clima iniziale di austera malinconia.

Guida all'ascolto 2 (nota 2)

Le due Sonate op. 120 n. 1 e n. 2, concepite nell'estate 1894 a Bad Ischl, nella quiete e serenità offerte dalla bellezza incantevole dei luoghi, dei paesaggi di natura, tra distese passeggiate e amabili discussioni con amici e conoscenti, sono uno degli ultimi lavori brahmsiani: estrema, quasi liminale testimonianza della sua arte, del suo inconfondibile stile. Una sorta di testamento spirituale pervaso da un'aura di soavità austera, da tratti di dolorosa malinconia, di struggente attesa, di interiore meditazione. Vi sono sì momenti di scuotimento ardente, di giovanili trasalimenti, vi è il sorriso e il compiacimento delle cose, il piacere della vita vissuta, però subito ammorbiditi, attenuati, corretti da uno sguardo sereno e controllato di riflessiva moderazione, di elegiaco affetto, dì nostalgico pensiero che trova nel valore profondo del ricordo una propria ragione, di rassegnata attesa dell'ineluttabile: una sorta di rilascio espressivo, come se si guardasse le cose con sottile distacco, carichi di un'esperienza in grado di spegnere l'esuberanza eccessiva, di filtrare gli accadimenti con la necessaria saggezza. Dal punto di vista delle tecniche di scrittura Brahms modella le due sonate valendosi del sofisticato strumento della variazione, artificio che qui contribuisce a irrorare la forma garantendone struttura ed equilibrio. Temi e idee si autoalimentano con continue varianti, travisamenti, cambiamenti, richiami allusivi, però sapientemente controllati, in modo che l'intera costruzione risulti perfetta e coerente nel progressivo, continuo cambiamento.

La Sonata in mi bemolle maggiore op. 120 n. 2 ci rappresenta un Brahms nostalgico eppure dignitoso e controllato, chino su se stesso alla ricerca del tempo perduto, ma dotato e padrone della necessaria intensità e profondità di pensiero. Dal punto di vista dei contenuti espressivi la seconda sonata dell'op. 120 si presenta ricca di soluzioni impreviste e inusitate, di ombreggiature liriche alternate a scatti emotivi che a tratti richiamano lo Schumann dei Phantasiestücke, sino quasi a rievocarne la sonorità, la Stimmung.

Nell'Allegro amabile d'apertura un carezzevole primo tema al clarinetto è avvolto dal circolare abbraccio di accompagnamento del pianoforte; ripreso in eco nei bassi della tastiera, è poi trasformato in un'intensa frase di transizione - variante del tema primo - affidata al pianoforte che si cimenta su ampie e poderose ottave, poi al clarinetto, che si spinge sino alle zone più ombrose e gravi. Si apre così la strada per il secondo tema, misterioso, ieratico, in canone alla quinta tra basso e clarinetto, mentre la destra del pianoforte echeggia elementi intercalari del primo tema; una transizione II - anch'essa derivata dal primo tema per inversione dell'inciso iniziale - sopra interlocutori accordi di attesa ribaditi in sequenza, è resa infine perentoria in una concitata frase accordale. Il terzo elemento, dal carattere aperto ed espansivo, espresso a piena voce dal clarinetto, è pure imparentato con il primo tema per il tracciato iniziale semitonale e la reiterazione intervallare di quarta, tutti elementi contenuti nella cellula originaria. Un'interlocutoria frase accordale di collegamento apre allo sviluppo, davvero emblematico del tardo stile brahmsiano, che vive di un'arte sottile e spoglia, spesso immateriale, concisa, concentrata su luminosità diafane e trasparenti, in grado di focalizzare l'attenzione su poche immagini asciutte, essenziali. L'ascoltatore è come rapito, trasportato dentro a un mondo misterioso carico di sorprese. È il primo tema ad aprire la strada, a condurre il viaggiatore per mano: lo sentiamo, variato, prima esposto sopra un percorso fortemente cadenzale che pare estraniarci dal contatto di realtà, secondo una surreale immagine di commiato, per poi invece ritornare materializzato, ben definito, come a ripartire, e infine apparire ancora allentato, indugiando. Di nuovo, bruscamente, il tempo si rimette in moto con la transizione I, in successione a pianoforte e clarinetto, con il secondo tema, la transizione II, che però non risolve nella concitata frase accordale ma passa a echeggianti richiami del primo tema, via via rivisitato sotto più profili, all'interno di una matassa intricata tutta fatta di cromatismi ed enarmonie dai riflessi iridescenti. Quando giunge, la ripresa non è del tutto simmetrica: ecco infatti il primo tema ornato da un arpeggio ancora più fitto rispetto all'esposizione, ma con un passo aggiunto e senza transizione I, seguito dal ritorno del secondo tema, della transizione II con la concitata frase finale, del terzo tema e della frase di collegamento. La sequenza del materiale tematico prosegue ora come se iniziasse un secondo sviluppo: ma siamo invece all'epilogo e prevale il tono di distacco; ancor più di quanto avevamo sentito in precedenza, con il ritorno in forma di variante del primo tema, della transizione II, qui disposta su di una carezzevole progressione. Sino alla coda (Tranquillo), sulla figura di tre note del primo tema, trasfigurata su posture flessibili di estenuata dolcezza.

Il secondo tempo, Allegro appassionato, è uno Scherzo dallo slancio schumanniano, intenso e dalla verve travolgente: nostalgie di gioventù, si direbbe, anche se mai in grado di cancellare l'equilibrio e il senso della maturità raggiunti. Così ecco l'espansivo tema principale, definito dall'intervallo di sesta, già contenuto nella linea originaria del primo elemento dell'Allegro amabile; ripreso dal pianoforte, è sottoposto a divagazioni con il clarinetto basate sempre sugli intervalli standard, infine rallentato in interiezioni che giocano sull'intervallo di sesta. Il lavorio tematico si autoalimenta continuamente con la ripresa del tema, poi variato in nuove divagazioni che ora si rifanno a un altro tratto caratteristico, la scaletta discenderte di quattro note; sino al ritorno in forma rallentata e crepuscolare del tema stesso, trasfigurato e in dissolvenza, che pare quasi tornare sui propri passi. In pochi passaggi abbiamo visto come Brahms abbia sapientemente forgiato la pagina musicale nel senso della più plastica variazione, anche attraverso singoli elementi minimi, garantendo la piena continuità motivico tematica. La matrice intervallare ogni volta funziona da elemento generante, come accade anche nel Trio (Sostenuto), dal motivo solenne ritmato da accordi profondi e compatti, sottilmente connessi alla scalarità dell'idea base in forma aumentata, esteso al canto accorato del clarinetto e sviluppato in varianti di possente frontalità. Infine la ripresa del Tempo I, preceduta da un'anticipazione dell'incipit tematico, riporta integralmente allo Scherzo, con l'aggiunta della variante minima di un largo abbraccio nell'arpeggio conclusivo.

L'ultimo tempo della Sonata, come il Finale della Quarta Sinfonia, è un tema con variazioni e rappresenta il vero climax del brano. Di stampo liederistico, piano e meditativo, si dipana con calma nell'Andante con moto, organizzato su due ampi periodi complementari articolati sopra una serie di pacate cadenze collegate da una sequenza accordale semplice e lineare al basso. Ancora una volta forte è il grado di parentela con la cellula iniziale, poiché deriva per inversione di un suo tratto lineare rappresentativo. E straordinario è il lavorio motivico cui Brahms sottopone il materiale, dato che ogni variazione pare fiorire dall'altra, prolungandone senso e carattere per poi progressivamente affermare la propria personalità. La prima variazione non si distanzia molto dal calco ispirativo del tema, semmai si distingue per la linea fluida un po' puntiforme, dalla scarna essenzialità, mentre la seconda si muove a scatti presentando il tema ridotto a sequela di suoni radi sopra un topos ritmico caratteristico di cellula puntata, abbellita da un'intelaiatura interna in terzine in ondulato arpeggio di semicrome. La terza variazione addensa la linea in un più fitto e brulicante dialogo interstrumentale; il suo tema è parcellizzato dentro a nebulose miriadi di biscrome, in una sorta di moto perpetuo che tutto avvolge, mentre la quarta è più meditativa per il suo quasi ipostatico tema accordale, di volta in volta dissolto e poi riappreso, in enigmatica metamorfosi, con il clarinetto che intona solo spezzoni appena accennati. Così, notevole è lo stacco con la tempestosa quinta variazione sospinta dall'intenso Allegro che spicca per la scalpitante, fulgida rincorsa pianistica, per una brillantezza di tipo toccatistico, per la baldanza esibita del clarinetto. Il momento dell'agognato riposo, del commiato gentile, giunge infine con la sesta e ultima variazione (Più tranquillo), che segna il momento intimistico del ripiegamento crepuscolare. Qui la linea si dipana, con calma e serenità, in elaborate posture e passi tematici, sentimentali allusioni e rilasci: polverizzata in carezzevoli commenti, esita, attende. Infine conclude rapida nella toccatistica ultima versione (coda) del tratto tematico che fa della brillantezza la sua cifra.

Marino Mora

Guida all'ascolto 3 (nota 3)

Non per la viola, ma per il clarinetto sono state originariamente concepite le due Sonate op. 120; esse - come le altre composizioni di Brahms che vedono il clarinetto in un ruolo solistico (il Trio op. 114, il Quintetto op. 115) - appartengono all'estrema stagione creativa dell'autore, e devono la loro origine all'incontro con uno straordinario strumentista, Richard von Muhlfeld. Nel 1891 Brahms, incurante della celebrità e addolorato dalla perdita di persone a lui care, aveva appena confessato al suo amico ed editore Simrock di aver apposto la parola "fine" alla sua attività creativa quando, a Meiningen, fece la conoscenza di Muhlfeld, che ricopriva la carica di primo clarinetto presso la locale orchestra di corte. Le doti somme dello strumentista vinsero tutti i propositi di inattività del compositore e gli dettarono nell'estate seguente il Trio e il Quintetto; le due Sonate op. 120 sarebbero seguite nel 1894, nate di getto nel corso di una vacanza a Ischl, dopo un nuovo incontro, avvenuto a Vienna, con il clarinettista.

Muhlfeld possedeva certo una somma abilità tecnica, ma dovettero essere più ancora di questa la straordinaria dolcezza e duttilità del suo suono ad affascinare Brahms; e in effetti queste caratteristiche si mostravano perfettamente idonee a porre in rilievo, ad esaltare la propensione elegiaca e l'intimismo sobrio e malinconico che sono le proprietà più immediatamente evidenti dell'ultima maniera brahmsiana. Non a caso, presentandosi la necessità di affidare i due brani anche ad un altro strumento, per facilitarne, secondo un'antica prassi, la diffusione, l'autore non scelse (come già Beethoven per il Trio op. 11) il violino, ma la viola, considerata affine al clarinetto non solo per la tessitura, ma per le implicazioni espressivamente opache del timbro (e va osservato che il calcolo commerciale si rivelò esatto, dato che ancora oggi è più facile ascoltare in concerto le due Sonate per viola piuttosto che per clarinetto). Dunque, ignorate le capacità virtuosistiche e brillanti del clarinetto/viola, è la componente lirica, cantabile, introspettiva dello strumento melodico a proiettare un'ombra fascinosa sulle due partiture; al pianoforte è riservato il compito di secondare e amplificare le peculiari proposte espressive dell'altro strumento, secondo quel principio comune a tutta la cameristica brahmsiana, che vuole lo strumento a tastiera in un ruolo non conflittuale ma solidale rispetto agli altri strumenti.

E ancora un altro fattore è decisivo nel definire il fascino delle partiture. Le due Sonate, infatti, appaiono opere emblematiche di quella particolare tendenza dell'ultimo Brahms ad avvalersi di un materiale di base estremamente sobrio, ed elaborato con una "economia" di pensiero che porta a sviluppare al massimo un assunto di base minimo. Il principio della variazione integrale trova davvero qui una affermazione magistrale, instaurando sotterranee correlazioni fra i temi delle partiture, secondo un procedimento tecnico di cui l'ascoltatore non capta il dettaglio, ma il senso complessivo di continuità e coerenza.

Sobria, con l'articolazione in tre movimenti, la Sonata in mi bemolle maggiore è forse più generosa nel contenuto; l'Allegro amabile iniziale privilegia una medesima ambientazione espressiva; il motivo ampio, ritmicamente fluttuante che apre il movimento evita contrapposizioni dialettiche con la seconda idea (un canone timidamente esitante fra la viola e il basso del pianoforte), e dà poi origine a un terzo tema che conclude più incisivamente l'esposizione; la sezione dello sviluppo si svolge secondo la logica di elaborazione paratattica così cara a Brahms; dopo la riesposizione il movimento viene chiuso da una breve coda riassuntiva.

Il tempo centrale è uno Scherzo che, col suo carattere aggressivo, viene a creare un pronunciato contrasto col movimento precedente; alle nette anacrusi iniziali succede l'ampia melodia del Trio (esposta dal pianoforte) non esente da influenze popolari. Chiude la Sonata, secondo una tradizione consolidata nelle composizioni con strumento a fiato solista, un tema con variazioni, in cui ovviamente il modello non viene pedissequamente ricalcato da ogni variazione, ma piuttosto funge da spunto a una libera reinterpretazione; e la tecnica brahmsiana di elaborazione "cellulare" coglie qui uno dei suoi risultati più alti, anche se non più celebrati.

Arrigo Quattrocchi


(1) Testo tratto dal programma di sala del Concerto dell'Accademia di Santa Cecilia,
Roma, Auditorio di Via della Conciliazione, 5 dicembre 1980
(2) Testo tratto dal libretto inserito nel CD allegato al n. 199 della rivista Amadeus
(3) Testo tratto dal programma di sala del Concerto dell'Accademia Filarmonica Romana,
Roma, Teatro Olimpico, 12 dicembre 1996

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Ultimo aggiornamento 21 ottobre 2014