Quintetto per archi n. 2 in sol maggiore, op. 111


Musica: Johannes Brahms (1833-1897)
  1. Allegro non troppo, ma con brio (sol maggiore)
  2. Adagio (re minore)
  3. Un poco Allegretto (sol minore). Trio (sol maggiore)
  4. Vivace ma non troppo presto (sol maggiore)
Organico: 2 violini, 2 viole, violoncello
Composizione: Ischl, estate 1890
Prima esecuzione: Vienna, Bösendorfer-Saal, 11 novembre 1890
Edizione: Simrock, Berlino, 1891
Guida all'ascolto 1 (nota 1)

Il Quintetto in Sol maggiore, nasce a Ischi durante il soggiorno estivo di Brahms nel 1890. Il musicista, ormai cinquantasettenne, aveva già alle spalle le quattro Sinfonie e tutti i maggiori lavori - orchestrali e cameristici - che avevano reso glorioso il suo nome nell'Europa intera. Il «fatale» numero d'opus 111, sacro per Brahms alla memoria dell'ultima Sonata pianistica beethoveniana, veniva a cadere, per così dire, su un atto di discrezione del compositore di Amburgo, giacché il materiale tematico impiegato ora nel Quintetto (e segnatamente nel suo primo movimento) sembrava destinato, in origine, ad una Quinta Sinfonia, il cui progetto era stato però accantonato con decisione. Nella rinuncia a quel progetto, molteplici dovettero essere le concause: né va dimenticato il valore critico - quasi d'«avvertimento» - che l'inizio della nuova decade in fin de siècle assumeva per tante poetiche della musica. Già nel 1889 era apparsa la Prima Sinfonia di Gustav Mahler, salutata da Brahms con ambiguo compiacimento: e nello stesso 1890 vedeva la luce il poema sinfonico Tod und Verklaerung del giovane Richard Strauss, compositore che Brahms aveva considerato con molta attenzione (e benevoli consigli) già in precedenza.

Brahms, dunque, preferì concentrare l'intensità del proprio «tardo stile» sugli organici ridotti della musica cameristica, arricchita di ogni conquista armonica, timbrica e ritmica: ed è noto che, con l'op. 111, il musicista pensava seriamente di chiudere la propria carriera. Sarebbe stata, a tutti gli effetti, una chiusa «in maggiore», già con i segni di un nec plus ultra che forse Brahms avrebbe esteso volentieri a tutto il ciclo storico della musica occidentale.

Lavoro tra i massimi di tutta la produzione brahmsiana per bellezza d'invenzione, coerenza formale e tono riccamente enigmatico dei vettori espressivi, il Quintetto in Sol seguì di poco tempo - significativamente - una puntata di Brahms nell'amatissima Italia (primavera del 1890). Forse, nessuno potrebbe dire esattamente per quali motivi il Quintetto richiami, qua e là, le medesime intonazioni di «capriccio italiano» che si riscontrano nella coeva Italienische Serenade (anch'essa in Sol, e per quartetto d'archi) di Hugo Wolf: ma una convergenza d'intenti, e segrete ispirazioni, è innegabile nei lavori dei due «nemici»: e questo, forse, determina la maggiore distanza di fattura ed espressione dal precedente Quintetto brahmsiano.

Il primo movimento soprattutto (che riproduce esattamente l'indicazione dinamica! dell'altro; Quintetto: Allegro non troppo, ma con brio) sa catturare immediatamente, e con forza soave, l'attenzione dell'uditore, come per un'improvvisa rivelazione onirica, ove il materiale sinfonico (primo tema al violoncello sullo sfondo ondeggiante degli altri archi) si decanta in una visione più raccolta, e pure ugualmente espansiva: diremmo, il passaggio da una pittura ad olio a una «tempera» di chiara luminosità, ma anche assai mossa.

Brahms fu poi pregato di modificare lievemente le prime, fitte battute d'accompagnamento, per permettere al cello di emergere con minore difficoltà: ne sortì uno schizzo di variante, che però il compositore - fortunatamente - non seppe decidersi a passare nella definitiva edizione a stampa.

La misteriosa, specifica necessità espressiva, che da Schubert a Schumann e a Brahms è vera «costante» nel carattere del secondo tema sonatistico, sembra poi, qui, valersi di inafferrabile ironia, con un'idea melodica semplicissima, cantilenante, che potrebbe ugualmente intendersi come reminiscenza viennese, allusione canzonettistica o indiretta citazione di un passo leggero di Carmen (tanto cara a Vienna). Lo sviluppo, con il fittissimo lavorìo degli archi, è tutto dominato da queste profilature melodiche, riemergenti di continuo nell'allure scopertamente vitalistica dell'intero pezzo.

L'Adagio, che si vale della tecnica a variazioni, segna il momento di aperta méditation nel corpo del Quintetto: «breve e profondo» lo definì Joachim, e in esso risalta l'uso melodico - pregno di pathos - della prima viola, in carattere ungherese, entro l'impianto strofico delle variazioni.

Altri larvati caratteri etnofonici potrebbero cogliersi nel Poco Allegretto che segue, e che il Landormy definiva «uno dei più perfetti modelli di Scherzo in minore» nella produzione di Brahms: dialoghi di violini e viole a coppie, delicatezza impagabile del Trio nel tono principale, echi di valzer come d'uno Schubert a sua volta trasfigurato.

Nel Finale, i ritmi binarì di czardas confermano l'inflessione ungherese che anche guida l'intero lavoro, ma senza compromettere l'ampiezza del linguaggio e del potere evocativo: e anch'esso, sull'eco persistente del primo radioso movimento, concorre a quell'effetto di singolare ambiguità - o, per così dire, di inquieta felicità espressiva - che a ben vedere lascia condensare nell'idea di questo Quintetto ogni più penetrante tematica di «estetismo» e di «ethos» nella cultura europea del periodo. Come lo spirito profetico del Nietzsche «classicista» è necessario alla comprensione di Hugo Wolf, così esso è necessario anche qui, per la percezione vera e simultanea di «leggerezza» e «profondità» nel momento dell'ultima svolta artistica di Brahms: il quale dovette gioire, infine, poco prima della morte - e già festeggiato in Vienna come il vecchio Haydn - al riascolto del Quintetto in Sol, durante l'ultimo trionfale concerto pubblico al quale potè assistere.

Diego Bertocchi

Guida all'ascolto 2 (nota 2)

Il genere del quintetto per archi fu affrontato compiutamente da Johannes Brahms solamente in due occasioni, relative agli anni della maturità, e poi dell'estremo periodo creativo; il Quintetto op. 88 vide la luce nel 1882, il Quintetto op. 111 invece nel 1890; ed entrambi questi lavori si avvalgono della formazione per due violini, due viole e un violoncello, già impiegata da Mozart, piuttosto che di quella per una viola e due violoncelli prediletta da Boccherini e prescelta da Schubert. Questo tardivo interesse di Brahms per la formazione quintettistica potrebbe stupire considerando l'importanza di tutti i vari generi cameristici nella produzione giovanile del compositore. È nota la cautela con cui Johannes Brahms si accostò alla scrittura sinfonica e al genere della sinfonia. I vari lavori cameristici, a prescindere dal valore intrinseco, costituirono così anche una sorta di sperimentazione in miniatura della scrittura sinfonica prima del varo della prima coppia di Sinfonie, nel 1876-77.

Tuttavia già in precedenza - e precisamente nel 1862, l'anno del trasferimento a Vienna dalla nativa Amburgo - Brahms si era dedicato alla stesura di un Quintetto per archi che, in questo caso, si appoggiava all'organico per due violini, una sola viola e due violoncelli. Univoco fu il giudizio degli amici e confidenti del compositore, Clara Schumann e Joseph Joachim: la qualità musicale del lavoro era straordinaria, e tuttavia la destinazione all'organico per soli archi non sembrava sufficiente a sostenere il peso del discorso musicale, il fitto ordito contrappuntistico che richiedeva il soccorso del pianoforte - e d'altra parte fino a quel momento l'unico lavoro della cameristica brahmsiana che aveva fatto a meno del pianoforte era il Sestetto op. 18. Di qui la decisione dell'autore di trascrivere per due pianoforti il lavoro, e di distruggere la versione per soli archi. Né la versione pianistica sarebbe stata l'ultima, poiché, dietro suggerimento di Eduard Hanslick, Brahms avrebbe dato veste definitiva allo spartito convertendolo nel Quintetto per pianoforte ed archi op. 34, lavoro d'altronde celeberrimo.

In questo insuccesso iniziale occorre dunque individuare le cause del distacco di Brahms dal genere del quintetto; e forse anche il fatto che il ritorno a questo genere sia avvenuto a conclusione di tutta l'esperienza compositiva per archi soli, dopo i due Sestetti e i tre Quartetti. E una frase dello stesso autore, scritta a Joachim nell'inviargli in anteprima il Quintetto op. 111, rivela il più autentico modello dei due spartiti: «E ora mi auguro davvero che il lavoro ti piaccia almeno un po', ma non peritarti di dirmi il contrario. In tal caso, mi consolerò con il primo [dei Quintetti], e, per entrambi, con quelli di Mozart!». Il richiamo a Mozart non avviene solamente per la scelta dell'organico con due viole, ma anche per quella conquista, tipica del Brahms della maturità come dell'ultimo Mozart, di essere conciso nella forma quanto intenso nella espressione, mantenendo una ferrea coerenza grazie all'uso di una peculiare quanto oculatissima elaborazione a partire da pochi elementi tematici di base.

Relativamente al Quintetto op. 111 sono poche le vicende della genesi degne di menzione. Sembra sia stato Joachim a stimolare il compositore a creare un nuovo quintetto che facesse da pendent all'op. 88; e Brahms, sempre incline a scrivere opere a "coppie", reinvestendo nel secondo lavoro l'esperienza guadagnata nel primo, si applicò alla stesura del brano nel 1890, reimpiegandovi forse del materiale appuntato nel corso del viaggio nel nord-Italia dell'anno precedente e destinato in un primo momento a una mai realizzata quinta sinfonia. L'ammirazione di tutti gli amici del compositore, da Elisabeth von Herzogenberg a Joachim a Hanslick, non impedì di avanzare obiezioni sulla complessità della scrittura e segnatamente sulla densità delle voci di accompagnamento. Ma proprio questa densità è, d'altra parte, una caratteristica saliente della scrittura per archi di Brahms, come indica chiaramente l'inizio del Quintetto.

L'Allegro non troppo ma con brio si apre infatti su di un accompagnamento complesso, sul quale si staglia poi la melodia sinuosa del violoncello, che, irregolare e inquieta, deborda subito - come notò Schönberg - dai margini canonici; un valzer languido accompagnato da pizzicati costituisce il secondo tema (e d'altra parte tutto il Quintetto è percorso da ritmi di danza viennese), e appaiono altre importanti idee, quali un motivo ascendente e poi discendente al secondo e al primo violino. Proprio questo motivo e un ripetuto accompagnamento di tremoli, in pianissimo, aprono la sezione dello sviluppo, che fa ricorso poi al primo tema e si svolge complessivamente in quattro distinti momenti che si avvicendano con una precisa alternanza di situazioni. Dopo la riesposizione troviamo una coda che riprende in movenze di danza i principali spunti tematici, prima di uno scatto finale.

Profondo è il contrasto con il secondo tempo, un Adagio in minore che adotta la forma del tema con variazioni e si svolge in una ambientazione espressiva segnata da un pathos malinconico così tipicamente brahmsiano. Non a caso il tema viene esposto dalla voce opaca della viola, prediletta da Brahms. A somiglianza di altri movimenti dello stesso tipo le variazioni centrali seguono la strada di una progressiva "lievitazione" espressiva anche se l'intensificazione degli accompagnamenti non disattende mai il pathos dell'esordio; una cadenza conduce alla IV e ultima variazione, che si ripiega nella ambientazione iniziale. In continuità si pongono le scelte espressive del terzo tempo, anch'esso in minore, che più che di Scherzo ha il carattere di intermezzo, animato da un ritmo di valzer triste e segnato da un lirismo e da una cristallinità di scrittura. Il Trio passa al modo maggiore e accoglie movenze di danza viennese che, dopo la riesposizione, riappaiono nella coda.

Il finale si riallaccia invece al tempo iniziale per la complessità dell'impostazione; sembra sorgere spontaneamente dal terzo tempo, tuttavia, per l'incipit in si minore che solo in seguito passa al "regolare" sol maggiore. Il tema principale è, come spesso nella cameristica brahmsiana, di ascendenza ungherese e il movimento è tuttavia in forma sonata piuttosto che in quella di rondò, come più spesso avviene nei numerosi finali "zigani" di Brahms. Ma anche lo sviluppo è pervaso dallo spunto ritmico iniziale, riproposto sia testualmente sia in complesse elaborazioni, anche contrappuntistiche; e la ripresa, che modifica la disposizione strumentale rispetto all'esposizione, conferma come l'idea base del finale consista nello sfruttare tutte le trasformazioni possibili del nucleo tematico. Un vibrante unisono di tutti gli archi conduce alla coda, corsa felicissima che accentua il carattere ungherese del movimento.

Arrigo Quattrocchi

Guida all'ascolto 3 (nota 3)

I fatto che per qualche tempo Brahms abbia considerato il Quintetto per archi in sol maggiore op. 111 la sua ultima composizione oggi fa sorridere. Il quintetto fu scritto a Bad Ischl nell'estate del 1890, di ritorno dall'ennesimo viaggio in Italia, e negli anni successivi verranno altre opere sublimi: tanto per fare qualche esempio, le composizioni con protagonista il clarinetto, tra cui il Quintetto op. 115, i brevi pezzi pianistici delle opp. 116-119, i Vier ernste Gesänge op. 121. Se nel Quintetto op. 111, che segue di otto anni la gemella op. 88, è effettivamente dato di cogliere in qualche modo l'intenzione di un coronamento, benché rivelatosi poi tutt'altro che conclusivo, ci si può chiedere quali ne siano i tratti salienti. In ogni caso, la composizione presenta lineamenti molto particolari. Max Kalbeck, autore all'inizio del Novecento di una monumentale monografia su Brahms, sottolineò lo spiccato carattere viennese di un'opera in cui avrebbero trovato il loro punto d'incontro «tedesco senso dell'umorismo e melanconia slava, temperamento italiano e orgoglio magiaro», intendendo dunque per viennese l'amalgama asburgico e mitteleuropeo di culture diverse. Si deve a Kalbeck anche la supposizione che l'inizio del quintetto abbia avuto origine da una delle ultime due sinfonie abbozzate ma mai portate a termine da Brahms. Dopo una prova, Kalbeck chiese inoltre all'autore se l'opera non avesse come sottotitolo segreto «Brahms al Prater»; al che Brahms gli avrebbe risposto, con furbesco ammiccamento degli occhi: «Giusto. Non è vero? E tra molte belle ragazze». Queste indicazioni contribuiscono a inquadrare il Quintetto op. 111, che Brahms sottopose come d'abitudine al giudizio di alcuni amici fidati, ricevendo i consensi, tra gli altri, di Elisabeth von Herzogenberg e di Joseph Joachim, consensi appena velati da qualche perplessità sulle difficoltà esecutive della partitura.

Ora, per quanto riguarda il carattere viennese il quintetto manifesta numerose inflessioni locali nei molteplici riferimenti al valzer e alla musica tzigana, peraltro ormai perfettamente assimilati nel linguaggio brahmsiano. In vari passaggi, a incominciare dal movimento iniziale, la scrittura tende a forzare i limiti della musica da camera proiettandosi in una virtuale dimensione sinfonica. I giudizi degli amici e poi la recensione di Eduard Hanslick della prima esecuzione affidata al Quartetto Rosé (Vienna, 11 novembre 1890) rilevarono subito alcuni aspetti essenziali del lavoro, che pare fondere in modo mirabile prorompente freschezza d'ispirazione (degna d'un trentenne, secondo Elisabeth von Herzogenberg) e assoluto magistero compositivo: l'invenzione radiosa, la gioiosa vitalità sonora, la luminosa trasparenza della tessitura, la concisione e la saldissima coerenza interna della forma.

Tutto ciò s'impone sin dall'Allegro non troppo, ma con brio naturalmente in forma di sonata. Il primo tema occupa per così dire subito la scena. Tocca al violoncello disegnarne con grande volume di suono la melodia, rampante e sinuosa, contro lo sfondo dei tremoli degli altri strumenti, dando l'impressione di una crescita organica e inarrestabile sino alla breve transizione, dove la pulsazione si fa meno pressante per anticipare lo stacco del secondo tema. In quest'ultimo, in re maggiore, cantato espressivo dalle viole e poi dai violini, si ravvisa il primo riferimento al valzer, poi subito confermato dal tema conclusivo dell'esposizione, che del secondo tema costituisce la naturale prosecuzione. Segue, a questo punto, la ripetizione dell'esposizione. Lo sviluppo trae avvio in pianissimo dalla testa del tema conclusivo, in rilievo sullo sfondo dei tremoli dell'inizio, per poi profilare una vigorosa elaborazione contrappuntistica sui motivi del primo tema, che si riaffaccia fugacemente anche nella sua configurazione originaria. Ed è sull'iterazione di un elemento ancora del primo tema, combinato con una nuova figura ascendente per gradi congiunti, che si fonda la successiva sezione, dolce, a passo di valzer. Proprio questa nuova figura regge il filo della sezione che porta a termine con rinnovato vigore lo sviluppo, facendo risuonare per due volte al violino I l'anticipazione di un pregnante motivo del primo tema che aprirà la ripresa. Come accade spesso in Brahms, la saldatura tra sviluppo e ripresa è estremamente sfumata; ora la linea del primo tema, accennata dal violoncello, passa subito al violino I nel registro sovracuto. La ripresa ripercorre quindi, con le dovute trasposizioni tonali, l'esposizione, allineando la transizione, il secondo tema ora in sol maggiore e quello conclusivo. Adesso quest'ultimo è tuttavia ampliato in un nuovo episodio lirico e sognante, venato di inflessioni minori, che trapassa poi morbidamente nella coda, fondata su motivi del tema conclusivo e del primo tema e anch'essa sognante sino al risolutivo scatto finale.

Nell'Adagio in re minore Brahms sembra essersi ispirato alla musica tzigana dei caffè viennesi (frasi corte, ritmi puntati, intervalli eccedenti e diminuiti, tremoli che imitano il cimbalom); il movimento ha ia forma di una libera serie di variazioni dove il tema ricompare via via sotto diverse luci in varianti di lunghezza irregolare e secondo una logica di progressivo sviluppo. Il malinconico tema è costituito da una sezione principale, di natura eminentemente melodica, condotta dalla viola I, e da una sezione complementare, contraddistinta dall'incedere frammentato e poi da arabeschi. Le due sezioni si ritrovano nella prima variazione, dove prendono tuttavia piede le figure puntate e gli arabeschi, mentre nella seconda variazione alla sezione principale, condotta dal violino I, segue una nuova prosecuzione basata sulla chiusa in terzine della stessa sezione principale. La terza variazione inizia in maggiore: la sezione principale del tema si espande in un concitato climax di ritmi puntati, gestualità declamatorie, percussive note ribattute sino a un arabesco della viola I. Riabbassa i toni e riparte dal minore, ma per concludersi in maggiore, la quarta variazione che serve da epilogo, utilizzando la sola sezione principale come reminiscenza che riaffiora alla memoria per poi perdersi nel registro grave degli strumenti.

In una lettera a Brahms del dicembre 1890, Joachim definisce il terzo movimento, Un poco allegretto, come «intermezzo». In effetti, pur avendo la forma di Scherzo con Trio, il movimento è quanto mai singolare e brahmsiano nella sua ambigua cifra di crepuscolare vagheggiamento retrospettivo e sottile inquietudine, in cui si intrecciano passo di danza e inflessioni tzigane; tanto che una delle maggiori attrattive del movimento è data dalle frequenti perturbazioni melodiche e armoniche che lo attraversano, rivelando l'ansia che lo percorre al di sotto dell'eleganza di superficie. Nella tonalità di sol minore, il presunto Scherzo articolato in due parti, la seconda delle quali ripetuta e di maggiore animazione, è in realtà una specie di Ländler costruito sulla cosiddetta scala tzigana (sol - la - si bemolle - do diesis - re - mi bemolle - fa diesis). Di contro il Trio centrale, anch'esso articolato in due parti, la seconda delle quali contiene una ripresa variata della prima, è un valzer in maggiore. Valzer che, dopo la puntuale ricapitolazione dello Scherzo, ricompare nella coda per suggellare il movimento.

Ancora alla musica tzigana s'impronta il finale Vivace ma non troppo presto, in forma di sonata. Peculiare del primo tema, e poi di tutto il movimento, è l'oscillazione tra si minore e sol maggiore; il tema, avviato dalle viole e dal violoncello, ha i tratti di una csàrdàs, pulsante e fortemente ritmata. La transizione si svolge sul pedale di dominante di re maggiore, la tonalità del secondo tema, con andamento languoroso per il succedersi di brevi frasi e incisi melodici su accompagnamento di terzine e pizzicati. Ecco poi il secondo tema, che si distende in ondeggianti arpeggi di terzine e quindi si rafforza per concludere l'esposizione. Alla fine ricompaiono i motivi di csàrdàs, destinati infatti a dominare tutto lo sviluppo. Il ritorno della frase iniziale del primo tema dà inizio a una fitta e pressante elaborazione contrappuntistica, che prosegue incessante, sottoponendo le implicazioni dei motivi tematici a un intenso processo critico e facendosi via via più serrata sino al momento della ripresa. Come avviene spesso in Brahms (e nello stesso primo movimento), l'attacco della ripresa è abilmente sfumato nella continuità del discorso musicale: su un doppio pedale grave e acuto (violoncello, violino I) il primo tema incomincia a ridisegnarsi con discrezione alle parti interne. La ripresa ricalca quindi l'esposizione, con le dovute correzioni tonali, nella transizione e nel secondo tema ora in sol maggiore, la cui conclusione è ampliata in una stretta che ripropone i motivi di csàrdàs e culmina in un perentorio passaggio all'unisono. La conclusione si realizza nella coda vorticosa, in tempo animato e ancora basata sui motivi incalzanti del primo tema.

Cesare Fertonani

Guida all'ascolto 4 (nota 4)

Lungo l'intero arco della produzione di Brahms ricorre, com'è noto, un fenomeno abbastanza singolare: quello di comporre contemporaneamente, o comunque a distanza ravvicinata, coppie di opere analoghe per forma e destinazione. È un fenonomeno che si presenta con costanza quasi implacabile nel campo della musica sinfonica, l'esperienza sua più caparbiamente e faticosamente perseguita: due Serenate, quasi per saggiare il terreno; poi l'eccezione rilevante, ma estremamente logica, delle «Variazioni su tema di Haydn»; quindi le prime due Sinfonie, le due Ouvertures op. 80 e 81, la terza e la quarta Sinfonia. Non era un caso, né tanto meno una sorta di superstizione del numero: era il riflesso della costanza con cui Brahms, consapevole come pochi altri compositori degli scopi che si proponeva, e delle difficoltà che la stessa storia gli opponeva, proseguiva il proprio cammino alla ricerca di una sicurezza della forma che da Beethoven in poi pareva dissolta. Sarebbe riuscito a trovarla, e sarebbe stato l'ultimo. Ma oltre a chiudere in gloria un'esperienza terribile, avrebbe lasciato in eredità al secolo che stava per aprirsi i mezzi per proseguire: con la certezza di una continuità con la stessa tradizione beethoveniana, anche sotto il segno delle più ardite innovazioni.

La produzione «a coppie» segna anche il cammino percorso da Brahms in un genere in cui si moveva certo con assai maggiore disinvoltura, quello della musica da camera. Due Quartetti con pianoforte negli anni giovanili, per esempio; due Sestetti per archi, due Quartetti per archi addirittura sotto lo stesso numero d'opus, le Sonate per violino e pianoforte, quelle per violoncello e pianoforte, e così via. Verrebbe fatto di considerare sotto questa stessa luce la coppia dei due Quintetti per due violini, due viole e violoncello. In effetti, la fisionomia espressiva di questi due lavori può presentare un'indiscutibile analogia, tanto che non è solo la comunanza dell'organico strumentale ad associarli con piena coerenza in uno stesso disco, o in un medesimo programma di concerto. Non si può tuttavia sorvolare sul fatto che non solo la composizione del Quintetto op. 88 precede di otto anni quella dell'op. 111, ma che nel corso di questi stessi anni l'arte di Brahms era pervenuta ad una svolta di capitale importanza, di cui proprio il Quintetto op. 111 costituisce un momento assai significativo.

Il primo Quintetto nasce infatti fra la primavera e l'estate del 1882, più o meno contemporaneamente ad opere come il Trio con pianoforte op. 87 e il «Gesang der Parzen» op. 89; nel pieno, quindi, della maturità di Brahms. È un periodo di particolare «felicità», che proprio con questi tre lavori si interrompe bruscamente, quasi un segno della precoce vecchiaia spirituale del compositore. D'ora innanzi sarà di nuovo il tempo delle fatiche: Brahms sembra come apprestarsi a concludere la propria parabola, a dare una serie di «opere ultime». I tre anni successivi sono dedicati alla terza e alla quarta Sinfonia; con quest'ultima Brahms abbandonerà per sempre l'orchestra, conscio di aver realizzato, adattando strutturalmente le risorse del grande organico sinfonico ottocentesco al gigantesco edificio di trentadue variazioni che termina la Sinfonia, la più completa sintesi di storia e di progresso che fosse possibile applicare a tutte le dimensioni dell'atto compositivo: da quelle tecniche (strumentazione, tecnica della variazione melodica, armonica e ritmica, architettura formale) a quelle più spirituali, alla stessa intuizione poetica. Negli anni che seguono, la ricerca di una conclusione ideale anche nella musica da camera: nell'88, la Sonata in re minore per violino e pianoforte segna una tappa che potrebbe ancora una volta essere l'ultima. Brahms continua a coltivare solo il suo campo di esercitazioni più privato, non per nulla disimpegnato rispetto ai problemi della costruzione formale pura, quello della musica vocale e corale.

Non sorprende quindi che, com'è sicuramente testimoniato, Brahms, ormai vicino ai sessant'anni, abbia espresso l'intenzione di «ritirarsi» col Quintetto op. 111. Esso nacque nell'estate del 1890: già da alcuni mesi, però, Brahms aveva covato il progetto di scriverlo. A suggerirgli l'idea era stato, in gennaio, Joseph Joachim, il violinista celeberrimo che fu per tutta la vita di Brahms, a parte qualche raffreddamento passeggero, il più intimo dei suoi amici e il più ascoltato dei suoi consiglieri, secondo per importanza solo a Clara Schumann. Piacque a Brahms l'idea di dare un gemello al Quintetto op. 88: amava molto questa composizione, che pure in Clara Schumann e Joachim aveva destato a suo tempo qualche perplessità, a proposito del finale. Aveva anzi scritto, al suo editore: «posso dirvi di non aver mai ascoltato un'opera così bella, e che fosse mia»; ne aveva curato personalmente {come avrebbe poi fatto anche per l'op. 111) una riduzione per pianoforte a quattro mani.

Tanto più che l'organico stesso del quintetto per archi doveva attrarlo particolarmente. Non sarà certo sfuggito ad un uomo di tanto profondo senso storico come il quintetto d'archi, nella tradizione settecentesca, avesse trovato una sua collocazione nell'ambito di una pratica sostanzialmente diversa dalla destinazione colta del quartetto classico: più vicino, in certo senso, al Divertimento che alla Sonata. Così, anche senza ripetere il clima entusiastico che aveva accompagnato la composizione del Quintetto op. 88 (in calce ad ogni movimento aveva annotato «Primavera 1882», a sottolinearne il carattere di estrema felicità; e «Frühlings-quintett», Quintetto della primavera, sarebbe poi stato soprannominato il lavoro), poteva dare a quello che riteneva il proprio addio alla musica il significato di una serena conclusione, senza l'incubo di un confronto inevitabile con l'eredità beethoveniana.

Si sbagliava, comunque: anzi che alla fine della propria carriera, Brahms era alla vigilia di una stagione breve ma intensa, che lo avrebbe visto dettare con le ultitime raccolte pianistiche, con le composizioni cameristiche con clarinetto, il suo testamento vero, tanto più alto quanto più decantato da ogni cascame di esteriore psicologismo, pur nella presenza costante di una controllata inquietudine, da ogni fatica di ricerca pur nell'ambito di un disegno compositivo di modernissima capillarità. E proprio nella vicinanza, stilistica oltre che cronologica, alle ultime pagine di Brahms vanno cercati i motivi che rendono in fondo più importante il secondo Quintetto rispetto al primo. Il maggior rilievo dato nell'op. 111 alla prima viola di contro alla supremazia del timbro più brillante dei violini nell'op. 88 è di per sé un fatto significativo. E ancor più emblematico è il diverso rapporto con la forma: v'è tanta più libertà interna nei quattro movimenti classici del Quintetto in sol che non nella struttura un po' anomala di quello in fa, dove nella forma sonata si eludono le tradizionali tensioni fra tonica e dominante, dove ai due tempi centrali si sostituisce un unico movimento irregolare anche nell'itinerario tonale, dove il finale si rivolge alla scienza del contrappunto intesa, in parte, in un senso leggermente accademico. Lo sforzo titanico della quarta Sinfonia aveva finalmente consentito a Brahms di manipolare la forma con una disinvoltura forse mai raggiunta prima, usando gli schemi con piena agilità, senza più la minima traccia di costrizione.

Quintetto in sol maggiore, op. 111

Se introducendo all'ascolto il primo movimento del Quintetto op. 88 ci si era soffermati più sull'esposizione che sugli sviluppi, converrà fare il contrario per l'« Allegro non troppo ma con brio» che apre l'op. 111. In questi, infatti, il dominio dell'arte della variazione giunge, dopo oltre mezzo secolo di continuo approfondimento, a vertici fra i più alti e più fecondi di frutti poetici di tutta la più matura produzione di Brahms. L'irripetibile atmosfera poetica annunciata dall'esposizione, con un primo tema, stupendo, che vede il violoncello attraversare tutta la propria estensione con una inarrestata propulsione verso l'alto, un secondo tema tanto semplice quanto espressivo, e altre quattro idee secondarie, riceve nella sezione degli sviluppi un'estensione direttamente proporzionale alle trasformazioni che questo materiale vi incontra. Elementi di tutti i temi già presentati contribuiscono a creare una proliferazione di nuovi motivi: l'estrema padronanza dell'elaborazione melodica e ritmica concorre a determinare climi espressivi incredibilmente cangianti, fra i quali non è difficile ravvisare alcune premonizioni di quella capacità di raggiungere il profondo attraverso il semplice che sarà tipica delle ultime raccolte pianistiche. La conciliazione degli opposti viene qui realizzata con coerenza altrettanto assoluta che nel primo tempo dell'op. 88, ma con una libertà di escursioni fantastiche incomparabilmente più ampia.

L'«Adagio» è composto di un tema con tre variazioni e una coda. La testa dei tema consiste di due segmenti, il secondo dei quali è di per sé una variazione del primo. In ogni variazione la testa del tema ricompare inalterata, quasi a voler ribadire una continuità dopo lo sviluppo cui vengono sottoposti volta a volta i diversi elementi della prima sezione. Talmente sciolta è qui la tecnica della variazione, che sarebbe più giusto parlare di una serie di tre meditazioni su un medesimo tema: ancora una volta la trasformazione del materiale musicale è direttamente funzionale e conseguente all'approfondimento dei suggerimenti espressivi. Una rapida cadenza della prima viola introduce l'ultimo ritorno dell'inciso iniziale in una coda, che chiude l'«Adagio» nel medesimo tono pensoso che l'ha aperto e attraversato durante il suo conciso e intenso procedere.

Lo scherzo, nella sua perfezione formale, porta una nota di trasparenza e di eleganza nell'arco complessivo del Quintetto. Il tempo è «Allegretto»: un'indicazione dinamica che quasi sempre in Brahms ha una precisa connotazione espressiva: quella di farsi veicolo di una mobilità affettiva sottilissima, nel quadro di una serenità non imperturbata, venata di infinite sfumature, di gesti espressivi quanto mai rattenuti. L'equilibrio fra i diversi fattori espressivi è delicatissimo, e dosato con intuizione miracolosa nel succedersi della sezione iniziale e del Trio, alcuni elementi del quale compaiono, rielaborati per moto contrario nella coda.

La capacità di trasfigurare e fondere materiali sonori dalle origini più eterogenee è il dato più appariscente del finale, «Vivace ma non troppo presto». Trattato in forma di sonata, accosta ai due temi principali tre idee secondarie. Compare qui una nota apparentemente estranea all'indirizzo stilistico sinora riscontrabile nel Quintetto: un che di popolaresco, ravvisabile soprattutto nel carattere «ungherese» (vale a dire zingaresco), di certi episodi, in un secondo tema in terzine, dalla rapida cantabilità quasi villereccia. Ma tale è il destino che questi spunti, che parrebbero cacciati a forza in un'opera cosi coerente stilisticamente, subiscono nell'elaborazione costruttiva, che scompare qualunque sospetto di cedimento alla facilità. Quanta distanza separi questo finale da quello «alla zingarese» del Quartetto con pianoforte op. 25 non c'è bisogno di dire: ciò che nell'opera più giovanile era compiacimento, pur dignitosissimo, nel ricorrere ad un folclore abbastanza immaginario, o comunque già «alienato» da un consumo, è in quella della maturità il sapiente dosaggio di un elemento stilistico che può evitare una «seriosità» per cosi dire quartettistica in un finale che deve invece concludere un itinerario denso di impegni espressivi e di elaborazioni costruttive in un'atmosfera il più possibile equilibrata.

Daniele Spini


(1) Testo tratto dal programma di sala del Concerto dell'Accademia di Santa Cecilia,
Roma, Sala Accademica di via dei Greci, 20 aprile 1976
(2) Testo tratto dal programma di sala del Concerto dell'Accademia Filarmonica Romana,
Roma, Teatro Olimpico, 18 gennaio 1996
(3) Testo tratto dal libretto inserito nel CD allegato al n. 171 della rivista Amadeus
(4) Testo tratto dal programma di sala del Concerto del Maggio Musicale Fiorentino,
Firenze, Teatro Comunale, 15 marzo 1978

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Ultimo aggiornamento 31 dicembre 2019