Sinfonia n. 9 in re minore, op. 125 "Corale"

per soli, coro e orchestra

Musica: Ludwig van Beethoven (1770 - 1827)
  1. Allegro ma non troppo, un poco maestoso
  2. Molto vivace
  3. Adagio molto e cantabile (si bemolle maggiore)
  4. Presto (fa maggiore) - Allegro assai (re maggiore) - Recitativo per baritono: O Freunde, nicht diese Töne (fa maggiore) - Coro: Freude, schöner Götterfunken (Allegro assai - re maggiore)
Organico: soprano, contralto, tenore, basso, coro misto, ottavino, 2 flauti, 2 oboi, 2 clarinetti, 2 fagotti, controfagotto, 4 corni, 2 trombe, 3 tromboni, timpani, triangolo, piatti, grancassa, archi
Composizione: 1822 - 1824
Prima esecuzione: Vienna, Theater an der Wien, 7 Maggio 1824
Edizione: Schott, Magonza 1826
Dedica: Federico Guglielmo III, Re della Prussia
Guida all'ascolto 1 (nota 1)

Monumento della musica di ogni tempo, la Nona Sinfonia prese forma molto lentamente nell'arco della vita di Beethoven. Si può infatti risalire al periodo in cui il compositore, non ancora ventenne, frequentava l'elite intellettuale di Bonn ed entrò in rapporti di amicizia con la ricca famiglia von Breuning, presso la quale conobbe il grecista e poeta Eulogius Schneider, entusiasta sostenitore degli ideali della Rivoluzione Francese e Ludwig Bartholomeus Fischenich, docente di diritto all'Università di Bonn e amico di Friedrich Schiller. È molto probabile che proprio in questa Università, dove Beethoven frequentava i corsi di filosofìa, Fischenich abbia fatto conoscere al giovane musicista l'opera di Schiller, e quell'Ode An die Freude (scritta nel 1785 e pubblicata nel 1786) che era diventata un simbolo degli ideali dei giovani tedeschi. Già allora Beethoven aveva immaginato di mettere in musica questa poesia, secondo quanto sostiene Fischenich in una lettera del 1793 indirizzata alla moglie di Schiller. Ma il progetto non andò in porto, forse a causa dell'improvvisa partenza di Beethoven per Vienna e della censura che aveva colpito le opere del poeta, messe all'indice nella città austriaca come scritti «immorali» e «pericolosi» (solo a partire dal 1808 i suoi drammi furono nuovamente rappresentati sulle scene e le sue opere poterono circolare liberamente). Progetto che però rimase sempre nella mente del compositore, anche prima di essere realizzato, nel 1824, nel celebre Finale della Nona. Nel 1790 Beethoven aveva utilizzato un frammento dell'Ode schilleriana nel testo della Kantate auf die Erhebung Leopold II zar Kaiserwürde, e non è da escludere che in quegli anni giovanili possa aver composto anche un Lied, andato perduto. Gli unici altri testi di Schiller che egli mise in musica furono una strofa della ballata Das Mädchen aus der Fremde, nel 1810, e il Cesang der Mönche (dal Wilhelm Tell), per coro a cappella, del 1817.

Molti elementi musicali della Sinfonia in re minore si possono individuare in lavori precedenti, oltre a comparire in forma di appunti e schizzi nei taccuini di Beethoven sin dal 1794. Allo stesso anno risale la composizione del "Lied" Seufzer eines Ungeliebten und Cegenliebe, su versi di Gottfried August Bürger (1747-1794), la cui melodia prefigura per la prima volta il celebre tema dell'Ode alla Gioia della Nona. A questo tema Massimo Mila, nella sua Lettura della Nona Sinfonia, riconduce anche un breve frammento melodico appuntato in un quaderno del 1804. Già nei primi anni del secolo Beethoven immaginava di comporre un grande affresco sinfonico e corale, e aveva anche pensato di concludere la Sinfonia Pastorale con un coro religioso. Nel 1808 compose la Fantasia in do minore per pianoforte, coro e orchestra, che si può considerare quasi uno studio preparatorio della Nona, sia per la concezione sperimentale della forma, sia per il contenuto poetico, legato ai versi di Christoph Kuffner che inneggiano alla pace, alla gioia, all'armonia universale. Altri spunti che anticipano materiali motivici e soluzioni formali della Nona si possono cogliere nel Lied Kleine Blümen, kleine Blätter, su testo di Goethe, del 1810; in un frammento melodico schizzato nel 1812 sul verso «Freude, schöner Götterfunken», inizialmente pensato per un'Ouverture corale, e successivamente utilizzato nell'Ouverture Zur Namensfeier del 1815; in un tema di fuga annotato in un quaderno dello stesso anno, che appare come una chiara anticipazione del tema del secondo movimento della Sinfonia. I primi abbozzi veri e propri della Sinfonia corale risalgono però al 1817, nello stesso periodo della composizione della Sonata Hammerklavier. Questo lavoro preparatorio proseguì fino ai primi mesi del 1819, quando Beethoven abbandonò la Nona per dedicarsi ad altre composizioni, anche a causa delle esigenze economiche che lo costringevano a trovare fonti di guadagno; in quegli anni videro la luce capolavori come la Missa Solemnis, le Sonate per pianoforte op. 109, 110, 111, le 33 Variazioni su un Walzer di Diabelli.

Solo nell'estate del 1822 Beethoven ritornò finalmente al progetto momentaneamente abbandonato, anche se in realtà allora aveva in mente due differenti lavori sinfonici, come aveva confidato a Friedrich Rochlitz, primo direttore dell'Allgemeine Musikalische Zeitung di Lipsia: si trattava di una composizione in re minore commissionatagli dalla Società Filarmonica di Londra, e di una «Sinfonia tedesca» con intervento corale su un testo che non aveva ancora scelto. Nel 1823 i due progetti confluirono in un unico grande affresco, che rielaborava in modo organico tutti gli appunti messi insieme fino allora e che, proprio per questo, apparve come l'esito di una lunga maturazione (lo dimostra anche l'esiguo numero di ritocchi nel manoscritto della Sinfonia). Nella primavera di quell'anno Beethoven compose il primo e il secondo movimento, in ottobre portò a termine l'Adagio, e nel febbraio del 1824, con l'inserimento dell'Ode schilleriana affidata a voci soliste e coro, la partitura fu completata. Cominciarono allora i preparativi e le trattative per la prima esecuzione, che ebbe luogo a Vienna il 7 maggio 1824, al Kärntnertortheater. Un concerto rimasto memorabile, nel quale la nuova Sinfonia fu diretta, insieme a tre brani della Missa Solemnis, dallo stesso autore, benché, date le sue condizioni di salute, la concertazione fosse stata curata da Michael Umlauff, maestro stabile del teatro. I quattro solisti erano le giovanissime Henriette Sontag e Caroline Unger, rispettivamente soprano e mezzosoprano, il tenore Anton Haitzinger e il basso August Seipelt. L'esecuzione non fu di altissimo livello, a causa del poco tempo destinato alle prove, ma il pubblico, numerosissimo, accolse la nuova Sinfonia con grande entusiasmo, tributando a Beethoven non gli applausi, che non poteva sentire, ma un festoso sventolare di fazzoletti. Fu quindi un trionfo, dal quale tuttavia Beethoven non riuscì a ricavare i guadagni che sperava, e anche una ripetizione del concerto, il 29 maggio non ebbe migliore successo finanziario. La partitura fu pubblicata da Schott nel 1826 con la dedica «a sua Maestà, il re di Prussia Federico Guglielmo III», e la copia manoscritta fu poi conservata alla Biblioteca Reale di Berlino.

La Nona Sinfonia apparve subito come un capolavoro rivoluzionario, non solo per la presenza delle voci e del coro, ma perché metteva in crisi il concetto stesso di "Sinfonia". Oltre che una sintesi di tutto ciò che era stato fino ad allora sperimentato e acquisito nel genere sinfonico, dalla forma-sonata al Lied, dalle Variazioni allo stile fugato, la Nona è anche una grandiosa architettura sonora nella quale Beethoven fa convivere altri generi musicali: lo stile operistico, la musica militare, gli esotismi «alla turca», la scrittura polifonica tipica della musica sacra. Elementi eterogenei che compongono un organismo unitario, ricco di invenzioni timbriche e di finezze ritmiche e metriche (come le soluzioni poliritmiche del primo movimento o i raggruppamenti alternativamente a tre e a quattro battute dello Scherzo), e caratterizzato da continui impulsi dinamici che imprimono un'energia inesauribile al concatenamento delle figure musicali. Nonostante la grandiosità della concezione (secondo Igor Markevitch la Nona rappresenta «il massimo sforzo di sintesi e rinnovamento che mai sia stato compiuto nella storia della Sinfonia»), che determinò la successiva evoluzione del sinfonismo romantico fino a Mahler, in questa Sinfonia Beethoven ritorna allo stile eroico della Terza, composta tra il 1803 e il 1804, e sperimenta le sue audaci innovazioni rimanendo all'interno di un modello classico, come aveva già fatto nella Hammerklavier, portando la forma sinfonica ereditata dalla tradizione tedesca ai limiti estremi in senso dinamico ed espressivo. La solidissima unità strutturale dell'insieme deriva dal sapiente trattamento dei percorsi tonali, ma anche dal ricorso a matrici comuni per la sagomatura dei diversi temi: «tutti i temi tipici della Sinfonia - osserva Vincent D'Indy - presentano l'arpeggio degli accordi di re o di si bemolle, le due tonalità di base dell'opera; si potrebbe, di conseguenza, considerare questo arpeggio il vero tema ciclico della Nona Sinfonia». La convenzionalità del linguaggio armonico e della superficie formale, con una forma-sonata nel primo movimento, uno Scherzo nel secondo (con fugato e doppia ripetizione) e due serie di variazioni nell'Adagio e nel Finale, non impedisce a Beethoven di superare i modelli preesistenti e di individuare un percorso formale nuovo e di immediato impatto all'ascolto.

Una delle novità più rilevanti di questa Sinfonia, che non si limita a concludere un grande ciclo ma appare come la sublimazione dell'arte beethoveniana, è il superamento dello schema sonatistico dei due temi contrapposti a favore di un'elaborazione più complessa che non solo mette in gioco materiali diversi ma moltiplica i livelli di contrapposizione.

Ne è un esempio il primo movimento, Allegro ma non troppo, nel quale secondo Mila si potrebbero contare fino a cinque temi differenti, «perché in realtà non si tratta di semplici temi [...] a rigore si deve parlare di tre "gruppi tematici", cioè di tre complessi di idee strettamente embricate l'una all'altra». In questo movimento la tradizionale forma-sonata si trasforma quindi in un organismo musicale nel quale i temi si presentano a gruppi, formando un serbatoio di elementi per l'elaborazione, ed esposizione e sviluppo si trovano strettamente congiunti, producendo un continuo fermentare di motivi e di sequenze ritmico-armoniche. Anche la ripresa presenta al suo interno una sorta di sviluppo che suscita nuove tensioni, contribuendo a fare di questo movimento non un'arcata in sé conchiusa, ma un segmento di una grandiosa arcata che abbraccia l'intera Sinfonia.

Il secondo movimento non è, come voleva la tradizione, un tempo lento, ma uno Scherzo, Molto vivace, che si contrappone quindi al movimento precedente non sul piano agogico ma su quello espressivo: dopo un Allegro dal tono cupo e drammatico, questa pagina appare come un turbinio danzante e gioioso, nel quale fanno il loro ingresso anche i tromboni, assenti nel primo movimento. Dopo le otto battute iniziali, in cui è esposta una brevissima cellula ritmica, prima dagli archi, poi dai timpani, quindi da tutta l'orchestra, il tema principale emerge in forma di fugato, in pianissimo, innescando un meccanismo di progressiva stratificazione timbrica. Anche in questo movimento, molto più esteso di un tradizionale Scherzo, è presente una sezione di sviluppo, e la funzione del Trio è affidata ad un Presto in 4/4, introdotto da un disegno staccato del fagotto sul quale oboi e clarinetti espongono un calmo motivo di otto battute che anticipa il tema della Gioia.

Dopo due tempi movimentati, l'Adagio molto e cantabile, in si bemolle maggiore, si presenta come una vera e propria oasi lirica, che introduce l'elemento della cantabilità attraverso due temi intensamente espressivi, i quali imprimono al movimento un sentimento di dolore e di contemplazione che ricorda la Missa Solemnis. Una cantabilità ancora senza voce, anche se il compositore aveva forse inizialmente progettato, stando a quanto sostiene George Grove, di fare entrare il coro già in questo movimento, in coincidenza con la enunciazione del secondo tema. Dal punto di vista formale, alla struttura del Lied Beethoven sovrappone quella della variazione, individuando un modello che adotterà anche nei tempi lenti degli ultimi Quartetti per archi. La raffinatissima trama strumentale è illuminata da un'orchestrazione sempre cangiante, che si basa sul continuo scambio tra legni e archi, e che concorre a creare un'atmosfera estatica, appena increspata da un'improvvisa fanfara delle trombe nella parte conclusiva.

Ma è nell'ultimo movimento, Presto, che l'impulso al canto trova il suo sfogo e si materializza nell'inserimento delle voci soliste e del coro, infrangendo le barriere del genere sinfonico. Culmine dell'intera Sinfonia, questo Finale si snoda attraverso sezioni molto marcate e nettamente contrastanti: all'inizio compaiono brevi reminiscenze orchestrali dei movimenti precedenti, con temi che vengono accennati e immediatamente abbandonati; poi, lentamente, prende forma il tema della Gioia, che inizialmente si presenta appena abbozzato (in quattro battute) da oboi, clarinetti e fagotti, su un pedale dei corni, per poi espandersi in tutta l'orchestra e nelle voci. Negli abbozzi per il recitativo del basso (sulle parole «O Freunde, nicht diese Töne!») che precede l'esposizione cantata del tema della Gioia, Beethoven esplicita il significato simbolico e musicale del rifiuto dei movimenti precedenti, quasi una catarsi rispetto ai ricordi di lotte e tragedie, e scrive: «No, questo caos ci ricorda la nostra disperazione. Oggi è un giorno di celebrazione, celebriamolo con canti e danze». Il resto del movimento si dipana quindi festosamente intrecciando al celebre tema corale, quattro distinti episodi: il primo costruito come un'elaborazione polifonica del tema stesso, il secondo che lo trasforma in passo di Marcia, sottolineato da un'orchestrazione turchesca (con grancassa, piatti e triangolo), il terzo che introduce un nuovo tema (Andante maestoso) sulla penultima strofa dell'Ode «Seid umschlungen Millionen», il quarto che combina contrappuntisticamente il tema della Gioia con quello del terzo episodio, dando vita ad una doppia fuga che porta alla trionfale conclusione.

L'Ode di Schiller trovò quindi finalmente posto nella Nona Sinfonia. Ma nel metterla in musica Beethoven ne fece un libero arrangiamento, utilizzando solo una parte delle strofe e omettendo alcuni versi: quelli dionisiaci che inneggiavano al vino, e quelli che parlavano troppo esplicitamente della libertà dalle catene dei tiranni e della magnanimità verso il malvagio, versi evidentemente non politically correct in un'epoca di Restaurazione. Secondo Mila l'intenzione segreta di Beethoven era quella di celebrare non la Freude (gioia), bensì la Freiheit (libertà), e questa ipotesi è supportata da un quaderno del 1812 nel quale è annotato un verso dell'Ode di Schiller che Beethoven intendeva mettere in musica: «Bettler werden Fürstenbrüder» (i mendicanti saranno fratelli di principi) che poi diventò il più evangelico e generico «Alle Menschen werden Brüder» (tutti gli uomini saranno fratelli). Rielaborando il testo di Schiller Beethoven ottiene una sorta di sceneggiatura drammatica che ci pone all'inizio davanti alla Gioia, incarnazione della madre nutrice («Freude trinken alle Wesen / An den Brüsten der Natur»), che abbraccia tutta l'umanità («Alle Menschen werden Brüder / Wo dein sanfter Flügel weilt») e prepara il loro ricongiungimento con il padre («Brüder, über'm Sternenzelt / Muss ein lieber Vater wohnen»). Il tripudio musicale dell'ultimo movimento (nel quale Maynard Salomon vede fuse insieme quattro componenti caratteristiche dell'ultimo stile beethoveniano: il canto, la danza, la variazione e la fuga) diventa così festosa enunciazione di un messaggio di libertà di fratellanza universale, che riprende da Schiller l'ideale di una nuova società. Per il poeta tedesco, convinto seguace di Kant, lo scopo dell'arte era quello di indirizzare l'umanità verso un nuovo ordine sociale, verso una nuova forma di armonia e di pace, che avrebbe permesso il libero sviluppo di tutte le potenzialità umane. Sposando questo modello utopico Beethoven, nella Nona, dà quindi una soluzione di stampo illuministico e ideologico allo scetticismo e ai laceranti conflitti che caratterizzavano tante opere precedenti, attraverso immagini idealizzate, proiettate nel futuro. La complessa struttura musicale della Sinfonia, data anche dalle sottili correlazioni tematiche tra i primi tre movimenti e il Finale, si può allora leggere come un vero percorso drammaturgico, una visione cosmica che va dalle tenebre alla luce. E che rivela una sostanza etica, oltre che estetica.

Gianluigi Mattietti

Guida all'ascolto 2 (nota 2)

La strada che porta alla Nona e ultima sinfonia di Beethoven parte da lontano» in una lettera (1793) del consigliere di stato B. Fischenich alla figlia di Schiller si accenna alla volontà del giovane Beethoven di musicare l'ode Alla gioia del poeta tedesco; un Lied del 1795 si conclude con una melodia (Amore reciproco) che passerà dodici anni dopo nella Fantasia op. 80 e quindi, con alcune trasformazioni, nell'ultimo movimento della Nona; inoltre esistono vari appunti e abbozzi, in anni dal 1798 al 1815, in un cui compare l'idea di mettere in musica alcune strofe dell'ode di Schiller. Il progetto di un nuovo lavoro sinfonico, dopo la Settima e l'Ottava si affaccia d'altra parte nel 1811, ma resta per un decennio larvato e di non chiara delineazione: ancora nel 1822 Beethoven ha in mente due diversi lavori sinfonici, uno in re minore per la Società Filarmonica di Londra (che gliene aveva fatta richiesta) e uno con intervento corale su un testo tedesco ancora da reperire. Durante il 1823 i due progetti confluiscono in uno: nella primavera il primo e il secondo movimento sono già quasi tutti fissati in abbozzo e nell'ottobre è ultimato l'Adagio; nel febbraio del 1824, con l'inserimento dell'ode schilleriana, la sinfonia è completata e cominciano lunghi imparativi e trattative per la prima esecuzione, che avrà luogo a Vienna il 7 maggio 1824 al Teatro di Porta Carinzia sotto la direzione dell'autore, con grandissimo successo di pubblico.

La Nona Sinfonia rende esplicito il messaggio ideologico presente in realtà in tutto Beethoven: la Gioia illuministicamente sentita quale slancio vitale, Impegno ottimistico a superare i propri egoismi in una fratellanza di tutti gli uomini, sicuri che sopra la volta stellata abita un caro Padre. La voga viennese di grandi composizioni sinfonico-corali (gli oratorii di Haydn, la ripresa ammirata di oratorii di Händel) può aver orientato Beethoven verso la cornice grandiosa, ma questa è maturata per necessità interiore dal terreno della Sinfonia: l'aver ordinato l'opera in modo tale che dopo tre movimenti radicati nella tradizione sinfonica, non sembrasse più sufficiente il discorso strumentale, ma bisognasse saltare il fosso verso la musica vocale, portatrice di significati ideologici indubitabili, fu un atto di straordinarie conseguenze per la storia culturale della musica nel suo complesso e in particolare del genere Sinfonia che qui, in pratica, concluse il suo corso in senso classico.

Il primo movimento (Allegro ma non troppo, un poco maestoso) allarga a dismisura la struttura della forma sonata: ampie zone tematiche sostituiscono i singoli temi canonici, mentre squarci contrappuntistici, idee umbratili e intime, episodi eroici (la tragica marcia conclusiva) ampliano come non mai il quadro espressivo. Lo Scherzo (Molto vivace), generato da una figura ritmica di tre note, ha una forza trascinante interrotta solo dal Trio (in re maggiore) e con le sue entrate polifoniche e lo straordinario intervento solistico del timpano conduce a perfezione il tipo dello Scherzo inaugurato nella Sinfonia eroica. Il terzo movimento ha una struttura a incastro, fra un primo tema in si bemolle maggiore (Adagio molto e cantabile) di natura quasi liturgica e "organistica" e un secondo in re maggiore (Andante moderato) che si inserisce fra le variazioni a cui il primo tema è sottoposto; un'ampia coda, interrotta da richiami di fanfara, chiude la pagina con l'autonomia di un episodio a sé. L'apparizione del tema della Gioia nel Finale è preceduta da un episodio di transizione di grande importanza: dopo un'armonia crudamente dissonante (Presto), violoncelli e contrabbassi introducono un recitativo che si alterna a brevi ritorni tematici, come citazioni, dei movimenti precedenti della sinfonia: è una pantomima "musicale" di temi proposti e rifiutati, seguita dall'esposizione del tema della Gioia da parte dell'orchestra (Allegro assai); dopo un ritorno alla dissonanza d'apertura, il baritono, riprendendo il recitativo, invita a voltare pagina verso nuovi orizzonti ("Amici, non questi suoni! Ma lasciateci intonare canti più graditi e gioiosi"): è l'invito al finale vero e proprio (Allegro assai), in cui i quattro solisti vocali (soprano, contralto, tenore e baritono) e il coro intonano nuove strofe scelte dall'Ode di Schiller e impaginate in quattro episodi musicali principali: il primo riprende ed elabora con le voci il tema della Gioia, il secondo lo trasforma in passo di Marcia (con la "musica turca" in orchestra, cioè gran cassa, piatti e triangolo), il terzo (Andante maestoso) introduce un nuovo tema di stampo händeliano per l'immagine della fratellanza universale ("Siate avvinti, o milioni"), il quarto combina in contrappunto rivoltabile il tema principale della Gioia con quello del terzo episodio: una grande architettura sonora che si incammina, attraverso una quantità di episodi secondari, alcuni anche di estatica commozione, verso la trionfale conclusione.

Guida all'ascolto 3 (nota 3)

«Abbracciatevi, siate avvinti, uniti». L'esortazione dei versi di Schiller, consacrati da Beethoven nel suo ultimo capolavoro sinfonico, rendono sempre attuale il valore - e il bisogno - di questi suoni: «diese Töne», la Nona Sinfonia.

Reca un messaggio quest'opera? Una cosa sembra comune a tutto quanto è stato scritto: attraverso i suoi quattro movimenti questa sinfonia è un grande percorso dal buio alla luce, il passaggio da uno stato di angoscia, frenesia affanno, attraverso la speranza, la dolcezza, fino ad arrivare alla gioia. Ma è ancora possibile considerarla 'seriamente'? Ossia, contrariamente a ciò che riteneva Adorno, dopo Auschwitz e gli orrori del secolo scorso è ancora possibile un dialogo sincero con una musica che parla ancora il tono della humanitas? Oppure - considerando anche orrori ben più recenti - dobbiamo realisticamente lasciare la fratellanza universale celebrata nel Finale tra le grandi illusioni?

Emblema di ogni questione sulle possibilità espressive della musica, oltre che opera dal destino controverso, sospesa tra l'elevazione a mito della cultura europea e le pesanti critiche mosse alla costruzione del Finale, la Nona di Beethoven suscita sempre nel pubblico un'accoglienza rinnovata. In tale prospettiva, è davvero curiosa la dissonanza tra la grande devozione dei Millionen che da sempre affollano le sale da concerto quando la Nona è in programma, e una tradizione critica piuttosto consolidata che nell'ultimo movimento la vede come opera sgraziata: certamente di grande presa emotiva, ma debole dal punto di vista della perfezione formale rispetto ad altri capolavori del suo autore.

Dalle precedenti Settima e Ottava, entrambe del 1812, la Nona Sinfonia dista ben undici anni. Si tratta all'incirca dello stesso intervallo di tempo che Beethoven impiegò nel primo decennio del secolo per comporre tutte le altre sinfonie, emancipando tale genere musicale ricevuto dalle mani di Haydn e Mozart - musica di elevato intrattenimento - e portandolo già con l'Eroica alla concezione ottocentesca: ogni sinfonia deve essere 'un mondo', come sosteneva Mahler.

Il 1823 fu l'anno in cui si dedicò totalmente alla composizione della Nona mentre il decennio antecedente fu caratterizzato, in una prima fase, da una riduzione dell'ondata creativa: sono i cosiddetti 'anni sterili' i quali possono essere però visti come quel momento di necessaria sedimentazione dello 'stile eroico' da cui potranno emergere le ultime quattro sonate per pianoforte e le Variazioni Diabelli. Successivamente venne quel periodo di intenso lavoro che, basato su un rinnovato interesse per la vocalità antica - Palestrina anzitutto -, darà corpo in quattro anni alla Missa Solemnis.

Tutto ciò non fu senza influenze sui progetti di nuove sinfonie che rimanevano momentaneamente sospesi nell'animo del maestro. L'intenzione originaria era infatti di comporne due: una in re minore destinata alla Società Filarmonica di Londra e un'altra con cori in tedesco su testi religiosi e miti greci; solo nel 1822 i due progetti si fusero insieme in quello che diverrà la Nona Sinfonia le cui prime idee musicali sono abbozzate in vari quaderni di altri lavori dal 1815 al 1818. Va poi considerata la storia tutta particolare della Melodia della Gioia: già utilizzata, anche se in forma variata, nel lied Ungeliebten und Gegenliebe del 1794 e nella Fantasia corale op. 80 del 1808. Anche gli stessi versi di Schiller, amati da Beethoven fin dalla giovinezza, solo nel 1822 presero il sopravvento su altre ipotesi e si unirono alla melodia che arrivava da tempi remoti. Considerando tutti questi fattori si può ben dire che a differenza delle sinfonie precedenti, nate in maniera 'scultorea' sgrossando e chiarificando una - una sola - idea monolitica, la Nona è il risultato di una stratificazione geologica, è la sedimentazione di una vita.

Al termine della composizione Beethoven fu tentato di organizzare la prima esecuzione a Berlino. A ciò lo spingeva in parte anche il risentimento verso i viennesi in adorazione da qualche tempo dell'astro nascente di Rossini. Quando amici ed estimatori seppero di queste intenzioni fecero di tutto per convincerlo a non privare la loro città del privilegio di avere la prima esecuzione. Dopo alcune indecisioni Beethoven si arrese e la scelta cadde sul Teatro di Porta Carinzia a Vienna.

I preparativi furono estenuanti. L'orchestra era alle prese con una partitura intricata come non mai e con l'inserimento di nuovi elementi a rinforzare le file per l'occasione. Le parti vocali erano mostruosamente difficili, Beethoven venne supplicato di facilitare alcuni passaggi. A complicare il tutto c'era il pochissimo tempo a disposizione per le prove: neanche un mese. Nonostante tutto ciò, la sera del 7 maggio 1824 la Sinfonia fu accolta con enorme entusiasmo dal pubblico viennese. Vennero eseguiti anche l'Ouverture 'La consacrazione della casa' op. 124 e tre parti della Missa Solemnis. Il responsabile generale del teatro, Duport, ci teneva che Beethoven dirigesse personalmente l'esecuzione e questi accettò, anche se la sua sordità totale ormai da tempo non gli consentiva più di condurre un'orchestra come si deve. Fu così che Umlauf, l'anziano direttore, avvertì i musicisti di seguire solo i suoi gesti. Al termine Beethoven non si accorse dell'entusiasmo del teatro. Fu il contralto Caroline Unger che prendendolo dolcemente per le spalle lo fece voltare per vedere il pubblico che lo acclamava sventolando un mare di fazzoletti bianchi.

La Nona Sinfonia è un'opera 'ampia', non tanto nella durata quanto nel suo espandersi in entrambi i mondi espressivi più caratteristici del suo autore. Come un grande viaggio di ritorno, essa ci riporta dalla sfera dell'ultimo Beethoven, cui il primo movimento tutto appartiene, al piglio eroico del Finale, anche se vi risuona un eroismo ben diverso da quello di vent'anni prima.

Nella sua ultima stagione creativa Beethoven approda a radicali mutamenti stilistici, ma quel che più conta è il cambiamento dell'idea di fondo che si avverte nelle sue opere. L'essenza del Beethoven 'eroico', quello che si è manifestato in modo lampante con la Terza Sinfonia e molte opere che sono seguite in quegli anni, è quella di una lotta: il famoso voler «afferrare il destino per la gola», che in molti lavori si concretizza nella tensione drammatico-dualistica della forma-sonata. La musica di quel periodo ha una 'direzionalità' certa, benché tormentata: muove spesso da un principio ostile verso un finale radioso conquistato con fatica. Nell'ultimo Beethoven si sente invece la posizione di un uomo che sa trarsi "in disparte" rispetto alla scena del mondo e approda a una visione più comprensiva. Non che vi siano eliminati i tormenti del vivere, ma il gesto deciso dell'uomo forte che si butta nella lotta, cede allo sguardo di un uomo - forse non meno forte - che sa cogliere questa nostra vita conscio delle sue ineliminabili contraddizioni.

A tale visione - superiore, se vogliamo - forse non si poteva approdare se non passando attraverso quegli anni di riflessione che vengono chiamati 'sterili'. La Sonata Hammerklavier op. 106, nata a ridosso di quel periodo, è l'altra opera dall'arcata così ampia da lasciar risuonare attraverso i suoi quattro movimenti lo stesso tracciato che congiunge le due sfere espressive di Beethoven. Ma in quell'opera si partiva dal piglio eroico vittorioso del primo movimento per arrivare, passando attraverso l'arguzia fugace dello Scherzo e il grande abisso dell'Adagio, a quella regione magmatica pre-umana costituita dalla colossale tripla fuga finale, nella cui conflagrazione, come in quella della Grosse Fuge op. 133, pare dissolversi ogni umano sentire. A tale cosmo primordiale appartiene anche il primo movimento della Nona (significativo, forse, che i suoi abbozzi si trovino sullo stesso quaderno dei quelli dell'Hammerklavier). Toccherà dunque alla Sinfonia compiere il grande percorso a ritroso.

Il primo movimento (Allegro ma non troppo un poco maestoso) pare emergere dal nulla con quelle quinte vuote in cui echeggia l'indistinto delle origini. Siamo di fronte a una concezione spaziale fatta di molteplici piani sonori in cui nulla prevale davvero. La consueta tensione bitematica della forma-sonata è scomparsa a favore di relazioni più complesse (i gruppi tematici sono almeno tre). Lo sviluppo pur con la sua incandescenza non traghetta gli eventi a nuove aree emotive.

Il tutto viene a comporre una scena grandiosa di attonita contemplazione, dinamica e immutabile dal principio alla fine, nelle cui laceranti pieghe polifoniche e timbriche echeggia un cosmo imperscrutabile pur nella sua immanenza.

Il secondo movimento (Molto vivace), che condivide col primo la tonalità di re minore, non è affatto uno "scherzo" - se consentito il gioco di parole - ma un terreno di lotta drammatica. Già nei rintocchi iniziali di ottave si sente il piglio di una volontà attiva di fronte alla scena immane del movimento appena concluso. Il fugato frenetico e saltellante che segue non è un abbandono selvaggio, orgiastico, alle pulsioni più elementari. È innegabile che sprigioni grande energia ma non sfrenatamente incontrollata; si coglie invece uno sforzo accanito di volontà e razionalità come reazione al cosmo insondabile del movimento precedente. Tensione polifonica, rigidità ossessiva della figurazione ritmica e segni dinamici «f» (forte) disseminati a profusione in principio di battuta, sono forse l'espressione di tanto ossessivo accanimento.

L'oasi in re maggiore costituita dalla sezione centrale, in cui è prefigurata la Melodia della Gioia, non è che una quiete effimera destinata dapprima ad afflosciarsi su se stessa nell'unico ritardando di questo movimento affannato, e infine a rivelarsi per quello che è: un miraggio illusorio che svanisce in una battuta di silenzio.

La vera pace arriva con il terzo movimento (Adagio molto e cantabile). Due temi, entrambi di ampio respiro, vi si alternano. Il primo (Adagio) dal carattere celestiale ritorna ogni volta impreziosito da variazioni che ne ricamano la linea melodica, il secondo (Andante) dal tono più conviviale viene esposto la prima volta dagli archi mentre la seconda è affidato ai fiati. Dopo la severità dei primi due movimenti, il terzo è un paesaggio di sconfinata bellezza in cui la musica si espande quieta come una preghiera che risuona nel profondo dell'anima. Sentiamo il 'risveglio' di una voce interiore a lungo ignorata. «Com'om che torna a la perduta strada».

L'aura contemplativa di questo Adagio è illuminata sin dall'inizio da una luce via via più intensa che verso la fine del brano diventa fulgore abbagliante: gli squilli di tromba che si odono improvvisi e coinvolgono tutta l'orchestra - senza alcuna funzione di sveglia o minaccia - sono il vertice, inaspettato, di tanta introspezione. Di tali squilli forse si avverte un sotterraneo presagio nel passaggio che dalla seconda esposizione dell'Andante conduce alla seconda variazione dell'Adagio: nel pizzicato degli archi sotto l'umbratile dialogo dei legni. Dopo quest'attimo di fulgore tutto torna come prima e, sempre dolcemente, il terzo movimento si avvia alla conclusione.

L'Adagio non era un sonno beato ma un risveglio spirituale, dunque nel Finale non abbiamo un ritorno 'alla vita' ma, semplicemente, alla 'ruvida quotidianità' del vivere: ben presente in quell'attacco brutale dei fiati a cui violoncelli e contrabbassi si oppongono con un vigoroso recitativo strumentale. L'ultimo movimento non reca tracce di vita vissuta ma fremiti di vita vivente che, prima di riprendere, si volge indietro a contemplare un 'cammino': sono le reminiscenze dei movimenti precedenti che vengono richiamate alla scena, non per venir necessariamente ricusate ma più per farne viva memoria. Sarebbe bene non tener conto di quelle sei piccole frasi che Beethoven appuntò nei suoi abbozzi riferendole ai vari interventi del recitativo strumentale le quali inducono a sentire un tono di rifiuto indistintamente in tutti questi interventi degli archi gravi. Il credito assoluto dato a tali appunti - non presenti in partitura - ha molto compromesso un ascolto 'pulito', semplicemente musicale, del prologo-pantomima.

Terminato quest'ampio preambolo ecco la Melodia della Gioia ascendere, semplicissima, dalle profondità degli archi e contagiare via via tutta l'orchestra. Canto senza parole, la 'Gioia', prima ancora di rivestirsi delle belle parole di Schiller, è qualcosa che nasce nel cuore. La 'fanfara del terrore' (come Wagner ha ben indicato l'attacco del Finale) riesplode ancora in questo tripudio orchestrale. Questa volta è una voce vera, di baritono, che si leva «Amici non questi suoni! Ma altri intoniamone, più piacevoli e gioiosi». La massa corale si unisce alla Gioia sempre preceduta dal singolo o dai solisti, quasi a significare la radice anzitutto individuale di tale sentimento. Torna la voce del Beethoven eroico, ma con spirito mutato; «angenehm» (gradevole) scrive sopra la parte del baritono dove attacca la Melodia della gioia. Non è più lo scultore protervo che nel Finale della Quinta cassava il destino con otto colpi di martello in do maggiore, ma un uomo conviviale, amabile.

I modi poco raffinati e a tratti esibiti di questo Finale restituiscono nel modo migliore il trambusto della vita con la sua frammentarietà e incoerenza, ora però fecondate da una Gioia che come un sottile filo rosso, pur non togliendo la fatica del vivere, tiene insieme tutta questa dispersione. Altro che 'bel canto'! Nella Freudenmelodie e nelle sue variazioni si deve avvertire fatica: la 'fatica della gioia'.

A un certo punto le variazioni si arrestano a favore di un nuovo momento di intenso raccoglimento (Andante Maestoso - Adagio ma non troppo ma divoto). Qui i versi di Schiller esortano gli uomini all'unità «Seid umschlungen», all'abbraccio fraterno sotto la volta stellata sopra la quale deve certamente abitare un caro Padre, e Beethoven riprende armonie arcaiche con una declamazione ispirata ad antichi inni liturgici. Quando insieme al fremito delicato dell'orchestra il coro intona per l'ultima volta sottovoce «Über Sternen muß er wohnen» (sopra le stelle deve abitare), sembra davvero scintillare il cielo stellato. Come disse Walter Riezler, in questo passaggio «risuona l'infinito».

Poi la "volta stellata" scompare e una possente doppia fuga, che riconquista la tonalità di re maggiore fondendo insieme la vitalità della Freudenmelodie e l'anelito trascendente dell'arcaica melodia di «Seid umschlungen!», si impone come viatico definitivo: la Gioia, appunto quale è nella sua essenza: «Schöner Götterfunken» (bella scintilla divina); davvero divina ma 'scintilla', non pienezza di luce. Ed è solo con la debole forza di questa scintilla che è possibile abitare il mondo e attraversare la vita.

Verso la conclusione solisti e coro si alternano più volte in rapida successione: momenti di esultanza, concitati, sognanti, carezzevoli, frenetici, solenni. Beethoven termina quella che rimarrà la sua ultima sinfonia in maniera davvero scomposta. Ma la gioiosa scompostezza di questa stretta finale è come un'ulteriore parola di incoraggiamento per la nostra vita: anche nella dispersione della quotidianità - con tutto ciò che non torna - ad affrontarla con forza, con gioia.

Pur essendo germogliata dal duro terreno della sua epoca e dalla vita dissestata del suo autore la Nona Sinfonia ha levato i suoi rami ad altezze insperate. Non è però, quella a cui perviene, l'altezza di una sintesi operata nell'ideale monolitico della Quinta, bensì quell'altezza da cui contemplare retrospettivamente l'itinerario umano compiuto, con un occhio desideroso di rintracciarvi una logica, una propria 'unità', pur nelle evidenti fratture. È forse un grande bisogno di 'unità interiore', nella dispersione della vita, ciò che rende sempre desiderata e amata quest'opera di Beethoven anche al secolo attuale. Benché in opere successive, quali ad esempio le sinfonie di Mahler, riecheggi maggiormente la frammentarietà del mondo moderno - globale ma non davvero 'unito' - queste ultime vengono forse ascoltate con un affetto fraterno: con la solidarietà che si può sentire con una musica la quale si trova nelle 'stesse condizioni' di coloro che oggi la ascoltano. L'affetto che invece la Nona di Beethoven riceve, oggi più che al tempo della sua creazione, è di tipo filiale. È un'insaziabile fame di 'unità spirituale' quella che ci porta a questa musica alla quale chiediamo quasi un'adozione perché ci ri-generi. In tale prospettiva se il tempo di Mahler è ormai venuto, possiamo constatare dalle attese dell'animo che quello della Nona di Beethoven non è mai terminato.

Ad essa spontaneamente ci rivolgiamo, come singoli e come collettività, nei momenti nodali della vita e della storia; quando vogliamo fermarci a contemplare il nostro passato non in chiave nostalgica ma in maniera feconda per l'avvenire: all'inizio di un nuovo anno, di una nuova stagione della vita, al cadere di muri di separazione. Quando vogliamo ripartire, come scrisse Beethoven nella Canzona di ringraziamento del Quartetto op.132 là dove essa modula - guarda caso - a re maggiore: «Neue Kraft fühlend», sentendo nuova forza.

Una visione del Finale come 'traguardo', meta beata, paradiso, fratellanza raggiunta - che venne supportata anche da Wagner - è ciò che non permette di cogliere la 'vera' perfezione formale di questa parte della Sinfonia. Se il Finale davvero alludesse a tutto questo, allora le critiche sarebbero fondate: come 'paradiso' suona un po' sgangherato. Ma non lo è. Non sono masse di beati, di pacificati, quelle che intonano le variazioni corali, non è la voce di un'umanità migliorata ma quella di un'umanità che 'si vorrebbe' migliore, e che per tale anelito ha intravisto una strada - la Gioia - ritrovata nell'ascolto di una voce interiore a cui rimanere fedeli. Quelle imperfezioni che sono state spesso imputate al Finale (trattamento sgraziato della vocalità, accozzaglia di stili eterogenei, polittico sonoro di momenti slegati tra loro) assolvono invece nel modo più degno - «si che dal fatto il dir non sia diverso» - a veicolare l'essenza di questi suoni: non una gioia raggiunta al di sopra delle miserie terrene ma 'dentro' tali miserie.

Scarsa coesione? Accozzaglia di stili? È la varietà della vita! Adesso però tale dispersione è tenuta insieme dalla Freudenmelodie la quale, come scrisse giustamente Wagner: «diventa il Cantus firmus, il corale della nuova comunità».

Nel suo saggio su Beethoven Walter Riezler scriveva «nonostante tutta l'opposizione che essa [la Nona] incontrò all'inizio e che ancor oggi trova qua e là, questa sua efficacia è così possente e, soprattutto, così duratura, che può provenire solo da un'opera che deve la sua esistenza non a un capriccio umano, ma ad una qualche misteriosa legittimità».

Effettivamente questa sinfonia ha resistito a molti tentativi di svalutazione; ed ha resistito - bisogna ricordarlo - al suo stesso autore che meditò per qualche tempo di sostituirne il finale con un altro puramente strumentale. Uno sguardo diffidente nei confronti del Finale lo troviamo anche in un recente lavoro di Maynard Solomon che, pur senza scomodare il 'paradiso', vede l'abbraccio universale che vi è vagheggiato come una «unione all'ingrosso», una «spinta pericolosamente regressiva» in cui si vanifica quello che sarebbe il traguardo di una buona evoluzione: il sorgere di un individuo relativamente autonomo.

Sarebbe un discorso troppo ampio da affrontare ma, rimanendo a Beethoven, possiamo osservare che la sua evoluzione non si fermò all'affermazione della propria forte individualità: a quella vittoria schiacciante e orgogliosa che echeggiava nel finale della Quinta Sinfonia e in molti altri finali sinfonici o cameristici di quel periodo. La sua evoluzione - vera evoluzione - lo portò ad un allargamento delle proprie vedute il quale si riflesse nella sua opera in due modi differenti. Cessarono i finali eroici e vennero finali che conducono a lontananze inimmaginabili: le variazioni verso regioni sublimi che concludono le sonate opus 109 e 111, gli strappi brutali che turbano l'Agnus Dei della Missa, la tripla fuga abissale e visionaria dell'Hammerklavier e quella, non da meno, che è la Grande Fuga, in origine finale dell'opus 130.

A fianco a questi finali ne scaturirono altri dal timbro più amabile, radicati nelle gioie semplici della vita quotidiana. Anche questi sono 'il vero Beethoven': la tenerezza domestica del secondo e ultimo movimento della Sonata per piano op. 90, il piglio spiritoso e bonario del Rondò conclusivo della Sonata per piano e violino op. 96 e quello collocato a nuovo finale del Quartetto opus 130. E infine quel finale-corale della sua ultima sinfonia: quel tema così semplice, quell'invito all'abbraccio e all'unione delle moltitudini, quell'accostamento spudorato di stili musicali così eterogenei... Musica indegna di un grande maestro! Come ha potuto 'buttarsi via' in questo modo?

Beethoven nel finale della Nona Sinfonia ha in buona parte 'dimenticato se stesso'. È molto curioso il fatto che il suo brano musicale più popolare sia quello in cui viene meno uno dei tratti più peculiari della sua musica: la profonda coesione organica dell'insieme. La capacità di Beethoven di fondere nella perfezione della forma le strutture musicali e la ricchezza del suo mondo interiore, nel Finale della Nona non arriva a quella parola lapidaria, univoca, quali possono essere considerati i movimenti finali di tutta la sua produzione sinfonica precedente. Perché questo passo indietro? All'epoca della composizione della Nona capolavori come le ultime sonate per piano e le Variazioni Diabelli erano già 'porte spalancate' sugli ultimi quartetti.

È possibile che Beethoven abbia avvertito, anche inconsciamente, che per far risuonare nella sua musica un «bacio» che andasse veramente al «mondo intero», avrebbe dovuto parlare un linguaggio più popolare: un linguaggio in cui le sue personali conquiste sul piano espressivo venissero accantonate. La Gioia di Beethoven-Schiller non doveva essere per una minoranza musicalmente evoluta ma per tutti, e a tale scopo il linguaggio dell'ultimo movimento si è spogliato di quelle pietre preziose conquistate dal suo autore negli anni immediatamente precedenti e si è anche rivestito - va riconosciuto - di una buona dose di istrionismo. Ma non è 'involuzione' questa scelta espressiva, consapevole o inconscia che sia stata. Questa mossa sembra invece nello spirito di un 'passo indietro' rispetto alle proprie potenzialità, per quanto evolute. Forse l'individuo evoluto è quello che di fronte ai suoi simili sa mettere 'tra parentesi' la propria prepotente individualità, la propria spinta all'autonomia, per parlare un linguaggio costruttivo, che forse all'apparenza “vola un po' basso”, ma sappia di maggior apertura.

Dunque accanto alle visioni mirabili, talvolta enigmatiche, degli ultimi quartetti, può tranquillamente vivere la semplicità popolare del Finale della Nona, senza che tale 'passo indietro' sul piano delle scelte espressive faccia pensare a una regressione. Esso è invece un adeguamento - proprio a livello formale - allo spirito più autentico della Gioia.

Viene alla mente il monito evangelico «Chi vuole salvare la propria vita, la perderà, ma chi perderà la propria vita per causa mia, la salverà». Beethoven nel Finale della sua ultima sinfonia ha saputo «raggiungere i cuori» con un linguaggio che anche i più piccoli potessero ascoltare.

Luca Cavaliere

Guida all'ascolto 4 (nota 4)

Per quanto qualche abbozzo rudimentale della «Nona» rimonti al 1815 (in un quaderno di tale anno accanto ai definitivi nuclei tematici della «Sonata in re maggiore op. 102, n. 2 per violoncello e pianoforte» figura un embrione di fuga, il cui germe si convertirà, più tardi, nel tema dello «Scherzo» della sinfonia corale) essa non fu strutturata, nell'attuale forma, che nel 1823, ricevendo gli ultimi ritocchi nel febbraio del 1824. La prima esecuzione ebbe luogo, in Vienna, al teatro della «Porta di Carinzia», il 7 maggio 1824, sotto la direzione di Umlauf, affiancato da Beethoven, già sordo e malaticcio, essendo interpreti, nel Finale, il soprano Enrichetta Sontag, il contralto Carolina Unger, il tenore Haitzinger e il basso Seipelt. Il successo fu strepitoso, ma gli incassi irrisori senza la minima possibilità di alleviare la miseria del maestro.

La Nona sinfonia per ampiezza di forme, precorritrici di nuovi climi musicali, per vigore e gigantismo d'ispirazione, per l'attitudine dello spirito beethoveniano che in essa si solleva in un'atmosfera di sovrano distacco da tutto ciò che è individuale e contingente, s'incurva, realmente, come è stato asserito, come cupola gigantesca sulle ampie navate delle sinfonie precedenti. Tale immagine è efficacemente esatta, solamente se assunta come espressione della preminenza della «Nona» sulle consorelle, ma distoglierebbe la mente dalla vera comprensione del capolavoro, se venisse intesa quale simbolo di elemento conclusivo di tutto l'immenso complesso musicale beethoveniano.

La «Nona», invero, a giudizio dei critici più sensibili ed avveduti, non rappresenta, come afferma il Mila «il coronamento di opere precedenti», ma appare foriera di nuovi regni dell'espressione musicale che avranno ripercussioni non lontane nella produzione sinfonica di Mahler e Bruckner. L'individualismo macerato e dolente del Maestro cede, nella sinfonia, a sentimenti e moti dell'animo, assunti in zone transterrene dove imperano, solamente, valori di modulo universale o religiosi.

Camille Mauclair afferma che «La messa in re» e la «Nona» sono, in tutta l'opera di Beethoven i due conflitti del suo genio con l'incommensurabile», rappresentando le due composizioni «due momenti ciclopici ed eccezionali» per cui «un titano è uscito dall'umanità per fare un passo più avanzatato verso l'Enigma, straordinario, illimitato dell'universo» ed elevandosi «allo smisurato, verso una religione a cui nessun capolavoro umano oserebbe ambire».

I quattro tempi della sinfonia non vanno considerati staccati, ma intimamente collegati, quasi quattro momenti dello spirito umano, inconcepibili senza la dialettica dei rimandi e delle fecondazioni reciproche. Allo stato d'animo tragico ed appassionato corrisponderebbe — secondo il Biamonti — I'«Allegro non troppo, un poco maestoso », al «molto vivace» un momento fantastico e mutevole. L'«Adagio molto cantabile» sarebbe l'espressione di uno stato dell'essere contemplativo ed estatico, mentre l'intervento della voce umana, attraverso la concretezza della parola darebbe sfocio alia gioia, intesa come vincolo ed affratellamento universale tra gli uomini. È noto che l'introduzione della voce umana non ha trovato consenzienti tutti gli uomini di musica. Riserve sull'ultimo tempo furono avanzate dal nostro Verdi e — ciò che è tutto dire — da Mendelssohn che, per quanto di origine ebraica, era munito di sacro ossequio verso tutto quello che era germanico e, più particolarmente, per tutto ciò che apparteneva al regno della creatività beethoveniana. Più d'un critico parlò di forzatura delle voci, trattate strumentalmente (lo stesso Maestro aveva confessato che l'apparizione d'ogni idea musicale assumeva, immediatamente, nella sua fantasia veste strumentale) e pare che il Maestro non fosse rimasto totalmente soddisfatto della sua innovazione se lo Czerny e Sonnleitner assicurano che il Maestro, anche dopo l'esecuzione del 1824, pensava di chiudere la «Nona» con un Finale puramente strumentale.

Il primo tempo, «Allegro, ma non troppo, un poco maestoso» s'apre con le famose quinte vuote sullo sfondo, in pianissimo, di arpe e corni che sembrano provenire da un mondo vacuo ed amorfo (a Nietzsche suggerivano l'immagine del caos primigenio). A poco a poco, quasi con sforzo doloroso che potrebbe ricordare, per analogia, quello, titanico dei prigioni di Michelangelo per sfuggire all'amplesso bruto della materia informe, le sonorità, attraverso un crescendo, si determinano, con foga rapinosa, quasi a vendetta della faticosa gestazione, nell'aspetto preciso del tema principale in re minore. Siffatto tema, gravido di ribellione e sfida contro un destino tragico, è destinato a signoreggiare tutto il primo tempo. Dopo una parentesi, caratterizzata dal fitto divincolio di sonorità dolorose, riemergono le quinte spettrali con i loro guizzi da fuoco fauto, che richiamano per l'equilibrio della dialettica fonica, la riapparizione dell'indomito e ribelle tema principale. Durante lo sviluppo, momenti di mortale angoscia s'alternano a impeti di volontà di resurrezione con interposti, sui legni, frammenti di motivi improntati a pietà consolatoria per il miserabile destino degli uomini. Segue una perorazione in cui spicca l'inesorabile «ostinato» degli archi cui s'innesta, concludendo il primo tempo, il parossistico martellamento del tema fondamentale.

Il secondo tempo, «molto vivace», è uno scherzo che trabocca, con una carica di propulsione ritmica incontenibile, dagli archi ai timpani, martellato all'infinito dalle varie famiglie di strumenti. Siffatto tema viene travolto nella ridda d'una immensa fuga, rianimata, quando a quando, nel suo impulso motorio senza requie, dai sussulti esplosivi dei timpani.

>Emerge dal tessuto sonoro un sanguigno motivo paesano, tipico d'una kermesse da villaggio (vien da pensare alle danze scatenate e grottesche di contadini di Breugel il vecchio), finché l'inesausta vitalità ritmica precipita nel vortice di un «Presto» che «ne scarica quasi istantaneamente la forza viva, per introdurre — nota il Biamonti — nell'atmosfera di assoluta limpidità» del Trio che evoca, con le sue preziosità, incanti di paesaggi agresti e di pace rasserenante.

Il bacchico impulso ritmico si rigenera, ancora una volta, spazzato via da un'improvvisa interruzione con la quale il secondo tempo è concluso. Il terzo tempo, «Adagio molto e cantabile» ci trasporta, addirittura, in un'atmosfera trascendentale, remota dalla contingenza terrena; qui l'ispirazione fluisce allo stato naturale, purificata da ogni scoria e totalmente trasfigurata in sublime poesia. Il tempo inizia con una melodia, religiosamente raccolta, risonante, a mezza voce, sul timbro ombroso degli archi, cui fanno eco clarinetti, fagotti e corni che della melodia, però, sussurrano i soli frammenti terminali. Alla prima melodia ne sussegue una seconda, sui violini secondi e viole, dal tono più intenso e dalla linea più rilevata che esprime calma e distensione interiori, il gaudio proprio di un'anima rifugiata in zone inaccessibili ai turbamenti umani. Due tentativi in effetti di disturbo brutale (dovuti al risonare nella parte mediana del tempo di minacciose fanfare dei fiati) non riescono a dissipare l'atmosfera di orante fervore che caratterizza l'«Adagio» il cui flusso, attraverso libere variazioni dei due temi, continua ininterrotto fino alla smorzatura pacata della chiusa. Poche misure precipiti ed esplosive dei fiati e timpani, nel Finale, fanno da introduzione a un recitativo dei contrabbassi e violoncelli cui rispondono alcune battute riassuntive dei tre tempi precedenti, respinti, impetuosamente, ogni volta, dalla frase perentoria degli archi bassi. Sugli stessi contrabbassi e violoncelli, risuona, sussurrato a mezza voce, quasi per essere più intimamente assaporato, il tema della gioia, spinto fino all'incandescenza, specie quando si ripercuote sui fiati, nella successiva elaborazione orchestrale. Nel silenzio dell'orchestra, in una atmosfera gravida d'attesa, tuona, poi la voce del basso invitante a «nuovi e più gioiosi accenti» espressi subito dopo, sulla stessa linea melodica degli archi bassi, con le strofe dell'ode di Schiller, «Alla gioia», invocata come liberatrice di ogni angoscia, sollievo ad ogni male e quale divina effulgurazione dell'Eliso in terra. Siffatte strofe vengono, poi, riprese dal coro e dal quartetto di voci con impeto sempre più ebbro e trascinante, seguite da un intermezzo strumentale, «Allegro assai vivace, alla marcia» risonante sui fiati, sostenuti dai ritmi esotici «turchi» di grancassa cimbali e triangoli sul cui motivo la voce del tenore inneggia alla fraternità degli uomini, invitati, in un raptus d'entusiasmo, a percorrere il cammino della vita, come «gli astri percorrono le smisurate aree dei cieli».

All'intermezzo s'innesta il coro con le stesse parole.

Dopo un dinamico episodio strumentale e dopo una nuova ditirambica scansione delle prime strofe dell'ode, il coro, dimettendo la foga irrefrenabile dei suoi accenti, si distende in suoni allungati, esprimenti prosternazione adorante sulle parole « - Siate avvinte o turbe - Amore abbraccia il mondo intero - Prosternatevi o turbe - Senti il Creatore - O Mondo? Cercalo sopra la volta celeste - Egli deve abitare sopra le stelle».

L'ulteriore sviluppo ed articolazione del «Finale» è affidato alle entrate dei solisti e dell'insieme corale che, ora, s'abbandonano al vortice di un delirio collettivo, ora s'allentano in momenti di rapita contemplazione finché, dopo un improvviso blocco su una cadenza, le voci, «stringendo il tempo», sfociano, in un avvitamento mulinante, nel «Prestissimo», la cui veemenza, esaltata dal tumulto conclusivo dell'orchestra, potrebbe, veramente, far pensare — come qualcuno ha detto — ad un rito d'iniziazione bacchica.

Vincenzo De Rito


(1) Testo tratto dal programma di sala del Concerto dell'Accademia di Santa Cecilia,
Roma, Auditorium Parco della Musica, 26 Aprile 2008
(2) Testo tratto dal Repertorio di musica sinfonica a cura di Piero Santi, Giunti Gruppo Editoriale, Firenze, 2001
(3) Testo tratto dal programma di sala del concerto inaugurale di Serate Musicali-Milano, stagione 2015/16,
Milano, Sala Verdi del Conservatorio, 5 ottobre 2015
(4) Testo tratto dal programma di sala del Concerto del Maggio Musicale Fiorentino,
Firenze, Teatro Comunale, 17 novembre 1973

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Ultimo aggiornamento 30 gennaio 2020