Trio per archi n. 3 in sol maggiore, op. 9 n. 1


Musica: Ludwig van Beethoven (1770 - 1827)
  1. Adagio. Allegro con brio (mi minore)
  2. Adagio, ma non tanto e cantabile (mi maggiore)
  3. Scherzo. Allegro
  4. Presto
Organico: violino, viola, violoncello
Composizione: 1797 - 1798
Edizione: Artaria, Vienna 1798
Dedica: Conte Browne
Guida all'ascolto 1 (nota 1)

L'op. 9 comprende tre Trii composti tra il 1796 ed il 1798: si tratta delle opere più interessanti del primo periodo del compositore e la loro scarsa notorietà va imputata più al nostro sistema di diffusione musicale che predilige le esibizioni solistiche o quelle di generi più riconosciuti come il quartetto. Se è vero che non ci sono precedenti particolarmente illustri, non si possono dimenticare, da un punto di vista quantitativo, i 42 Trii di Boccherini, i 30 di Giardini, quelli innumerevoli di Cambini fino alla non modesta produzione di Bruni e Viotti solo per rimanere in ambito italiano. Del resto basterebbe ricordare il Divertimento K. 563 per violino, viola e violoncello di Mozart (1788) per capire quali suggestioni questa formazione possa aver avuto su Beethoven. Se poi il compositore scelse forme diverse nel campo della musica da camera fu perché la storia del trio d'archi prese la direzione del divertimento o della cassazione alla quale Beethoven era estraneo. Da un punto di vista formale però si tratta di composizioni già pienamente in linea con le riforme messe in atto nel campo della forma-sonata.

L'introduzione lenta (Adagio) che apre il Trio n. 1 (un richiamo evidente all'inizio della Sonata op. 5 per violoncello e pianoforte) comincia con un grande unisono dal forte carattere affermativo, così esemplare del linguaggio del compositore da renderlo immediatamente familiare alla "memoria beethoveniana" del pubblico. Segue l'Allegro con brio caratterizzato da una molteplicità di temi e tonalità che già puntano verso quell'idea di dilatamento della forma-sonata che sarà tipico della successiva produzione di Beethoven. Forse nel gioco a sorpresa delle tonalità si può vedere l'influenza di Haydn, e così nel punto in cui ci saremmo aspettati re maggiore troviamo re minore, sol minore al posto di sol maggiore e così via, in un alternarsi prodigioso se si pensa che in quegli anni circolava ancora lo stile galante. Qua e là inoltre emergono imprevisti spunti solistici in un tessuto per la maggior parte "concertante", ossia di elegante alternanza degli strumenti nell'esposizione dei materiali melodici e ritmici. Ed è proprio sul ritmo che Beethoven punta l'attenzione giustapponendo zone dal forte senso propulsivo a zone più statiche corrispondenti (forse non casualmente) alle tonalità minori, un modo in più per sottolinearne la valenza drammatica (in un contesto teatrale sarebbe una perfetta individuazione di un personaggio). Dopo una serie di passaggi modulanti, Beethoven riserva proprio alla coda (di solito il luogo di consolidamento della tonalità d'impianto) la più ardita delle modulazioni; riprendendo un frammento dello sviluppo si ha l'impressione, per molte battute, che stia per riaprirsi tutto il discorso. La conclusione arriva però inesorabile facendo apparire questo episodio, ancora una volta, come un gioco del compositore con la forma e le aspettative del pubblico.

Per il secondo tempo (Adagio, ma non tanto, e cantabile) il compositore ha scelto una scrittura basata sulle terzine nel tempo 3/4 che lascia l'ascoltatore nell'incertezza di un movimento in 9/8. L'ambivalenza metrica dà un'illusione di cantabilità poi contraddetta da passi quasi in "recitativo" del violino e dalle sestine che increspano bruscamente il tessuto ritmico. Inoltre, in aperto contrasto con il carattere cullante del "possibile" 9/8, troviamo originali modulazioni che creano forti tensioni e momenti inattesi.

Lo Scherzo comprendeva inizialmente due trii ma Beethoven eliminò il secondo prima della pubblicazione, forse per il troppo spazio concesso al violoncello, in contrasto con il carattere concertante dell'intero Trio. Anche nel trio che è rimasto il violoncello si mette in evidenza ma in generale si nota l'attenzione del compositore più per il rispetto dello schema tradizionale del movimento (Scherzo e trio) che per una reale scelta musicale. L'Archibudelli, nei suoi concerti, esegue ambedue i trii.

Per il Presto conclusivo Beethoven ha inventato un'incredibile macchina musicale a due velocità che sprigiona un'energia straordinaria; non solo per quella sorta di moto perpetuo che apre il movimento e che riesplode qua e là sempre imprevisto, ma soprattutto (ancora una volta) per un originalissimo percorso tonale che considerato a freddo, sulla partitura, sembra quasi "sconveniente" per un compositore ancora giovane. Beethoven sapeva però che questi giochi armonici avrebbero avuto un effetto coinvolgente sull'ascoltatore proprio in virtù della loro dichiarata eccentricità rispetto alle convenzioni. A render più affascinante la costruzione di questo movimento è l'inserimento, nel vortice del moto perpetuo, di tre diversi temi, ognuno con caratteristiche precipue, il cui scopo è senza dubbio quello di scioccare l'ascoltatore con un'enorme quantità di informazioni tematiche lasciandolo "colla testa in un'orrida fucina". E non paia irriverente la citazione rossiniana per un compositore come Beethoven (invece di qualche poeta dello Sturm und Drang), perché sicuramente è proprio il principio del gioco musicale così caro ad Haydn e a Rossini ad aver guidato felicemente la mano del compositore in questa straordinaria congerie di temi ed armonie.

Fabrizio Scipioni

Guida all'ascolto 2 (nota 2)

Il Trio di Beethoven è il primo di un gruppo di tre, pubblicati nel 1798 con il numero d'opera 9 ma scritti nel 1797, anno in cui erano stati composti, tra l'altro, il primo Concerto per pianoforte e i due Quintetti op. 4 e op. 16. Qualche anno prima Beethoven aveva già sperimentato il Trio d'archi con l'op. 3. Questo e il gruppo suddetto costituiscono le uniche opere del genere del catalogo beethoveniano.

L'opera 9 è dedicata al «primo mecenate della sua musa», conte Browne, e designata dall'autore stesso, senza perifrasi, la migliore delle sue opere. Generalmente gli studiosi, tra essi il Prod'homme, riserbano soprattutto al terzo di questi Trii la piena qualifica di «beethoveniano», mentre a proposito del primo si parla, spesso di impronta mozartiana, salvo per il finale che, anche per il fatto di non essere scritto nella forma di rondò, viene considerato il primo Presto di autentico stampo beethoveniano. Senza volerci addentrare nella spinosa questione del primo stile dell'autore della Nona e separare quindi quanto di ereditato e quanto di originale, di proprio, contenga il Trio n. 1, è comunque istruttivo puntare l'attenzione proprio sugli elementi che fanno, di quest'opera una composizione già di gran lunga affrancata dalla fase delle oscillazioni o delle eredità stilistiche. Basterebbe, a confortare questa asserzione, l'Adagio dell'Introduzione, con quella sua atmosfera sospensiva, misteriosa, che inaugura una maniera tutta personale di trasferire le battute d'attesa di un primo Tempo entro un clima virtualmente carico di sensi drammatici.

Nel secondo tempo (Adagio) la melodia beethoveniana canta alta e sicura nel proprio cielo, innalzando non solo il violino ma anche gli altri due strumenti in una stretta fraternità «sinfonica» assai raramente percepibile anche in capolavori di poco anteriori, tipo il Divertimento mozartiano K. 563. Ed è interessante seguire la varietà di procedimenti con cui il tema melodico in terzine, annunziato dal violino, dà luogo successivamente a un fondamento ritmico persistente o quasi, conferendo all'Adagio, oltre che una straordinaria unità, quell'andamento a pulsazione isocrona, ch'è lo stampo sui cui saranno forgiati alcuni dei più superbi Adagi strumentali e sinfonici degli anni futuri.

Il badinage, come lo chiama il Prod'homme, dello Scherzo è colorito nella parte centrale da un inusitato profilo «in discesa» di accordi di terza e sesta. Infine, nel Presto finale, c'è vigoria ritmica, c'è pienezza sonora (a occhi chiusi non giureremmo di assistere a un trio piuttosto che a un quartetto d'archi), ma un'uscita tutta cantabile di viola e di violino in unisono e un successivo episodio, sfumato e meditativo, «fermano» in una luce improvvisa di pensiero la scorrevole vicenda. E anche questo va annoverato tra i modi più tipici con cui Beethoven già fin d'ora piega la materia sonora all'inesprimibile romantico.

Giorgio Graziosi


(1) Testo tratto dal programma di sala del Concerto dell'Accademia di Santa Cecilia,
Roma, Auditorio di via della Conciliazione, 25 novembre 1994
(2) Testo tratto dal programma di sala del Concerto dell'Accademia Filarmonica Romana,
Roma, Teatro Eliseo, 9 febbraio 1959

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Ultimo aggiornamento 7 giugno 2016