Gesang der Parzen (Canto delle Parche) per coro e orchestra, op. 89


Musica: Johannes Brahms (1833-1897)
Testo: Wolfgang von Goethe (da Ifigenia in Tauride) Organico: coro misto, ottavino, 2 flauti, 2 oboi, 2 clarinetti, 2 fagotti controfagotto, 4 corni, 2 trombe, 3 tromboni, basso tuba, timpani, archi
Composizione: Vienna, 31 Luglio 1882
Prima esecuzione: Basilea, Gesangverein, 10 Dicembre 1882
Edizione: Simrock, Berlino, 1883
Dedica: duca Giorgio di Sassonia-Meiningen
Guida all'ascolto (nota 1)

Completato nel luglio 1882, il Canto delle Parche intona i versi che chiudono il quarto atto di Ifigenia in Tauride di Goethe, il monologo della protagonista turbata da un atavico ammonimento a rispettare l'infinita distanza fra gli dèi e gli umani. È possibile che uno stimolo alla composizione sia venuto dall'ammirazione di Brahms per l'attrice tragica Charlotte Welter, grande protagonista del dramma di Goethe; e in effetti una certa teatralità distingue il Canto delle Parche dagli altri brani corali, un gestire spettacolare già presente nell'impiego del coro a sei parti, tre maschili e tre femminili, spesso contrapposti con simmetriche rispondenze. Il metro scandito e ossessivo della ballata romantica adottato da Goethe è tradotto nella musica di Brahms in un'aura leggendaria e minacciosa, che sembra muovere da mitiche lontananze, incupite dal nero scintillamento dei timpani; l'ammonimento a non sentirsi simili agli dèi, specie se questi per qualche loro disegno o capriccio innalzano l'uomo al loro livello, è esemplato sul mito di Tantalo (progenitore di Ifigenia) precipitato dalle mense olimpiche all'oscurità del mondo sotterraneo. La battaglia fulminea fra Titani e Olimpici, l'ebbrezza delle mense celesti, la caduta di Tantalo e l'attesa del terribile giudizio dominano le prime quattro strofe della composizione; ma la durezza di questa primitiva barbarie, con intervento della peculiare sensibilità di Brahms, s'intenerisce nella quinta strofa, dove la solitudine dei colpevoli viene consolata dal tocco della musica più affettuosa; gesto che ad alcuni critici era parso un arbitrario travisamento della inesorabile concezione del destino classico; mentre è il segno tangibile di come Brahms rivivesse l'antico come eterno presente del sentimento umano.

Giorgio Pestelli

Testo

Es fürchte die Götter
Das Menschengeschlecht!
Sie halten die Herrschaft
In ewigen Händen
Und können sie brauchen,
Wie's ihnen gefällt.

Der fürchte sie doppelt,
Den je sie erheben!
Auf Klippen und Wolken
Sind Stühle bereitet
Um goldene Tische.

Erhebet ein Zwist sich,
So stürzen die Gäste,
Geschmäht und geschändet,
In nächtlicheTiefen
Und harren vergebens,
Im Finstern gebunden,
Gerechten Gerichtes.

Sie aber, sie bleiben
In ewigen Festen
An goldenen Tischen.
Sie schreiten vom Berge
Zu Bergen hinüber:
Aus Schlünden der Tiefe
Dampft ihnen der Atem
Erstickter Titanen,
Gleich Opfergerüchen,
Ein leichtes Gewölke.

Es wenden die Herrsche
Ihr segnendes Auge
Von ganzen Geschlechtern
Und meiden im Enkel
Die ehmals geliebten,
Still redenden Züge
Des Ahnherrn zu sehn.

So sangen die Parzen;
Es horcht der Verbannte
In nächtlichen Höhlen,
Der Alte, die Lieder,
Denkt Kinder und Enkel
Und schüttelt das Haupt!
Quanto timore degli dèi
ha il genere umano!
Gli dèi tengono il potere su tutto
nelle eterne mani loro
e possono impiegarlo
come loro piace.

Doppiamente dovrà temerli
chi fu un tempo da loro esaltato!
Sulle vette e sulle nubi
sono disposti in ordine gli scanni
attorno ai tavoli in oro.

Se s'innalza una voce discorde,
gli ospiti, oltraggiati e disonorati,
vengono precipitati
negli abissi notturni
e attendono, ma invano,
avvinti alle tenebre,
il giudizio dei giusti.

Gli dèi però continuano
ad assistere a feste eterne
ai loro tavoli d'oro.
E procedono
da una vetta all'altra dei monti sottostanti:
Dalle voragini degli abissi
giunge loro il respiro
dei Titani soffocati
e l'odore del sacrifìcio
come una lieve nuvola.

I Dominatori distolgono
il loro sguardo benedicente
da intere generazioni
ed evitano di riconoscere nel nipote
i tratti un tempo amati
e ancora parlanti
degli antenati.

Così cantarono le Parche;
l'ascolta l'esule
nelle caverne notturne,
l'ascolta il vegliardo, tale canto,
pensa ai suoi figli e ai suoi nipoti
e scrolla il capo.
(Johann Wolfgang von Goethe) (Traduzione: Luigi Bellingardi)

(1) Testo tratto dal programma di sala del Concerto dell'Accademia di Santa Cecilia,
Roma, Auditorium Parco della Musica, 27 Novembre 2010

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Ultimo aggiornamento 13 Maggio 2011