Sonata per violino e pianoforte n. 4 in la minore, op. 23


Musica: Ludwig van Beethoven (1770 - 1827)
  1. Presto
  2. Andante scherzoso, più Allegretto (la maggiore)
  3. Allegro molto
Organico: violino, pianoforte
Composizione: 1800
Edizione: Mollo, Vienna 1801
Dedica: Conte Von Fries
Guida all'ascolto 1 (nota 1)

Le Sonate op. 23 e op. 24 furono composte insieme nel 1800 e 1801, con il numero d'opera 23 e con dedica al conte Moritz von Fries. Solo nel 1802 la seconda Sonata fu ripubblicata con il numero d'opera 24. L'"Allgemeine Musikalische Zeitung" trovò che le due Sonate erano «le migliori scritte da Beethoven, e ciò vuol dire che sono tra le migliori che siano state scritte». Completo voltafaccia, del resto lodevolissimo, rispetto alla recensione dell'op. 12. Ma è interessante la spiegazione nel suo diverso modo di giudicare, che il recensore ritiene necessario dare: «Nelle sue prime opere Beethoven procedeva talvolta con portamento arcigno, selvaggio, cupo e aspro. Ora comincia a sdegnare gli eccessi, si spiega con maggior chiarezza e senza nulla perdere del suo carattere, diventa più amabile. Queste due Sonate, e specialmente la prima, son molto meno difficili da suonare, e dunque, più accessibili a un vasto pubblico, di molte precedenti opere di Beethoven». Si noti che il metro di giudizio è duplice: minore difficoltà concettuale, minore difficoltà tecnica. Il recensore scrive per un pubblico che non ama un impegno intellettuale inconsueto e preferisce capire la musica alla prima audizione anziché doverne analizzare le novità, scioglierne gli enigmi. E scrive per un pubblico che esegue la musica, oltre ad ascoltarla. Il concerto privato del Settecento, per molti ascoltatori, era anche un vernissage di musiche da acquistare ed eseguire personalmente. Beethoven tendeva invece ad impegnare l'ascoltatore con una insolita tensione intellettuale, e ad impegnare l'esecutore con difficoltà che eccedevano il grado di preparazione del dilettante. Da questa nuova prospettiva sorgono due fatti di costume che modificano nell'Ottocento il tradizionale rapporto tra musicisti e pubblico: la progressiva scomparsa della musica d'uso, e il concerto pubblico, sostenuto da professionisti per un pubblico in grandissima parte digiuno di conoscenze tecniche.

La Sonata op. 23 non è molto nota, ed è un peccato, perché si tratta di una composizione di insolito carattere, che trova pochi riscontri nell'opera di Beethoven. Il primo tempo è in movimento rapidissimo, a modo di moto perpetuo, e pare un finale più che un primo tempo. Il secondo tempo non è né un tempo lento né uno scherzo, ma pare piuttosto un brano fantastico al modo di Schumann. Il terzo tempo comincia come un tema con variazioni e continua come un Allegretto di Schubert. Lo scarso rilievo drammatico del primo tempo e la mancanza di un vero e proprio tempo lento hanno probabilmente nuociuto alla diffusione della Sonata, che è invece molto interessante, proprio in ragione delle sue caratteristiche inconsuete.

La struttura del primo tempo è notevolissima. Il tipo di costruzione sembrerebbe essere quello con esposizione, sviluppo e riesposizione di lunghezza all'incirca pari. Dopo 71 battute di esposizione troviamo infatti 64 battute di sviluppo, con una fermata conclusiva che preannuncia nettamente la riesposizione. Beethoven inserisce invece a questo punto una melodia non ancora udita, che è ricavata dal primo tema, e che si sviluppa per ben 28 battute. La genialità del procedimento consiste nel fatto che un altro compositore avrebbe probabilmente presentato la melodia all'inizio del pezzo, come primo tema, e l'avrebbe spezzata nello sviluppo. Beethoven inizia invece presentando come primo tema un breve frammento melodico, che genera un'ampia melodia in una sezione aggiunta dello sviluppo. La melodia non viene ripresa nella riesposizione, e torna invece nella coda. Abbiamo così uno schema strutturale di questo tipo:

Esposizione: 71 battute
Sviluppo: 92 (64+28) battute
Riesposizione: 60 battute
Coda: 29 battute

Nelle Sonate op. 12 Beethoven non aveva mai introdotto lo Scherzo o il Minuetto, già impiegati invece nelle Sonate per pianoforte e nei Trii, e successivamente nei Quartetti e nella prima Sinfonia. Il secondo tempo dell'op. 23 prepara l'introduzione dello Scherzo nella sonata per pianoforte e violino: innovazione, questa, che Beethoven attuerà solo in tre delle dieci sonate. Abbiamo già detto che il brano, con la sua grazia sorridente e un pò motteggiatrice, potrebbe quasi essere un pezzo fantastico al modo di Schumann. Strutturalmente, il secondo tempo è in forma-sonata, con un primo tema, un tema di collegamento in forma di esposizione di fughetta a tre voci, un secondo tema, un tema di conclusione (che si potrebbe definire rossiniano); seguono lo sviluppo, basato sul primo tema e sul tema di collegamento, e la riesposizione.

Il terzo tempo viene abitualmente classificato come rondò. Il frequente ritorno del tema iniziale spiega la classificazione; ma se questo è un rondò, di certo è un rondò assai insolito, con quel suo tema di corale posto al centro, che apre una lunghissima parentesi nella quale il tema iniziale non viene più udito. All'audizione, l'ascoltatore percepisce una forma ternaria (prima parte di 113 battute, seconda parte di 90, ripresa della prima parte, di 129 battute, con citazione della seconda parte), in un clima espressivo di una dolcezza non lontana dal misterioso stupore di Schubert. Joseph Szigeti (Beethoven Violinwerke, Zurigo 1965) ha fatto notare che il primo tema del finale fu poi riutilizzato da Beethoven nel Gloria della Missa solemnis.

Piero Rattalino

Guida all'ascolto 2 (nota 2)

Trasferitosi a Vienna stabilmente a partire dal 1792, Beethoven si fece apprezzare inizialmente soprattutto come pianista, come improvvisatore e in via subordinata come compositore di musica per il pianoforte. La singolarità di alcuni elementi che già si potevano cogliere nelle sue prime opere originali - ad esempio la dilatazione delle strutture, la lunghezza inconsueta dei brani, l'arditezza della scrittura cromatica e la violenta sottolineatura delle idee espressive - facevano pensare allora a qualcosa di adolescenziale, a un tratto ingenuo ed istrionico il cui scopo sembrava esclusivamente quello di sbalordire e conquistare il nuovo pubblico. Da questo punto di vista, il giudizio dei contemporanei sulle sue composizioni del primo periodo viennese è significativamente molto vario: vi è chi apprezza l'inventiva del giovane autore, chi ne riconosce il talento virtuosistico, ma anche chi dubita dell'opportunità di appesantire in modo così manifesto una musica pur sempre da intrattenimento, da salotto o da esibizione, giudicando meno interessante il sacrificio dei criteri settecenteschi dell'eleganza piuttosto che la loro funzionale stilizzazione, così come questa era stata formulata dai primi alfieri dello stile classico viennese. Lo stesso Haydn, valutando nel loro complesso i tre Trii con il pianoforte op. 1 (1794-95), finì per sollevare qualche riserva, sia pure celata diplomaticamente dietro la cautela nei confronti del pubblico, ovvero dietro la preoccupazione che all'esordiente compositore non avrebbero giovato le eccessive lunghezze e le non meno esasperate tinte espressive dell'ultimo brano della raccolta, in tonalità di do minore. L'uso di questa tonalità, con la sua cupezza e il suo forte sapore romantico, veniva di frequente sconsigliato nell'ambito cameristico, dove gli usi e la facile pratica dei dilettanti rappresentavano ancora il primo referente artistico e commerciale di ogni musicista.

L'esempio di Mozart, che al do minore aveva consacrato una Sonata e una Fantasia per pianoforte di indubbia temperatura drammatica, sembrava non solo definire l'orizzonte espressivo "moderno" di quella tonalità, ma anche precisare i termini del confronto con la letteratura musicale storica, con lo stile del primo barocco, ad esempio, con i moduli e con l'arcaica severità del contrappunto. In ogni caso, l'uso del do minore non si conformava al tono medio delle opere composte per la diffusione entro l'ambiente degli amatori, dei privati praticanti, e sembrava riservato piuttosto a una pratica ancora "aristocratica" o che comunque richiedeva un certo impegno di ascolto, oltre che un buon livello degli esecutori. Fin dalle sue prime opere, tuttavia, Beethoven aveva trovato particolarmente congeniale la tonalità di do minore, attraverso la quale egli comunicava un pathos introspettivo e delineava un'atmosfera romantica che subito emancipavano la musica dal suo legame con le concezioni estetiche del Settecento e la proiettavano verso l'idea della musica come Arte, e non come genere di consumo. Già nel suo primo periodo creativo, l'uso del do minore, frequente specialmente nelle opere di maggiori dimensioni, è però solo uno dei segnali di questo mutamento. Più in generale, si può osservare come Beethoven progressivamente sottometta ogni principio tecnico della scrittura alla forza centripeta dell'idea musicale, come il virtuosismo, le anomalie e le soluzioni impreviste seguano una logica del discorso musicale assai più coerente e rigorosa di quanto non avvenisse quando quegli elementi erano trattati come semplici mezzi di esecuzione. Le prime Sonate per violino e pianoforte, un genere che Beethoven frequentò molto nei suoi primi anni viennesi, sono il riflesso piuttosto eloquente di questa nuova posizione estetica.

Apparentemente, nel genere della Sonata per violino e pianoforte l'autore sembra essersi inizialmente attenuto alle regole e alle usanze dello stile classico, non avrebbe introdotto innovazioni, né osato sperimentazioni analoghe a quelle delle contemporanee Sonate per pianoforte solo. Questa impressione, a lungo accreditata dall'opinione comune della critica musicale, è stata da tempo superata, tanto che nel genere della Sonata per violino e pianoforte si riconosce una sorta di movimento parallelo compiuto dal musicista verso una maturazione stilistica che avrebbe più avanti dato i suoi frutti più evidenti, ma che già a questo primo livello non è riducibile ai canoni di una produzione "ordinaria". Beethoven aveva studiato violino a Bonn e continuò a praticare lo strumento anche a Vienna, dapprima sotto la guida di musicisti come Schuppanzig e Krumpholz. Grazie alla conoscenza tecnica e soprattutto alla predilezione che nutriva per questo strumento, egli tendeva ad aggiornarsi sulle novità tecniche e stilistiche della scrittura violinistica nelle varie scuole strumentali europee. Così, alla fine del Settecento, aggiungendo agli elementi appena menzionati anche una più generale attenzione verso il fenomeno politico e culturale della Rivoluzione Francese, Beethoven si accostò al nuovo uso del violino nella musica prodotta in quel periodo dagli artisti più in vista a Parigi. Già le sue prime Sonate per violino e pianoforte risentono infatti dello stile antisentimentale, eroico e declamatorio della musica francese di quel periodo.

L'influenza dello stile francese fu già notata dai contemporanei, i quali segnalavano la presenza di motivi "rivoluzionari" in molte composizioni beethoveniane, soprattutto orchestrali: tracce dello stile di Cherubini ad esempio si ritrovano nell'Ouverture Coriolano e nella Leonore, preludio a sua volta di un'intera opera, il Fidelio, ispirata al teatro post-rivoluzionario; moduli che si ispirano alla scrittura di Méhul sono riscontrabili nella Quinta Sinfonia. Ma accanto ai nomi di autori come Gossec, Grétry o Berton, troviamo nel numero dei musicisti che avrebbero esercitato un certo ascendente su Beethoven anche quelli di Kreutzer, Baillot e Rode, i quali sarebbero stati di estrema importanza proprio per la precisazione del suo stile violinistico. Le prime Sonate di Beethoven segnano da questo punto di vista un deciso allontanamento dallo stile classico, un travalicamento dei suoi limiti e una più marcata sottolineatura di un nuovo pathos eroico e drammatico, reso attraverso una scrittura asciutta, chiara, nella quale anche il virtuosismo o la messa in evidenza delle strutture ritmiche assume un valore espressivo ben riconoscibile. Naturalmente, anche in questo caso le innovazioni apportate da Beethoven vengono precisandosi per gradi: la Sonata op. 23, ad esempio, possiede ancora tratti di eleganza che le Sonate dell'op. 30 già si lasciano alle spalle in favore di una recitazione, di una "prosa" strumentale già più chiara e matura. In entrambi i casi, tuttavia, sono riconoscibili le strade che hanno portato il compositore ad affrancarsi rapidamente dall'orizzonte dell'arte "di genere" per giungere invece ad un prodotto più coerente con le categorie di quell'autonomia musicale, di quel paradigma dell'"arte per l'arte" che andava appunto affermandosi nello stesso periodo.

La Sonata in la minore op. 23 fu composta nella seconda metà dell'anno 1800 e pubblicata dopo pochi mesi a Vienna, da sola, mentre in origine avrebbe dovuto essere data alle stampe insieme alla Sonata in fa maggiore op. 24, detta "La primavera". Il brano si apre, con un movimento che non tradisce alcuna traccia di vuota giocosità, nonostante l'indicazione Presto e il tempo di 6/8. Si tratta anzi di un movimento oscuro, denso di motivi tempestosi e di un'inquietudine ritmica piuttosto evidente. Beethoven mostra una grande varietà di idee e una forte originalità nella loro presentazione. La generale ripetizione che segue la fine dell'esposizione, dunque, non è già più un modo di corrispondere alla pratica tipica dello stile classico, ma deriva da una necessità per così dire "interna" del materiale musicale, dal bisogno di definire meglio il ruolo e la forma dei singoli elementi tematici prima di elaborarli nello sviluppo. Il secondo movimento non è un adagio, come ci si sarebbe potuti aspettare, ma è indicato Andante scherzoso, più Allegretto. È caratterizzato in sostanza da un primo tema di due sole note che si presta a continui giochi di imitazione e di variazione, da un secondo tema capriccioso ed elaborato che sfocia in un fugato a tre voci, quindi da un terzo elemento melodico nel quale il violino viene trattato secondo uno stile quasi belcantistico, con tutta la serie di trilli, abbellimenti e virtuosismi che ricordano la decorazione tipica di un'aria da Singspiel. Come il primo movimento, anche il secondo si chiude su un cupo pianissimo, e quasi riallacciandosi a questa chiusa il Rondò finale riprende l'atmosfera inquieta del movimento iniziale. Beethoven pone i singoli ritornelli del Rondò in un rapporto di reciproco contrasto; un contrasto dapprima realizzato attraverso l'opposizione di una serie di accordi, quindi sviluppato attraverso continue variazioni della melodia principale e ampie modulazioni che portano lontano dalla tonalità d'impianto, ma che nel loro insieme confermano la continua oscillazione fra momenti di luce e di oscurità che caratterizza l'intera Sonata.

Stefano Catucci


(1) Testo tratto dal programma di sala del Concerto dell'Accademia di Santa Cecilia,
Roma, Auditorio di Via della Conciliazione, 8 Maggio 1992
(2) Testo tratto dal programma di sala del Concerto dell'Accademia Filarmonica Romana,
Roma, Teatro Olimpico, 14 aprile 1994

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Ultimo aggiornamento 12 giugno 2013