Sonata per pianoforte n. 32 in do minore, op. 111


Musica: Ludwig van Beethoven (1770 - 1827)
  1. Maestoso. Allegro con brio ed appassionato
  2. Arietta. Adagio molto semplice cantabile (do maggiore)
Organico: pianoforte
Composizione: Vienna, 13 Gennaio 1822
Edizione: Schlesinger, Berlino 1823
Dedica: Arciduca Rodolfo
Guida all'ascolto 1 (nota 1)

La Sonata op. 111 è la trentaduesima ed ultima del catalogo di Beethoven; ci porta dunque all'estremo periodo creativo dell'autore, periodo i cui frutti furono spesso giudicati dai contemporanei incomprensibili e ineseguibili, per l'astrusità del contenuto e le difficoltà tecniche; d'altra parte lo stesso autore non concepiva più la Sonata per pianoforte in prospettiva della pubblica esecuzione, ma piuttosto per la lettura, per la meditazione privata. Non senza motivo le ultime Sonate e gli ultimi Quartetti sono stati pienamente compresi solamente nel nostro secolo; essi rappresentano l'espressione di un progressivo isolamento del compositore dalla sua epoca, per seguire le tracce di una fantasia e di una logica compositiva del tutto indipendenti dai meccanismi della contemporanea produzione e fruizione musicale.

La crisi degli ideali dell'età napoleonica non si traduce per Beethoven nella propensione verso un minìaturismo edonistico - espressione in musica del nuovo gusto Biedermeier - o verso i primi esiti del romanticismo. Viene a mancare invece quella forte contrapposizione tematica, quella unitarietà del contenuto che rispecchiavano, nell'opera 13 o nell'opera 57, gli ideali etici dell'autore. I temi dunque si frammentano, il fluire del discorso segue una plastica consequenzialità che non è più oppositiva, basata su una logica di contrasti; la forma sonata smarrisce la netta funzione dei singoli elmenti; la stessa Sonata nel suo insieme si sfalda, non appare più come una fortezza autonoma, accoglie al proprio interno forme prima sconosciute o usate in modo differente: la fuga, e la variazione, quest'ultima del tutto scissa ormai dall'originaria funzione decorativa, e passata ad assumere una funzione costruttiva. Coerentemente con questo processo la stessa scrittura pianistica subisce una nuova razionalizzazione, che consiste nell'inglobare tutte le precedenti esperienze e sperimentazioni, dai recuperi del passato alla brillantezza tecnica di Clementi, alle magie timbriche e alle possenti sonorità scoperte sul pianoforte Erard, per attingere poi a queste eterogenee esperienze con superiore consapevolezza, selezionato discernimento e logica profonda. L'estrema libertà creativa assume spesso le vesti di una astratta purezza, di un sentimento intimistico. Caratteristiche, queste, che segnano al più alto grado la Sonata op.111, terminata nella primavera 1822 e pubblicata da Schlesinger nel corso dello stesso anno. Consta di due soli movimenti e riprende gli archetipi formali più cari al compositore, la forma-sonata e il tema con variazioni. Aperto da un'introduzione di grave severità e densissima tensione armonica, il movimento iniziale nega la logica dialettica (bitematica) propria della forma sonata, donando preminenza assoluta al primo tema, un vigoroso soggetto di fuga che innerva tutta la pagina, improntandola del suo carattere severo e impetuoso. Vero cuore della Sonata è però l'Arietta con variazioni, rispetto alla quale l'Allegro con brio appassionato costituisce un vasto preambolo. La tecnica della variazione, luogo ideale dell'ultimo Beethoven per la possibilità di giocare astrattamente con il materiale musicale in sé e per sé, vi viene sviluppata nella prospettiva più coerente e insieme visionaria. Il tema dell'Arietta è di rarefatta essenzialità e di simmetrica articolazione; nelle prime tre variazioni, che rispettano fedelmente lo schema, esso viene animato internamente da una progressiva suddivisione ritmica. La tensione accumulata sfocia nella quarta variazione, che propone lo sfaldamento del tema in contrapposizioni timbriche e nell'ampliamento dello schema originario. Nella quinta e ultima variazione il tema torna nella limpida forma originaria, ma rivestito di trilli e atmosfere fluttuanti che gli attribuiscono una connotazione sublimata. All'amico Schindler, che gli chiedeva come mai non avesse aggiunto un Rondò alla Sonata, Beethoven rispose che gliene era mancato il tempo; affermazione che è stata spesso presa per buona, ma che rivela in realtà l'inadeguatezza dei contemporanei a comprendere il pensiero dell'autore; la Sonata op. 111 rappresenta invece il compiuto testamento di Beethoven nel genere della Sonata pianistica, trasformata nel volgere di un trentennio da genere di pubblico consumo in astratta meditazione personale; non è un caso che lo scenario avveniristico aperto dalle ultime variazioni sia rimasto sostanzialmente senza seguito per molti decenni, venendo colto nella sua profondità solamente nel corso del secolo scorso.

Arrigo Quattrocchi

Guida all'ascolto 2 (nota 2)

La Sonata op. 111 ripresenta nel primo tempo il Beethoven titanico. Una introduzione, resa traumatica dalle settime diminuite e dal doloroso insistere di seconde sforzate, sfocia nell'enunciazione volitiva del tema. Subito scatta un flusso tempestoso di quartine di semicrome, due volte arrestato dall'apparizione della seconda idea, una breve distensione cantabile. Ma se ne è appena spenta l'eco che una cascata arpeggiata sulla settima diminuita riconduce al tumulto. Rispetto ai due allegri delI'«Appassionata», gli esempi più caratteristici di questo Beethoven byroniano, il primo tempo del'opera 111 si distingue per l'accostamento di brevi episodi folgoranti, sovente trattati in libera imitazione su un'idea ritmica fissa. Un metodo di costruzione ellittico che bada al solo significante, e dove ogni trapasso reca l'impronta del genio: ad esempio i 15 secondi di musica, le nove battute della coda, che conducono con originalissima mossa melodica alla chiusa in maggiore.

L'«Adagio molto, semplice e cantabile» è stato oggetto di una celebre analisi di Thomas Mann. Un'analisi che spiega la portata storica del congedo di Beethoven dalla sonata. «Il tema dell'Arietta, destinato a subire avventure e peripezie per le quali nella sua idillica innocenza non sembra proprio nato, si annuncia subito e si esprime in sedici battute riducibili a un motivo che si presenta alla fine della prima metà, simile a un richiamo breve e pieno di sentimento - tre sole note, una croma una semicroma e una seiminima puntata che si possono scandire come «Puro-ciel» oppure «Dolce amor» oppure «Tempo-fu» oppure «Wiesengrund»: e questo è tutto. Il successivo svolgimento armonico contrappuntistico di questa dolce enunciazione, di questa frase malinconicamente tranquilla, sono le benedizioni e le condanne che il maestro le impone, le oscurità e le chiarità eccessive, le sfere cristalline nelle quali la precipita e alle quali la innalza, mentre gelo e calore, estasi e pace sono una cosa sola (...) La caratteristica di questo tempo è infatti il grande distacco fra il basso e il canto, fra la mano destra e la sinistra, e c'è un momento, una situazione estrema in cui sembra che quel povero motivo rimanga sospeso, abbandonato e solitario sopra un abisso vertiginoso, un istante di pallida elevazione cui segue subito una paurosa umiliazione, quasi un trepido sgomento per il fatto che una cosa simile sia potuta accadere. Ma molte cose accadono ancora prima che si arrivi al fondo. E quando ci si arriva, dopo tanta collera e ossessione e insistenza temeraria, avviene alcunché di inaspettato e commovente nella sua dolcezza e bontà. Il ben noto motivo che prende commiato, ed è esso stesso un commiato e diventa una voce e un cenno di addio, questo re-sol sol subisce una lieve modificazione, prende un piccolo ampliamento melodico. Dopo un do iniziale accoglie, prima del re, un do diesis, di modo che non lo si scandisce più «Puro-ciel» o «Tempo fu», bensì «Oh-tu puro ciel» o «Già un tempo fu»; e questo do diesis aggiunto è l'atto più commovente, più consolatore, più malinconico e conciliante che si possa dare. (...) Tutto era fatto: nel secondo tempo, in questo tempo enorme la sonata aveva raggiunto la fine, la fine senza ritorno. (...) Quel cenno d'addio del motivo re-sol sol, confortato melodicamente dal do diesis, era un addio anche in questo senso, un addio grande come l'intera composizione, il commiato dalla Sonata».

Gioacchino Lanza Tomasi

Guida all'ascolto 3 (nota 3)

Inizialmente Beethoven intese dedicare quella che doveva essere la sua ultima Sonata, l'op. 111, ad Antonia Brentano, madre di Maximiliane, la dedicataria dell'op. 109; in seguito, ragioni di maggiore opportunità dirottarono la dedica della Sonata sull'arciduca Rudolfo, allievo e protettore di Beethoven, cui sarebbe stata dedicata anche la grandiosa Missa Solemnis, in quei giorni ancora in gestazione. La composizione della Sonata fu portata a termine nel gennaio 1822, ma non venne pubblicata prima dell'aprile 1823. Molti commentatori del secolo scorso si sono chiesti perché Beethoven abbia dato alle stampe una sonata in due soli movimenti, privandola di un finale. La questione è ovviamente oziosa, e basta un minimo di gusto musicale per capire che, dopo la formidabile sequenza di variazioni del secondo movimento, non ci sarebbe spazio per una parola di più. Rispondendo a una analoga domanda del famulus Schindler, Beethoven ironizzava dicendo di non avere avuto abbastanza tempo, pressato dalla Nona Sinfonia; il guaio è che il povero Schindler prestò fede alla boutade beethoveniana, e fedelmente la riportò nelle sue memorie. La Sonata si apre con un potente salto discendente di settima diminuita, un gesto scultoreo che introduce l'elemento-chiave della breve introduzione. Il Maestoso, infatti, si giova dell'accordo dissonante di settima diminuita per accumulare sempre più forti tensioni armoniche, e infine scaricarle, con la violenza cupa di un trillo in crescendo, sullo squadrato tema in do minore del primo movimento, Allegro con brio e appassionato. In realtà, questo motivo sembra confezionato appositamente per una fuga, tanto evidente è la sua matrice contrappuntistica; tuttavia, Beethoven aspetta di aver portato a termine l'esposizione dei gruppi tematici, prima di aprire, nell'ampio sviluppo, una sezione in rigoroso fugato, caratteristica dominante del massiccio stile del brano. La soluzione formale è, ancora una volta, di tipo sperimentale: essa rappresenta il connubio perfettamente riuscito tra la quadratura della forma-sonata e la sapiente elaborazione contrappuntistica, che permette a Beethoven di sovrapporre e scatenare le tensioni eroiche e 'negative' di una tonalità, il do minore, fatale nella vicenda creativa e spirituale del compositore. Basti pensare come a questa tonalità siano legate opere decisive quali il Trio op. 1 n. 3, le Sonate op. 10 n. 1 e op. 13 Patetica, il Terzo Concerto per pianoforte, l'Ouverture Coriolano, la Quinta Sinfonia, e, finalmente, l'op. 111.

Al termine della michelangiolesca conflagrazione di questo primo movimento, Beethoven, con una breve coda, ha smorzato la dinamica fino al pianissimo, in modo da introdurre l'atmosfera di beata contemplazione del lungo movimento successivo, l'Arietta, Adagio molto semplice e cantabile. Ancora una volta Beethoven affida la summa dei valori spirituali della Sonata alle variazioni, elevate qui all'autentica dignità di un itinerarium mentis in Deum, una sconfinata avventura nel mondo delle metamorfosi sonore alla ricerca dell'Assoluto e della pace dello spirito. La trasparenza melodica dell'Arietta è saldamente ancorata alla luminosa tonalità di do maggiore, faticosamente conquistata nelle propaggini estreme del primo movimento. Beethoven l'abbandonerà soltanto una volta, alla quinta variazione, per sole undici battute, precedute da un passaggio di trascolorazione armonica, con una completa sospensione del ritmo, quasi a indicare che l'interesse deve essere concentrato eslcusivamente sulle trasformazioni del suono: è qui che appare per la prima volta l'elemento cruciale della variazione conclusiva, il trillo. Viceversa, nelle variazioni precedenti era stato il ritmo a caratterizzare con maggiore efficacia le evoluzioni di quella semplice Aretta dell'inizio, attraverso la moltiplicazione aritmetica del metro trocaico originale. In particolare, la terza variazione, con il suo ritmo puntato ostinato e strettissimo e con un uso rivoluzionario della sincope, agli orecchi di noi moderni suona quasi come una incredibile profezia di certe movenze tipicamente jazzistiche. Al termine, dopo un ondeggiante movimento del basso nella quinta variazione, come per miracolo riappare nelle regioni acute della tastiera la purezza tematica dell'Arietta, avvolta da un trillo sulla dominante di do maggiore, disteso su undici battute. Dopo l'estremizzazione del ritmo conquistata nelle precedenti variazioni, la comparsa di questo trillo, e dell'accumulazione di tensioni armoniche che esso produce, permette di ascoltare il ritorno dell'Arietta nella completa immobilità ritmica, in una sospensione assolutamente trascendente. In questo momento di tenero congedo, anche l'aspetto melodico del tema subisce una variazione, appena percepibile, eppure di grande effetto espressivo: il motivo originale re-sol-sol viene fatto precedere dall'appoggiatura di due note ornamentali, do e do diesis. Si tratta di un particolare minimo, ma che accresce di infinita tenerezza l'innocenza assoluta di questa finale contemplazione del suono: sembra quasi che il vertiginoso viaggio attraverso le variazioni sia servito soltanto a conquistare alla religiosa purezza dell'Arietta quelle due note, che ne rendono la melodia ancor più immensamente umana. Nessuna indagine critica riuscirà a restituire la grandezza umanistica di questa pagina beethoveniana come ha saputo fare l'arte di Thomas Mann nel Doktor Faustus: «Questo do diesis aggiunto è l'atto più commovente, più consolatore, più malinconico e conciliante che si possa dare. È come una carezza dolorosamente amorosa sui capelli, su una guancia, un ultimo sguardo negli occhi, quieto e profondo. È la benedizione dell'oggetto, è la frase terribilmente inseguita e umanizzata in modo che travolge e scende nel cuore di chi ascolta come un addio, un addio per sempre, cosi dolce che gli occhi si riempiono di lacrime».

Alberto Batisti


(1) Testo tratto dal programma di sala del Concerto dell'Accademia di Santa Cecilia,
Roma, Auditorium Parco della Musica, 30 Maggio 2003
(2) Testo tratto dal programma di sala del Concerto dell'Accademia Filarmonica Romana,
Roma, Teatro Olimpico, 17 gennaio 1973
(3) Testo tratto dal programma di sala del Concerto del Maggio Musicale Fiorentino,
Firenze, Teatro della Pegola, 14 maggio 1988

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Ultimo aggiornamento 13 aprile 2016