Sonata per violoncello e pianoforte n. 4 in do maggiore, op. 102 n. 1


Musica: Ludwig van Beethoven (1770 - 1827)
  1. Andante
  2. Allegro vivace
  3. Adagio (sol maggiore)
  4. Allegro vivace
Organico: violoncello, pianoforte
Composizione: Heiligenstadt (Vienna), 15 Agosto 1815
Edizione: Simrock, Bonn 1817
Dedica: Contessa Marie Erdödy
Introduzione comune alle due sonate op. 102 (nota 1)

Nell'estate del 1815, Beethoven ritrovò nel "suo" genere, nella formazione pianoforte-violoncello, lo stimolo per una svolta decisiva della sua evoluzione di creatore. Con le Sonate op. 102 aveva appunto inizio quella fase che Wilhelm von Lenz chiamò "terzo stile"; concetto esegetico-critico che fu subito contestato, ma che è rimasto tenacemente vagante nell'aria e che non è destinato a dissolversi perché, per quanto ambiguo, ha un suo reale fondamento.

Il lettore osserverà forse che le caratteristiche formali, ed anche ideologiche delle Sonate op. 102 sono presenti nella Sonata op. 101 per pianoforte. Il numero d'opera non indica però, in questo caso, la esatta cronologia. Le Sonate op. 102, come abbiamo detto, furono composte nel 1815, la Sonata op. 101 nel 1816. Il numero d'opera veniva nell'Ottocento assegnato dal compositore al momento della pubblicazione, e perciò la Sonata per pianoforte, che uscì a Vienna nel febbraio del 1817, ebbe il n. 101, mentre il 102 fu assegnato alle Sonate per pianoforte e violoncello, che uscirono a Bonn in marzo.

L'edizione di Bonn non aveva dedica. La successiva edizione, uscita a Vienna nel gennaio del 1819, fu dedicata "A Madame la Comtesse Marie Erdödy née Comtesse Niszky". Quasi coetanea di Beethoven (era nata ad Arald in Ungheria nel 1777) e sposatasi a Vienna nel 1796, quando Beethoven vi si stava appena affermando come musicista di punta, la contessa Erdödy era una di quelle grandi dame dell'aristocrazia imperiale che avevano visto con simpatia l'ascesa del giovanotto di Bonn, pianista arruffato e originale e ancor più originale, e magari arruffato per i gusti del tempo, compositore. L'amicizia tra Beethoven e la Erdödy, che fu profonda da ambo le parti, è testimoniata dalla dedica delle Sonate op. 102 e, prima, dei Trii op. 70, e fu tanto più profonda, da parte di Beethoven, perché la donna era di malferma salute e "malmaritata". Poco più d'un anno dopo che erano uscite a Vienna le Sonate op. 102, la contessa Erdödy, per oscure e drammatiche cabale familiari (venne accusata di aver lasciato morire il figlio), fu infatti esiliata dagli stati imperiali e lasciò Vienna per sempre.

Le Sonate op. 102, dicevamo, inaugurano il "terzo stile" di Beethoven. Il problema che Beethoven si pone verso il 1815, fors'anche in seguito alle circostanze politiche del momento, perché il 1815 è l'anno del Congresso di Vienna che seppellisce le idealità rivoluzionarie, è di introdurre nello stile classico il principio barocco della polifonia, della compresenza di parti indipendenti. Detto così, cioè in soldoni, il problema sembra semplicistico, perché non si vedrebbe come Beethoven avrebbe potuto prima scrivere, ad esempio, il grande finale fugato del Quartetto op. 59 n. 3, se non avesse avuto la "mano" pronta per la polifonia imitativa. Ma in verità si tratta dello sviluppo di un interesse per la polifonia barocca che Beethoven aveva manifestato già da tempo, e di una utilizzazione, di una riconversione in senso creativo della tecnica contrappuntistica che faceva parte della preparazione accademica di ogni compositore.

In questo senso la Sonata op. 102 n. 2, soprattutto, rappresenta un manifesto estetico, sia perché termina con un fugato a quattro parti, tecnicamente ben diverso dalla fuga del Quartetto op. 59 n. 3, sia perché estende a tutta la composizione il principio di costruzione polifonica del discorso. Nello stesso tempo il tematismo classico si fa essenziale, asciutto, possiamo dire radicale: il gesto sonoro, la costruzione di un discorso fatto di brevi immagini sviluppate in molti modi, la - il lettore ci perdoni l'espressione - retorica propagandistica del primo decennio del secolo si converte in una personale meditazione, in una riflessione rivolta verso l'io, non verso il mondo.

Non più un problema di generi, di continuità della storia, ma di rinnovamento profetico della realtà attraverso una sintesi storica vertiginosa. La fuga barocca viene così ricondotta all'essenziale principio della polifonia, il tematismo classico viene ricondotto all'essenziale principio della contrapposizione: dal loro rapporto nascono le nuove forme.

Guida all'ascolto 1

Pare che Beethoven avesse l'intenzione di intitolare Sonata libera l'op. 102 n. 1. Sarebbe stata, in fondo, una riedizione del termine Sonata quasi una fantasia inventato per l'op. 27 per pianoforte. Ma, per quanto audaci fossero formalmente le Sonate op. 27, specie la prima, la Sonata op. 102 n. 1 le supera. La grande novità formale di questa composizione consiste nella struttura del primo tempo, che a tutta prima sembra essere una riproposta dello schema dell'allegro di sonata con ampia introduzione in movimento lento, utilizzato nelle due Sonate op. 5, mentre invece Beethoven modifica le proporzioni e, dopo l'introduzione, crea un tempo mosso stringatissimo; per di più, l'introduzione (Andante) è in do maggiore, il tempo è in la minore.

L'Andante introduttivo è tutto costruito polifonicamente, sebbene in modo molto libero: ad esempio, la frase iniziale del violoncello è ripresa dalla mano sinistra del pianista, ed è riconoscibile, ma alcuni suoni vengono cambiati. Beethoven non lascia mai cadere il tono un po' svagato ed improvvisatorio, quella ricerca delle idee che conviene ad un'introduzione, ma costruisce in realtà con un capillare controllo delle cellule tematiche. Solo alla fine la densità concettuale si attenua e il discorso si distende sulla dominante (grande arpeggio del pianoforte) e quindi sulla tonica (accordo arpeggiato ripetuto al basso del pianoforte).

La sorpresa, all'attacco del Vivace, è grandissima, proprio perché Beethoven, alla fine dell'introduzione, ha tanto nettamente cadenzato in do maggiore, senza minimamente predisporre il passaggio al la minore. E la sorpresa è ancora più grande quando ci si accorge che lo schema dell'allegro di Sonata si svolge senza che esista un vero e proprio secondo tema: Beethoven usa un solo gruppo tematico formato da due nuclei contrastanti, il secondo dei quali può essere considerato sì secondo tema, ma che come tale non appare nella economia formale della composizione. Insomma, se si considera il secondo nucleo come facente parte di un gruppo tematico, si cerca poi invano il secondo tema; se lo si considera come secondo tema si ha l'impressione di un primo tema eccessivamente... laconico.

In verità, Beethoven costruisce l'esposizione in modo del tutto atipico, sconcertando l'ascoltatore abituato a muoversi entro schemi riconoscibili. L'esposizione è breve: 48 battute. Si prenda come termine di paragone l'esposizione della Sonata "secondo stile" op. 69, 94 battute, e della Sonata "primo stile" op. 5 n. 1, 126 battute, e si avrà un'idea del grado di concisione, dello stile attico anziché ciceroniano che Beethoven raggiunge nella Sonata op. 102 n. 1 senza che venga diminuita la densità degli argomenti in discorso.

Lo sviluppo è di 22 battute, di 47 battute è la riesposizione, di 10 la coda. Le proporzioni, come si vede, sono quelle solite in Beethoven, ma l'architettura non tende più alla grandiosità, alla imponenza, alla monumentalità, e altrettanto prosciugato è il discorso: si osservino la linearità e la nettezza dello sviluppo (che è generalmente, invece, la parte più tumultuosa di un primo tempo di Sonata) e la tensione espressiva che, nella coda, viene suscitata dall'elementare battito ritmico nel registro medio del pianoforte.

Secondo e terzo tempo sono collegati, come introduzione e primo tempo, ma questa volta senza più sorprese nella struttura tonale. La sorpresa è che l'Adagio, tutto costruito su fregi ornamentali che diventano espressivi, che diventano struttura portante, sembra concludersi con un recitativo a due, mentre invece, a questo punto, Beethoven riprende l'introduzione del primo tempo, in modo da stabilire una progressione di velocità fino al finale vero e proprio: Adagio-Andante-Allegro vivace.

Nella Sonata op. 102 n. 2 Beethoven terminerà con un ampio fugato. Nella Sonata n. 1 questa soluzione non viene ancora scelta, ma viene sfiorata e come presentita. Il finale è in realtà un allegro bitematico e tripartito in cui, haydnianamente, il primo tema gioca un ruolo prevalente ed il secondo è episodico. Lo sviluppo è tutto basato sul primo tema, con continui ammiccamenti allo stile imitato barocco; lunghissima la coda, con un grande pedale doppio del violoncello (il "pedale" è un artificio tipico della fuga). Il contrappunto ed il ricorso a formule contrappuntistiche di scuola avviene nel finale non senza una certa rigidezza, che lascia intravvedere un'intenzione ancora parzialmente ironica. Il colore tonale, spesso cangiante e imprevedibile (si vedano l'inizio dello sviluppo e l'inizio della coda) è però tale da illuminare in modo inatteso i vetusti armamentari di quello stile che più tardi si sarebbe Chiamato in Germania "da berretto da notte", e la stessa costruzione del primo tema, con gli interventi in contrattempo del violoncello sulle scalette del pianoforte, colora in modo irresistibilmente umoristico l'ironia. Un po' di ironia c'è ancora, in verità, un po' di quelle intenzioni, scherzose verso il buon tempo antico che nel Minuetto del Quartetto op. 59 n. 3 si notavano ad abundantiam; nella successiva Sonata Beethoven dimostrerà che il buon tempo antico lo affascina nel profondo.

Piero Rattalino

Guida all'ascolto 2 (nota 2)

Otto anni separano l'op. 69 dalle due Sonate op. 102, gli ultimi contributi beethoveniani alla letteratura violoncellistica. Nessun dubbio che destinatario dei due lavori fosse Joseph Lincke, il violoncellista che, in quanto membro del Quartetto Razumovskij prima e del Quartetto Schuppanzigh poi, contribuì in modo determinante alla esecuzione e diffusione di larga parte della produzione quartettistica del maestro. Lincke prestava servizio presso la contessa Anna Marie Erdödy - confidente del compositore e dedicataria non a caso dell'op. 102 - presso la cui residenza estiva di Jedlersee Beethoven si recò verosimilmente a far visita a più riprese nell'estate 1815. Nacquero così le due Sonate (la prima al termine di luglio, la seconda all'inizio di agosto), in un clima di scherzosa amicizia testimoniato dai motteggi epistolari del compositore. E tuttavia non opere "leggere" ma di estrema densità concettuale sono quelle dell'op. 102.

La destinazione a Lincke deve aver stimolato Beethoven, più che sotto il profilo delle innovazioni di tecnica strumentale, sotto il profilo della complessità compositiva. Le due Sonate op. 102, infatti, contengono una serie di caratteristiche "sperimentali" - la nudità delle linee melodiche, l'interesse per il contrappunto, il recitativo strumentale, i trilli coloristici e non ornamentali - che sono ancora sostanzialmente assenti dalla precedente produzione di Beethoven, e si ripresenteranno invece con costanza negli ultimi anni; in definitiva - con qualche schematismo - si può dire che le due ultime Sonate per violoncello inaugurino il cosiddetto «terzo periodo» beethoveniano.

La prima Sonata si articola in due soli movimenti, con due tempi veloci preceduti ciascuno da una introduzione lenta. Nuove prospettive sono già quelle dell'Andante che funge da introduzione al primo tempo, con un intreccio polifonico denso, nitido e purissimo; nettamente contrastante appare il seguente Allegro vivace in forma sonata, dove l'aggressività fonica dei ritmi puntati e la serrata dialettica strumentale si sommano a una improvvisa mutevolezza di atteggiamenti, quale si ritrova frequentemente nell'ultimo Beethoven. Il secondo tempo si apre con un breve Adagio, un recitativo strumentale che sfocia, con un'arditezza "ciclica", nel ritorno di frammenti melodici dell'introduzione al primo tempo. Segue, senza soluzione di continuità, un altro Allegro vivace in forma sonata di carattere però brillante e giocoso. Il breve tema iniziale diviene protagonista di inseguimenti e trasformazioni nella sezione dello sviluppo e nella mastodontica coda che chiude la composizione.

Arrigo Quattrocchi

Guida all'ascolto 3 (nota 3)

Composte fra il luglio e l'agosto del 1815, le due Sonate op. 102, ultimo capitolo del rapporto di Beethoven con l'incontro di violoncello e pianoforte, vennero pubblicate a Bonn dall'editore Simrock nel '17, e recano la dedica alla contessa Anna-Marie von Erdödy, amica e confidente di lunga data (e per qualche tempo, pare, anche qualcosa di più) di Beethoven. Appunto nella villa della Erdödy a Jedlesee, subito fuori Vienna, era ospite in quei mesi Joseph Linke, violoncellista di grandi qualità e senz'altro di rara intelligenza, per essere membro del celebre quartetto capeggiato dal violinista Ignaz Schuppanzigh che primo si cimentò con l'enigmatica e rivoluzionaria avventura degli ultimi Quartetti beethoveniani: e proprio per Linke queste Sonate furono scritte. Data di composizione, numero d'opus, circostanze esterne di un sodalizio umano e artistico: tutto annuncia già sulla carta queste due Sonate come prodotto del tardo stile, o quanto meno della sua immediata vigilia. Infatti gli anni 1814-16 segnano per Beethoven una relativa stasi creativa: conclusa nel maggio del '14, con l'ultima revisione del Fidelio, l'esperienza che oggi identifichiamo con la sua «seconda maniera», il maestro resta quasi del tutto inoperoso; la sua stessa celebrità, dopo l'effimera impennata dei giorni del Congresso di Vienna (che sul piano compositivo peraltro aveva dato soltanto frutti di second'ordine), sembra attenuarsi; il musicista tende a rinchiudersi in se stesso - è un momento poco felice anche dal punto di vista dell'esistenza privata - quasi la vena onde è scaturita negli anni precedenti una cosi splendida e copiosa produzione si sia inaridita. In realtà il vulcano non è spento, e il risveglio avverrà con un'eruzione di non lieve entità, ancora una volta sotto il segno del pianoforte: la Sonata op. 101, subito seguita dalla ciclopica Hammerklavier, inaugurerà nel 1816 la stagione più alta e ardua dell'arte di Beethoven, quella delle più difficili e trascendenti avventure della forma: resa tanto più solida quanto più eterodossa rispetto agli schemi accettati, nutrita di un'espressione sublimata fino a raggiungere l'assoluta astrazione dalla contingenza del sentimento, appoggiandosi all'estremizzato radicalismo contrappuntistico di un nuovo concetto della variazione e dell'elaborazione tematica.

Solo frutto rilevante di questi anni di stasi sono appunto le due Sonate dell'op. 102: senza dubbio le più importanti delle cinque per violoncello e pianoforte, e probabilmente da contare fra le più alte di tutta la letteratura per questa formazione. E proprio il loro eccezionale valore artistico, accanto a considerazioni di carattere tecnico e stilistico, autorizza a scorgere in esse, più che non la preparazione dell'avvento del tardo stile beethoveniano, il suo vero e proprio atto di nascita; con tutto che in qualche misura qui si resti ancora indietro rispetto ai cataclismi formali ed espressivi delle Sonate per pianoforte subito successive o alle avveniristiche proiezioni dei Quartetti del 1825-26. Queste stesse considerazioni qualitative e storiche comunque sembrano ancora una volta suggerire, analogamente a quanto si era verificato per le Sonate op. 5, che l'ordine della loro composizione sia lo stesso in cui esse sono accostate nell'edizione a stampa. E che cioè la Sonata n. 1 in do maggiore sia nata per prima, toccando all'altra, quella in re maggiore, di spingersi più innanzi sotto questo profilo evoluzionistico, e di raggiungere risultati addirittura maggiori; un po' come sarebbe avvenuto qualche decennio dopo con tante esperienze compositive di Johannes Brahms, pertinace creatore di opere 'a coppie'. A ogni buon conto, la Sonata n. 1 in do maggiore si presenta già come un'opera lontanissima non solo dai giovanili esordi dell'op. 5, ma dallo stesso splendido meriggio dell'op. 69. Ancora una volta articolata in due soli movimenti, due tempi veloci preceduti da introduzioni lente, dimostra con questo schema, anomalo rispetto alla tradizione sonatistica classica, non più la scelta di una «forma minore», come nell'op. 5, o un intento blandamente sovversivo come nell'op. 69 (in soli tre tempi), bensì la conquista di una superiore concezione costruttiva, tipica appunto di quasi tutte le opere dell'ultimo periodo di Beethoven. L'avvio, con l'astratta purezza dell'Andante introduttivo, è già affermazione assoluta di valori altissimi: lo stesso rapporto fra i due strumenti, risolti da tempo i problemi di un equilibrio cameristico inteso in termini tradizionali, ha i caratteri di una superiore necessità estetica, che governa senza concessioni o compromessi lo stesso orizzonte timbrico, proiettato in dimensioni di straordinaria potenza fantastica. Cosi l'angoloso e contrastato contrappuntismo del Vivace, con la stilizzazione estrema dei ritmi e lo scavo puntiglioso della ricerca armonica, tocca punte fra le massime di tutta la creatività beethoveniana. Altrettanto per la preparazione del Finale, mediante una ripresa in tempo Adagio, variata fino a farsi trasfigurazione, del primo Andante; che trapassa nell'Allegro vivace vero e proprio per successivi mutamenti di tempo e graduali proposte tematiche, rivelando a pieno la profonda unitarietà motivica di questa concisa e intensissima costruzione. E per il Finale stesso, che profitta di un tema dal profilo nervoso e incisivo per sgranare intrecci contrappuntistici di straordinario dinamismo.

Daniele Spini


(1) Testo tratto dal programma di sala del Concerto dell'Accademia di Santa Cecilia,
Roma, Auditorio di Via della Conciliazione, 2 Febbraio 1991
(2) Testo tratto dal programma di sala del Concerto dell'Accademia Filarmonica Romana,
Roma, Teatro Olimpico, 14 febbario 2014
(3) Testo tratto dal programma di sala del Concerto del Maggio Musicale Fiorentono,
Firenze, Teatro della Pergola, 1 giugno 1988

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Ultimo aggiornamento 31 marzo 2016