"Triplo concerto" in do maggiore per pianoforte, violino e violoncello, op. 56


Musica: Ludwig van Beethoven (1770 - 1827)
  1. Allegro
  2. Largo (la bemolle maggiore)
  3. Rondò alla Polacca
Organico: pianoforte, violino, violoncello, flauto, 2 oboi, 2 clarinetti, 2 fagotti, 2 corni, 2 trombe, timpani, archi
Composizione: 1803 - 1804
Prima esecuzione: Vienna, Großer Redoutensaal del Burgtheater, 4 Maggio 1808
Edizione: Bureau des Arts et d'Industrie, Vienna 1807
Dedica: Principe Lobkowitz
Guida all'ascolto 1 (nota 1)

Il Grande Concerto in do maggiore per pianoforte, violino e violoncello, più noto come Triplo Concerto, viene scritto nel 1803-1804, ma viene pubblicato tre anni dopo, nel 1807, come op. 56.

Il 1803 rappresenta un anno proficuo per Beethoven: dopo l'intenso lavoro all'opera Leonora, si dedica alla revisione della Sinfonia Eroica, completa il Triplo Concerto e compone le Sonate per pianoforte op. 53 e op. 54, oltre ad abbozzare larghe parti dell'op. 57, l'Appassionata.

Alcuni commentatori avanzano l'ipotesi che originariamente l'opera sia stata concepita per il solo violoncello, vista la preponderanza virtuosistica che questo strumento ha nei confronti degli altri due solisti. Va comunque osservato che la prima esecuzione assoluta dell'opera, avvenuta a Vienna nell'estate del 1808, vide al violoncello il famoso virtuoso Anton Kraft, al violino il modesto Carl August Seidler e al pianoforte l'arciduca Rodolfo, poco più che un dilettante. Il violoncellista era l'unico quindi che potesse reggere il peso di una scrittura tecnicamente impegnativa. Anche se presenta qualche timida analogia col contemporaneo Quarto Concerto per pianoforte e orchestra, il Triplo Concerto è una partitura povera di elaborazione tematica, incline all'effettismo e all'enfasi; una pagina d'occasione, nella quale il genio beethoveniano strizza l'occhio al genere brillante e salottiero.

L'esposizione orchestrale del primo movimento, Allegro, si apre con un tema annunciato in pianissimo da violoncelli e bassi e poi ripreso da tutta l'orchestra in un graduale crescendo. Una serie di impetuose scale ascendenti (bassi e violoncelli) conducono alla tonalità della dominante, nella quale prima gli archi e subito dopo i legni presentano il secondo tema. Una breve coda, basata sulla testa del secondo tema, conclude l'esposizione dell'orchestra. È ora la volta dei solisti, che in regolare successione espongono il primo tema: prima il violoncello nel suo registro acuto, seguito dal violino e dal pianoforte in ottava. Un nuovo tema, solenne e un poco retorico, esposto da tutta l'orchestra in fortissimo, precede un'ulteriore ripresa del primo tema, affidato al violoncello e subito elaborato e variato dai tre solisti in un episodio sereno e spensierato. Il secondo tema, esposto in la maggiore, viene ancora una volta affidato al violoncello e viene seguito da un nuovo episodio di sviluppo motivico condotto principalmente dai tre solisti. Ancora il terzo tema, ora in fa maggiore, a tutta orchestra in fortissimo, precede l'ultima apparizione del primo tema, ancora nella successione violoncello-violino-pianoforte.

Lo sviluppo è piuttosto convenzionale e non evidenzia quelle tensioni drammatiche tipiche di Beethoven. È formato essenzialmente da due episodi: il primo basato quasi esclusivamente sulla testa del primo tema e condotto su energici arpeggi ascendenti e discendenti dei tre strumenti solisti, il secondo costituito da un nuovo motivo cantabile, esposto dal violoncello e subito raddoppiato dal violino. La ripresa è regolare e prevede il ritorno di tutti i temi uditi nell'esposizione, più il nuovo motivo cantabile apparso per la prima volta nello sviluppo; un'enfatica coda conclude poi il movimento.

Il secondo movimento, Largo, è una pagina delicata, molto lirica, nella quale le straordinarie capacità cantabili del violoncello emergono in tutta la loro potenza. Poche battute orchestrali (Tutti), poi la parola passa al violoncello solista, che espone il tema principale utilizzando il suo registro acuto; una breve transizione condotta dai corni e dal pianoforte conduce alla ripresa del tema principale. La melodia è ora affidata a violoncello e violino solisti, mentre pianoforte e corno sostengono armonicamente. Il sereno discorso musicale precedente si spezza poi bruscamente: tonalità minore, sospensione armonica, lunghi pedali preparano l'arrivo dell'ultimo movimento, Rondò alla Polacca, pagina leggera e spensierata, una delle poche concessioni beethoveniane alla moda dell'epoca. La sua struttura è quella tipica del rondò, con un refrain (tema principale) che si alterna a diversi couplet (episodi).

Il tema principale, esposto dal violoncello e subito ripreso dal violino, è un motivo semplice e accattivante, che subito circola in orchestra con facilità e scorrevolezza, spesso variato e abbellito. Il primo couplet, basato su scorrevoli scalette ascendenti, è affidato ai tre solisti e si presenta come ideale continuazione del tema principale; il secondo couplet, invece, ha il tipico piglio ritmico della Polacca e ha in comune col terzo couplet la tonalità minore. Un veloce e frenetico Allegro, sorta di «moto perpetuo» condotto dai tre solisti sulle delicate punteggiature degli archi, precede il finale, nel quale riappare per l'ultima volta il tema principale.

Alessandro De Bei
Guida all'ascolto 2 (nota 2)

Anche se questo pezzo non compare sovente nei programmi dei concerti, esso merita di essere conosciuto come il primo concerto concepito per questo complesso nell'ambito del classicismo. Pubblicato nel 1807 col titolo Grande concerto concertante, richiede tre solisti di livello eccezionale e si rifà in parte allo spirito della sinfonia concertante; inconfondibilmente beethoveniano è tuttavia il secondo tempo in la bemolle maggiore ("Largo"), mentre il "Rondò alla polacca" finale è non solo un pezzo di bravura ma anche una pagina ricca di idee squisite e di sonorità suadenti. Il trattamento dei solisti sa essere ora brillante ora contenuto, in ordine a una energia espressiva che non merita davvero una considerazione inferiore a quella di altre opere del grande compositore tedesco.

Guida all'ascolto 3 (nota 3)

Noto comunemente come Triplo Concerto, fu composto durante le estati 1803 e 1804, molto probabilmente per l'arciduca Rodolfo d'Austria (allievo di Beethoven per il pianoforte), nella cui residenza dovettero avvenire le prime esecuzioni in forma privata; in concerto pubblico l'op. 56 venne presentata all'Augarten di Vienna solo nel 1808. Composizione unica nella produzione concertistica di Beethoven, il Triplo Concerto è un po' tenuto in ombra dalla critica come lavoro esteriore e alla moda; in realtà Beethoven, che lo chiamava "Sinfonia concertante", volle rifarsi al sonatismo e concertismo parigino, più brillante ed estroverso di quello viennese creato da Haydn e Mozart. È nell'Allegro che questo aspetto si fa più evidente, per la profusione delle idee introdotte dai solisti (la parte del pianoforte, forse perché pensata per l'arciduca, è meno impegnativa sul piano tecnico); dopo il Largo, poche misure di straordinaria concentrazione, il Rondò alla polacca riporta il discorso sul terreno della più brillante socievolezza.

Guida all'ascolto 4 (nota 4)

Sotto due differenti aspetti il Triplo Concerto di Ludwig van Beethoven è una partitura volta al passato: nell'essere una composizione d'occasione e nell'essere concepita per più solisti. Riguardo al primo punto le stesse circostanze della nascita sono illuminanti. Beethoven attese alla stesura del brano nel biennio 1803-1804, vale a dire nel periodo di gestazione dell' Eroica e del Fidelio. Sebbene venisse dedicato - nella prima edizione a stampa, del !807 - al principe Lobkowitz, mecenate del compositore, il concerto fu composto, secondo Schindler, per l'arciduca Rodolfo d'Austria, a cui Beethoven aveva da breve tempo iniziato ad impartire lezioni. La prima esecuzione pubblica avvenne soltanto nell'estate del 1808, all'Augarten, ma già nel 1805 si era tenuta una esecuzione privata, con lo stesso arciduca al pianoforte e due validi strumentisti appartenenti alla sua corte (il violinista Cari August Seidler e il violoncellista Anton Kraft). Secondo Thayer-Riemann Beethoven riservò al suo nobile allievo l'esclusiva dell'esecuzione per il periodo di un anno.

Il Triplo, insomma, è una tipica composizione di circostanza, scritta "su misura" per le necessità della committenza; caratteristica che si riflette, secondo la prassi dell'epoca, in un contenuto concettualmente disimpegnato e nelle modeste ambizioni della scrittura solistica. E infatti la parte pianistica, piuttosto semplice ma brillante, tende a non mettere in ombra le più limitate capacità dell'esecutore rispetto agli altri due solisti, impegnati - specie il violoncello - in un registro piuttosto acuto. Proprio il carattere intrattenitivo del brano, ascrivibile a un'estetica ancora settecentesca, ha lasciato delusi i cultori del Beethoven titanico e introverso, restii ad apprezzare, del compositore, anche l'aspetto più squisitamente artigianale. D'altra parte il Triplo, come si è detto, è opera passatista anche sotto un altro profilo: la destinazione polistrumentale, legata alla antica prassi del Concerto grosso e poi della Sinfonia concertante, e già in marcato declino all'inizio del nuovo secolo, per la prepotente affermazione del Concerto con solista unico, improntato a una forte contrapposizione individuale fra solista e orchestra.

Il contenuto musicale del Concerto op. 56, invece, è ispirato a principi diametralmente opposti. Fin dall'Allegro iniziale manca infatti una pronunciata intenzione dialettica, sia sotto il profilo tematico (i due temi principali non sono contrastanti, ma piuttosto affini sotto il profilo ritmico e melodico) che sotto quello strumentale (i solisti si scambiano il materiale melodico con raffinati e compiaciuti intrecci; mentre modesto, qui come altrove, è il contributo orchestrale); la comparsa di numerosi temi secondari contribuisce a stemperare la dialettica della forma sonata. Il Largo, secondo la tendenza tipica dell'autore in quegli anni, è di estrema brevità, appena una parentesi contemplativa - con gli strumenti ad arco sostenuti dagli arpeggi del pianoforte - fra i massicci blocchi dei tempi estremi. Senza soluzione di continuità succede il Finale, che, nella tradizione della musica d'occasione, mostra una nota di "colore" folklorico; si tratta infatti di un Rondò alla polacca, con un refrain incisivo e elegante che si alterna con episodi diversificati, e che subito prima della Coda trasforma il proprio metro, umoristicamente, da 3/4 a 2/4.

Arrigo Quattrocchi


(1) Testo tratto dal libretto allegato al CD AM 166 allegato alla rivista Amadeus
(2) Testo tratto dalla Guida all'ascolto della musica sinfonica di Giacomo Manzoni, Feltrinelli editore, Milano 1976
(3) Testo tratto dal Repertorio di Musica Sinfonica a cura di Pietro Santi, Giunti Gruppo Editoriale, Firenze, 2001
(4) Testo tratto dal programma di sala del Concerto dell'Accademia di Santa Cecilia,
Roma, Auditorio di via della Conciliazione, 7 giugno 1992

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Ultimo aggiornamento 4 aprile 2014