Sinfonia n. 7 in la maggiore, op. 92


Musica: Ludwig van Beethoven (1770 - 1827)
  1. Poco sostenuto - Vivace
  2. Allegretto (la minore)
  3. Presto (fa maggiore)
  4. Allegro con brio
Organico: 2 flauti, 2 oboi, 2 clarinetti, 2 fagotti, 2 corni, 2 trombe, timpani, archi
Composizione: Vienna, 13 Maggio 1812
Prima esecuzione: Vienna, Sala dell'Università, 8 Dicembre 1813
Edizione: Steiner, Vienna 1816
Dedica: conte Moritz von Fries
Guida all'ascolto 1 (nota 1)

La Settima Sinfonia nasce fra l'autunno 1811 e il giugno 1812, in comunione con l'Ottava e con le musiche di scena per "Le rovine di Atene" e "Re Stefano" di Kotzebue. La prima esecuzione pubblica fu organizzata l'8 dicembre 1813 nella sala dell'università di Vienna in una serata a beneficio dei soldati austriaci e bavaresi feriti nella battaglia di Hanau dell'ottobre precedente: il concerto comprendeva anche due Marce di Dussek e di Pleyel e, dello stesso Beethoven, la Sinfonia "a programma" La battaglia di Vittoria, scritta per celebrare la vittoria di Wellington contro i francesi: opera che, come è stato tramandato non senza una punta di delusione, sconfisse risolutamente ogni altra pagina in quanto a considerazione e accoglienze da parte del pubblico.

Non sarebbe giusto tuttavia tacciare di superficialità i viennesi che lì per lì, sotto l'urgenza dello stimolo patriottico, sembrarono preferire il lavoro occasionale all'opera immortale; per altro, già da quella prima esecuzione, il secondo movimento della Settima, il celebre Allegretto, ottenne un successo strepitoso e se ne dovette dare il bis, circostanza che poi si sarebbe ripetuta in tutte le frequenti esecuzioni dell'opera ancora vivo Beethoven.

L'aspetto estroso, ai limiti della stravaganza, fu uno degli elementi più avvertiti dal gusto del tempo: non solo un arcigno come Friedrich Wieck (il padre di Clara Schumann) percepiva nell'opera la mano di un ubriaco, ma anche un apostolo romantico come Weber individuò eccessi oltre i quali non era più lecito spingersi (più tardi però, nel 1826, doveva dirigerne un'ammirata edizione a Londra); anche la parigina "Revue Musicale", dopo una esecuzione del 1829, in cui l'Allegretto fu regolarmente replicato, giudicava il finale «una di quelle creazioni inconcepibili che hanno potuto uscire soltanto da una mente sublime e malata». Anche l'esaltazione della Settima fatta da Wagner sarà il capovolgimento di queste censure contro la stravaganza e l'eccesso: «coscienti di noi stessi, ovunque ci inoltriamo al ritmo audace di questa danza delle sfere a misura d'uomo. Questa Sinfonia è l'apoteosi stessa della danza., è la danza, nella sua essenza più sublime». Danza quindi come sublimazione di una essenza ritmica, che percorre tutta l'opera in un graduale e costante crescendo d'intensità metrica, da una lenta messa in moto fino al massimo dell'eccitazione.

Non meno esaltante è quindi la strategia complessiva dimostrata da Beethoven nel maneggio di formule e vocaboli spinti all'incandescenza espressiva. Il Poco sostenuto introduttivo si richiama alle ultime Sinfonie di Haydn, alla K. 543 di Mozart, alle Sinfonie n. 1, 2 e 4 dello stesso Beethoven: la sua trasformazione nel Vivace, attraverso la microscopìa di una sola nota ripetuta, è una di quelle invenzioni irripetibili che non consentono altri sfruttamenti, e infatti Beethoven non scriverà più introduzioni lente in questo spirito.

Nel Vivace che se ne sprigiona la continuità ritmica è talmente costante che vengono cancellati i confini tradizionali fra temi principali e secondari; anche la consueta ripartizione di esposizione-sviluppo-ripresa diventa un punto di riferimento secondario rispetto all'unicità dello slancio vitale.

Incorniciato da due accordi degli strumenti a fiato in la minore, l'Allegretto è in forma ternaria, con uso di variazioni e scrittura fugala come nella Marcia funebre dell'Eroica: tiene il posto dell'Adagio o dell'Andante tradizionale, e trasfigura il pathos della confessione in una melanconia distaccata e come lasciata in sospensione dalla pulsazione ritmica anche qui inarrestabile (un dattilo seguito da uno spondeo), che non si interrompe nemmeno nel dolcissimo intermezzo in tonalità maggiore. Nel Presto l'accelerazione ritmica riprende il sopravvento, appena arginata da un Trio (derivato, a quanto pare, da un canto popolare di pellegrini che tuttavia assume qui scoperti caratteri marziali) intercalato due volte, come nella Quarta Sinfonia, al movimento principale; e tuttavia non c'è vero contrasto, perché il Presto si conclude ogni volta su una nota, un La, che resta tenuto e immobile per tutta la durata del Trio; accorgimento, come ha notato l'orecchio finissimo di Fedele d'Amico, «che finisce col costringerci a guardare il Trio, per così dire, dal punto di vista del Presto»; in altre parole, quel La tenuto non disperde l'energia ritmica ma la trattiene e la prepara a una nuova corsa. Il finale, Allegro con brio, il cui tema principale Beethoven aveva già usato nella trascrizione di un canto popolare irlandese, riassume e porta a conclusione tutti quegli aspetti trascinanti, bacchici, messi in luce da Wagner, ai quali nemmeno il gusto moderno, passato attraverso nuovi scatenamenti, riuscirà mai a sottrarsi.

Giorgio Pestelli

Guida all'ascolto 2 (nota 2)

Con la Settima Sinfonia in la maggiore è l'idea di armonia, di «gioia», che conquista Beethoven. Dopo gli impeti bellicosi della Quinta l'uomo pare raggiungere una nuova compiuta consapevolezza nei riguardi dell'universo, quasi una presa di coscienza nel senso di una rinnovata e ideale sintonia di fronte alle sue leggi eterne.

Terminata nel 1812, cinque anni dopo la Sesta, la Settima venne eseguita sotto la direzione del compositore all'Universitätssaal di Vienna durante un concerto benefico a vantaggio dei soldati austriaci e bavaresi feriti nella battaglia napoleonica di Hanau. Il concerto fu accolto in modo entusiastico dal pubblico e l'esecuzione fu giudicata eccellente, anche in virtù del fatto che vi avevano collaborato i maggiori strumentisti residenti a Vienna nel periodo.

Richard Wagner, colpito dall'elemento ritmico che, incessante, pervade l'intera partitura, cosi la definì: «Questa sinfonia è l'apoteosi della danza. È la dama nella sua massima essenza, l'azione del corpo tradotta in suoni per così dire ideali».

Che la danza ed il ritmo penetrino in ogni settore della composizione è del tutto vero; il ritmo ne diviene categoria generatrice: dà forma ad incisi ed idee, innerva e vivifica la melodia, trasforma plasticamente i temi. Ma anche accelera i cambi armonici, concentra o disperde i motivi tra le varie fasce timbriche, sostiene e sospinge vigorosamente le dinamiche in espansione.

Come si era verificato per la Prima, la Seconda e la Quarta Sinfonia, un'Introduzione lenta precede ed avvia l'Esposizione. Si tratta di una pagina di ampio respiro (tempo Poco sostenuto), la più estesa mai scritta da Beethoven.

All'inizio ai secchi accenti dell'orchestra i fiati oppongono il loro dolce canto, mentre gli archi disegnano un leggero e staccato moto scalare ascendente. Un'atmosfera satura, carica di attesa, accoglie l'ascoltatore ed i suoni paiono i segni premonitori di un evento. Poi lo stesso movimento di semicrome esplode d'improvviso in una fragorosa e partecipata enunciazione. Sulla sua scia sonora, che lentamente si spegne, l'oboe intona una delicata frase bucolica ed i violini la riprendono, prima che di nuovo l'orchestra prorompa, ed ancora più fragorosamente. È un clima selvaggio e aurorale, quello che magistralmente va dipingendo Beethoven, fatto di scosse decise e di curve rassicuranti, di tensioni e di distensioni.

La frase agreste torna, ma si infrange sui fortissimo orchestrali della Coda. Infine l'orchestrazione si dirada, il ritmo rallenta ed un pronunciato esitare sulla nota mi segnala la fine di ogni indugio. È l'annuncio che si aspettava, l'avvio vero e proprio della Sinfonia.

Proprio nella Coda l'accenno al principio della nota puntata corrisponde ad una anticipazione dello scalpitante primo tema. Il valore della continuità nell'unità interessa tutti i tasselli della forma-sonata che Beethoven va costruendo. Anche il secondo gruppo è derivato ritmicamente dal primo, così come pure nell'Epilogo riemerge la figura metrica del primo tema. Persino frasi, o piccole parti, paiono sintonizzarsi e rendersi compatibili con questo carattere ritmico, come avviene nell'inciso di collegamento in apertura di Sviluppo o in prossimità della Coda conclusiva.

La poetica del gioco è un altro elemento costante e ricorrente. Nella Ripresa, ad esempio, dopo che il primo motivo è tornato regolarmente, interviene una significativa variante: al culmine del crescendo c'è un repentino cedimento con fermata su corona, sospensione e risoluzione evitata; ma il tema non si è dileguato, semplicemente riappare del tutto trasformato e filtrato in una luce serena e leggiadra. Si tratta solo di un esempio dell'arte della variazione che, costantemente, affiora da queste pagine beethoveniane.

L'Allegretto è in forma di canzone ternaria. Non si è ancora dissipata la trasparente risonanza dell'accordo di la maggiore, con cui si era chiuso il tempo precedente, che i fiati precipitano su di una cupa armonia di la minore.

Il contrasto violento di colore è un invito a voltar pagina, a passare ad altro, senza il quale non sarebbe stato possibile cogliere con la stessa immediatezza il cambio di temperie emotiva. Un tema fioco e sommesso è esposto nel registro grave dagli archi. Passa ai violini secondi, mentre gli si sovrappone un tenue controcanto di viole e di violoncelli. Quando sale ai violini primi e secondi è una linea ancora triste, ma limpida e trasparente. Infine si estende al tutti compatto in un vibrante fortissimo. Da misterioso qual era, il tema è ora divenuto un solenne canto di preghiera.

La parte centrale è una parentesi tranquilla e disimpegnata. Vede i fiati dialogare serenamente in ameni scambi e giochi d'eco e lascia presto il posto alla Ripresa della prima sezione. Qui il tema iniziale si ripresenta già diversamente rispetto alla prima sezione in un sordo pizzicato ai bassi, mentre il controcanto risuona ai fiati ed i violini realizzano cesellate figure in arpeggiato. Tuttavia si presagisce che qualcosa ancora deve cambiare: l'armonia, infatti, ancorata ad un lungo pedale di tonica, si fa increspata nell'insistito ritmare al basso, cosa che induce ad un diffuso senso di inquietudine. Beethoven rivela la sua spiccata vocazione teatrale e decide di produrre tensione all'interno dei gruppi strumentali: si apre cosi uno splendido fugato sul tema iniziale (il cui controsoggetto è la variazione del controcanto) che via via viene notevolmente esteso ed amplificato.

L'irruzione del Presto rinnova il vitalismo del primo movimento. Beethoven ricorre qui ad un uso massiccio della ripetizione: può interessare incisi o singoli frammenti, così come diramarsi alle strutture portanti ed influenzare la grande forma. Già il tema di apertura, scattante e brioso, è costruito sul principio di iterazione ritmico-melodica. Ma anche il meccanismo di elaborazione tecnica che il materiale subisce poco dopo, l'imitazione, è pure una forma particolare di ripetizione, così come la riproposta del tema principale alla coppia oboe-flauto e la sua amplificazione all'intero organico. Se si estende il raggio di osservazione tale principio si allarga alle sezioni: dopo che si è aperta una tranquilla zona centrale, Assai meno presto (un delicato Trio di carattere arcadico), c'è una prima Ripresa dello Scherzo ed una del Trio stesso, però duplicate in una seconda Ripresa dello Scherzo ed ancora del Trio accorciato in funzione di Coda.

Il Finale della Settima, l'Allegro con brio fu cosi definito da Wagner: «Con una danza agreste ungherese [Beethovenj invitò al ballo la natura; chi mai potesse vederla danzare crederebbe di vedere materializzarsi di fronte ai suoi occhi un nuovo pianeta in un immenso movimento a vortice». E di festa di suoni bisognerebbe parlare già all'ascolto del primo tema, variopinta girandola sonora cui seguono la scoppiettante fanfara dei fiati ed il ritorno del tema stesso variato ed imitato. Dopo il secondo gruppo, scattante e vivace e l'Epilogo, lo Sviluppo ripresenta il primo tema in chiave scura e greve, poi lo prosegue schiarito nella limpida tonalità di do maggiore. Si fa più volte ricorso ad accorgimenti ed artifici: ancora nello Sviluppo, dopo un veloce e trafelato episodio di progressione armonica, una vistosa cadenza a fa maggiore introduce un'anticipazione del primo tema nella voce del primo flauto, ma «spostata» a si bemolle maggiore.

Ben si comprende come si tratti di una simulazione di Ripresa. Quest'ultima interviene invece «regolarmente» poco dopo con la citazione dell'intero materiale tematico contenuto nell'Esposizione, questa volta nel tono d'impianto.

Marino Mora

Guida all'ascolto 3 (nota 3)

Fra il compimento delle Sinfonie quinta e sesta e quello della settima passarono circa quattro anni, durante i quali Beethoven compose fra l'altro i due Trii op. 70, il Trio op. 97, la Sonata per pianoforte op. 78 e quella op. 81a (detta L'adieu, l'absence et le retour), il Quartetto op. 74 e quello op. 95, il Quinto Concerto per pianoforte e orchestra, le musiche di scena per la tragedia Egmont di Goethe. La Settima Sinfonia fu probabilmente stesa nell'inverno 1811-12, certo era compiuta in maggio; ma le sue prime idee risalgono a vari anni addietro: alcuni dei suoi abbozzi sono mescolati, nei taccuini di Beethoven, ad appunti relativi al Quartetto op. 59 n. 3, che fu compiuto nel 1806. Fu eseguita per la prima volta oltre un anno e mezzo dopo il suo compimento, l'8 dicembre 1813, in un concerto all'Università di Vienna organizzato da Malzel (l'inventore del metronomo e di cento altri congegni d'orologeria musicale e affini) a beneficio dei soldati austriaci e bavaresi feriti alla recente battaglia di Hanau (30-31 ottobre).

II concerto era una manifestazione patriottica; e il suo pezzo forte non fu la Settima bensì un pezzo "militare" in due parti composto da Beethoven in ottobre per celebrare il trionfo di Wellington sull'esercito francese in Ispagna, presso la città di Vitoria, il 21 giugno, e appunto intitolato Wellington Sieg bei Vitorìa, cioè La Vittoria di Wellington a Vitoria (inutile spiegare che l'involontaria freddura è solo della traduzione). Della partitura di questo pezzo facevano naturalmente parte ordigni fabbricati da Malzel, che imitavano le cannonate. I primi musicisti di Vienna parteciparono alla sua esecuzione: ai "cannoni" erano Salieri (che conosciamo come uno degl'insegnanti di Beethoven) e il pianista-compositore Kummel, alla grancassa era il giovane Meyerbeer, primo violino era Schuppanzigh, e fra gli altri violini era Spohr, compositore assai ragguardevole e futuro direttore d'orchestra di primissimo ordine. E il successo fu strepitoso: con nessun'altra delle sue partiture Beethoven ottenne in vita tanti applausi. Il concerto intero (che comprendeva anche due marce di altri compositori) fu ripetuto quattro giorni dopo, con incasso eccezionale.

Tuttavia anche la Settima Sinfonia, che lo concludeva, fu ammirata. Il pessimismo sul gusto dei pubblici che potrebbe nascere considerando il non immeritato oblio in cui oggi è lasciata la Vittoria di Wellington, tanto ammirata allora, può essere equilibrato da una considerazione opposta: che il secondo tempo della Settima, quell'Allegretto che oggi è da tutti stimato una delle più stupende creazioni di tutta la musica, fu immediatamente compreso e portato alle stelle. Se ne dovette infatti dare il bis, come poi tornò ad accadere per molti anni quasi dovunque la Settima fosse eseguita. Quanto alla Sinfonia nella sua integrità, incontrò come le altre qualche opposizione nei particolari; ma il suo successo complessivo è indubitato, e tra l'altro attestato dal fatto che nel 1816 se ne pubblicarono, insieme con la partitura, ben sei trascrizioni diverse (per banda, per quintetto, per trio, per pianoforte a quattro mani, per due pianoforti, per pianoforte solo).

La Settima Sinfonia non esprime un dramma nel senso in cui lo esprime la Quinta; ma tuttavia non si trova davvero nella situazione della Pastorale, il cui assunto è puramente idillico, e perciò radicalmente estraneo ad ogni idea drammatica (a meno che non si voglia chiamar drammatico il contrattempo d'una festa all'aperto interrotta da un acquazzone). Nella Settima il dramma vero e proprio è come in un antefatto; ma un antefatto le cui vibrazioni sono immanenti nel discorso ch'essa svolge ora dinanzi a noi. È come se le conquiste compiute nella Quinta (oltre che in tante opere di musica da camera o per pianoforte) si fossero tradotte in uno stato d'animo: in una fremente esaltazione delle energie vitali che l'esperienza del "dramma" aveva scatenato. Se dunque per dramma s'intenda, come per la Quinta, un conflitto fra principi avversi che, posto all'inizio della sinfonia, sia risolto alla fine, non lo troveremo nella Settima; vi troveremo però un linguaggio drammatico, un'animazione che ripropone il contrasto al livello d'un gioco psicologico continuo di azioni e reazioni che non sono più la dialettica fra il fato e l'uomo, fra il male e il bene, fra la materia e lo spirito, bensì quella dialettica fra luce e ombra, fra tensione e riposo, ch'è insopprimibile alla vita interiore. E che nel nostro caso si trova lanciata nella scia di una vittoria: quando il dramma fra il male e il bene è stato preventivamente risolto in favore del bene, cioè della positività della vita.

Dunque il primo tempo della Settima, diversamente da quello della Quinta, non pone i termini d'un conflitto che il quarto risolverà: avvia invece una specie di vortice che il quarto tempo non "concluderà" bensì porterà al parossismo. In questo senso va interpretata la famosa definizione che Wagner dette di questa sinfonia: "l'apoteosi della danza". In questa definizione c'è ben più che una vaga suggestione poetica. Danza, dal punto di vista musicale, è infatti una composizione il cui genere si definisce non tanto dalla sua forma quanto dal metro, cioè da quel determinato ritmo che la percorre costantemente. Ora è vero che le forme, nella Settima, sono quelle sinfoniche, che ben conosciamo; ma è anche vero che qui contano meno del divenire ritmico generale. Non tanto abbiamo un sistema di temi contrapposti quanto una loro varietà che si rileva su una continuità di fondo: una continuità, appunto, ritmica, che parte da un minimo per arrivare a un massimo di animazione.

Lenta perciò è la messa in moto. Il primo tempo è preceduto da un'introduzione (Poco sostenuto), la più lunga che Beethoven abbia mai composto, e che possiede una sua forma ben definita, non ha tono di improvvisazione. Si fonda infatti su due temi, il primo scandito in valori larghi, di compressa energia, il secondo tenero e grazioso; ma quel che più conta per il divenire del pezzo è una scala in quartine di semicrome, "staccato", che collega l'uno all'altro, e fissa soprattutto un sottofondo ritmico. Infatti questa scala, sempre mantenendo le quartine, a un certo punto cessa di essere una scala per fissarsi su una sola nota, ribattuta a perdita di vista. Ed ecco, quando l'orecchio si è ormai intonato su questa nota (che è mi, la dominante del tono di la maggiore), il ritmo insensibilmente muta, mentre dal canto suo il timbro va trascolorando, nel pianissìmo, dai legni ai violini e viceversa. Flauti e oboi infine si consolidano, sempre su quella nota, in un metro formato da una battuta in sei ottavi costituita da due terzine identiche (croma puntata - semicroma - croma). Senza accorgercene siamo entrati nel Vivace, cioè nel primo tempo propriamente detto, dove quel metro sarà la base di tutto, rendendo praticamente irrilevante la distinzione fra primo e secondo e terzo tema. E il discorso si aprirà a innumerevoli prospettive; ma sarà un discorso unico, dominato da un'unica, rattenuta tensione, di cui ora ci scoprirà un aspetto, ora un altro, ora aprendosi ad abbandoni quasi canori, ora aggrovigliandosi nelle maglie di complesse rifrazioni armoniche. Il che avviene per esempio in un originalissimo frammento della coda, in cui su un tormentato ostinato dei bassi i violini tentano, quasi balbettando, un loro disegno melodico che li porterà a ritrovare il ritmo fondamentale del pezzo.

Significativa caratteristica di questa Sinfonia (come dell'Ottava) è l'assenza d'un tempo propriamente lento: il suo assunto non tollera un pathos dichiarato, e il luogo dell'Adagio o dell'Andante è preso da un Allegretto. Dal che s'intende quanto grave sia l'errore, tuttora diffuso, di quei direttori che a questo tempo impongono un movimento lento, trasformandolo in una sorta di marcia funebre.

L'allegretto della Settima non costituisce rispetto agli altri tempi un contrasto reale, è solo un episodio fra i tanti. Ma riceve uno spicco particolare dalla sua andatura immateriale, da quel suo librarsi in una sorta di stratosfera della coscienza; l'ingresso alla quale (e l'uscita dalla quale) è simboleggiato dall'accordo degli strumenti a fiato che lo apre e lo chiude. La stessa malinconia che sembra aver presieduto alla sua nascita è solo un antecedente, ormai risolto in un lirismo che la trascende in una contemplazione del tutto rasserenata.

L'Allegretto è articolato in forma-Lied secondo uno schema A-B-A'-B'-A". La sezione A, dopo l'accordo che s'è detto, consiste in una melodia in la minore di ventiquattro battute che è enunciata quattro volte di seguito, ma che solo a partire dalla seconda volta assume i suoi connotati definitivi; ad ogni ritorno la veste strumentale si arricchisce, fino a comprendere tutta l'orchestra (all'inizio, erano solo viole, violoncelli e contrabbassi, "piano"). B è una melodia in la maggiore intonata dai legni, che infine modula in do maggiore per ricondurre al tono di la minore. A' è un ritorno della melodia principale (A) seguita da uno sviluppo della medesima in stile fugato; B' un ritorno abbreviato di B, A" è la conclusione, basata sul tema principale ora enunciato, frammento per frammento, da gruppi strumentali diversi, sempre in pianissimo.

Questa la forma del pezzo, molto semplice; ma anche qui, il fatto più rilevante è la continuità ritmica. La melodia di A deve la sua fisionomia inconfondibile a un metro caratteristico costituito dalla successione di due battute, la prima scandita in due semiminime, la seconda in una semiminima seguita da due crome: abbiamo dunque, in termini di metrica classica, un dattilo seguito da un spondeo. E questo ritmo percorre tutto il pezzo, compresa la sezione B; la cui melodia, abbandonata su un accompagnamento di molli terzine degli archi, si rileva pur sempre su un basso che ripete il metro dattilico senza abbandonarlo un istante.

Il principio della continuità sussiste, in qualche modo, anche nel successivo Scherzo. Questo Scherzo (in fa maggiore, col Trio in re maggiore) riprende l'innovazione che abbiamo visto in quello della Quarta Sinfonia: cioè una seconda apparizione del Trio dopo la ripresa della prima parte, seguita da una ulteriore ripresa di questa in fine (dunque A-B-A-B-A in luogo del tradizionale A-B-A). Qui il Trio ha carattere molto diverso dell'accaldato "presto" che costituisce la prima parte: è una distesa melodia (in tempo "assai meno presto") che deriva, a quanto pare, da un canto popolare di pellegrini. Dunque il principio della continuità ritmica, letteralmente parlando, parrebbe sostituito da quello del contrasto. Ma in pratica le cose non vanno così perché il "presto" si conclude, ogni volta, con una nota tenuta dai violini (un la), che durante tutto il corso del Trio i violini non abbandoneranno più se non per passarla ad altri strumenti; e questa nota finisce col costringerci a guardare il Trio, per così dire, dal punto di vista del "presto" da cui essa proviene. Sì che il Trio ci si presenta come un suo interno indugio, una sua parentesi, non come qualcosa che gli opponga un contrasto.

Il finale, come s'è già inteso, è il culmine della Sinfonia, il luogo in cui gl'impulsi posti nel primo tempo, e variamente avviati negli altri due, arrivano al dispiegamento più violento, a un'esaltazione dionisiaca. Il suo carattere è determinato soprattutto dal primo tema, che Beethoven aveva già usato nella sua trascrizione d'un canto popolare irlandese, ma in altra forma. Questo tema è come un seguito di scosse che percorrano una folla trascinandola al tumulto: i temi secondari (dei quali quello, sfacciatamente chiassoso, che risponde immediatamente al primo tema, è tratto da un canto popolare russo) sono come ingoiati nel suo gorgo ascendente. Nel quale d'altronde sembra sboccare l'intera Sinfonia, anche perché molte idee ritmiche e armoniche dei tempi precedenti vi riappaiono, a un grado di esaltazione maggiore: esempio tipico quella lunga linea cromatica dei bassi che serpeggia a lungo prima della conclusione mentre i violini e le viole si rimandano a vicenda, freneticamente, i frammenti del tema, con un procedimento che ha lo stesso senso di quello che abbiamo ricordato per la conclusione del primo tempo.

Fedele d'Amico

Guida all'ascolto 4 (nota 4)

Qattro anni separano la Settima dalla Sesta Sinfonia ed in questo arco di tempo la creatività beethoveniana, protesa alla sperimentazione di un più aggiornato linguaggio espressivo ed al raggiungimento di nuove dimensioni formali, s'era principalmente impegnata nella produzione cameristica.

La prima intenzione dell'idea di Beethoven di scrivere quella che diverrà la Settima Sinfonia è rinvenibile in un appunto vergato sui suoi Taccuini del 1808, ma il primo abbozzo di un inciso tipico di quest'opera lo si può rinvenire ancor due anni prima, negli schizzi relativi al Quartetto in do maggiore op. 59 n. 3, con la precisa delineazione del caratteristico disegno ritmico dell'Allegretto.

La cura profusa da Beethoven nella genesi della Settima indurrebbe a verificare nella partitura l'intreccio sugli impasti timbrici, nella convinzione che l'organico della Sinfonia risulti assai più nutrito che nei precedenti lavori: ma in realtà si scopre il contrario. Nella Settima infatti Beethoven priva l'organico dell'ottavino, del trombone, del controfagotto, sviluppando, per contro, la parte dei fiati (soprattutto dei corni) per produrre sonorità più ampie in un registro acuto mai fino ad allora raggiunto. Man mano che procedette alla stesura della Settima, apparve evidente l'intento di Beethoven a semplificare e concentrare i mezzi espressivi, oltre ad esibire uno sconvolgente magistero orchestrale nell'articolazione del Finale rispetto al tradizionale schema della forma-sonata.

Composta fra l'autunno del 1811 ed il giugno 1812, la Settima Sinfonia fu conosciuta la prima volta l'8 dicembre 1813 nell'Aula Magna dell'Università di Vienna nel corso d'un concerto organizzato da Malzel (l'inventore del metronomo) per raccogliere fondi a favore dei soldati austriaci feriti nella battaglia di Hanau, che l'esercito confederale aveva combattuto contro i francesi nel tentativo di tagliare la ritirata a Napoleone dopo la disfatta di Lipsia. Nella medesima serata vennero eseguite due marce militari di Dussek e di Pleyel e, ancora di Beethoven, la Vittoria di Wellington o la battaglia di Vitoria, a celebrazione dei successi in terra di Spagna sulle truppe francesi da parte degli inglesi. Toccò singolarmente a quest'ultimo lavoro, che era un pastiche di effetti onomatopeici e di inni nazionali, il maggior successo dell'intero concerto mentre l'esecuzione della Settima passò quasi inosservata.

L'introduzione (Poco sostenuto) è di largo respiro ed organicamente collegata al prosieguo del primo movimento, ricusando qualsiasi funzione decorativa di preambolo in quanto esibisce fin dal principio la solare esaltazione della gioia che permea, del resto, il Vivace e, dopo l'apparente diversivo dei due tempi centrali, ricompare poi nel Finale. Si individuano nell'introduzione due elementi fondamentali, identificabile il primo nel tema iniziale che trascorre dall'oboe agli altri fiati, sottolineato dagli accordi in staccato della piena orchestra in cui l'ascesa di poderose scale tende a sfociare nella splendente luminosità del forte; mentre il secondo soggetto viene ad identificarsi nella cellula ritmica scandita dai legni, imponendo, per semplice legge di contrasto, una sfumata impressione di penombra che accentua l'articolazione chiaroscurata del movimento iniziale. Dopo una geniale transizione, realizzata con un graduale passaggio ritmico, si ascolta lo svolgimento del Vivace che si basa più su un gioco di continue tensioni e distensioni armoniche, di repentine alternanze di volumi sonori, di vertiginosi mutamenti di timbro e registro, che non sulle abituali contrapposizioni dialettiche dei soggetti motivici. Tutto l'interesse viene a concentrarsi sulla vitalità ritmica della musica, accentuata dalla varietà tonale e coloristica, mentre l'incalzante pulsare di questo ritmo domina anche lo sviluppo, nell'alternarsi tra archi e fiati, ora ingigantendosi nelle cadenze, ora frammentandosi in altre figure, per ricomporsi sempre compatto e condurre la musica alla ripresa. Anche la Coda ribadisce l'energia di movimento e l'essenza melodica del materiale tematico.

Un accordo di la minore per i fiati apre, e infine conclude, l'Allegretto, che è uno dei movimenti più amati ed ammirati della produzione sinfonica beethoveniana e si fonda quasi integralmente su di un solo modulo ritmico, la cui funzione discorsiva resta  sempre prevalente su qualsiasi altro parametro musicale. Tale movimento non è davvero una "marcia funebre", come fu sostenuto da alcuni esegeti, pur se il suo clima espressivo appare pervaso da quell'indefinibile senso di mestizia e da quegli accenti serenamente trasfigurati che si troveranno, alcuni anni più tardi, nelle scansioni ritmiche del Lied schubertiano La morte e la fanciulla. Dal Rietzler al Rolland, vari studiosi si sono soffermati a considerare le ascendenze anche lontane del pulsare ritmico della Settima, accostando ad esso stilemi di danza e figure ritmiche dell'antichità classica. Ad accrescere il fascino e le seduzioni di questa musica contribuisce anche la cantabilità melodica, intessuta di passione sconsolata, del soggetto principale che si propaga gradatamente a tutta l'orchestra, raggiunge il climax espressivo della piena sonorità e poi decresce e muore. Subentra nei fiati una melodia, sorretta dal ritmo originario, mentre, poco innanzi, è l'idea principale a ricomparire ancora tracciando la sua parabola sempre nel canto dei fiati. Uno sviluppo fugato conduce all'estrema e più marcata celebrazione ritmica, poi tutto sembra dileguarsi, con un procedimento di rarefazione simile a quello esperito dallo stesso Beethoven alla conclusione della Marcia funebre dell'Eroica.

Lo Scherzo (Presto) appare modellato sul consueto schema instaurato ormai dall'autore dopo la Seconda Sinfonia, nell'alternarsi e susseguirsi di piccoli incisi melodici, giochi ritmici e modulativi, improvvisi furori delle varie sezioni strumentali, mentre nel Trio sembra cogliersi l'eco di un motivo di canto popolare religioso dell'Austria meridionale, e tale elemento funge da ritornello della melodia d'assorta e serena compostezza (Presto meno assai) ma anche di sensibilissimo afflato lirico.

Il Finale (Allegro con brio) si riallaccia all'incalzare gioioso e all'estatica esaltazione ritmica del primo movimento, imprimendo alla musica un andamento vorticoso. Preannunciato da una marcata pulsazione metrica, l'ultimo movimento della Settima irrompe con un soggetto danzante da cui l'inventiva dell'autore prende subito il volo per prodigarsi in un frenetico tripudio di spunti motivici, partendo dal cupo, quasi indistinto mormorio dei bassi per crescere man mano e coinvolgere da ogni parte tutti gli impulsi di slancio e di ascesa, per farli confluire nel vortice fiammeggiante della perorazione conclusiva. L'appello ritmico, ribadito due volte all'inizio, provvede poi imperiosamente a recidere l'atmosfera incantatoria della Settima, dopo averne riaffermato, ancora una volta, tutto il suo luminoso ed impareggiabile splendore.

Luigi Bellingardi

Guida all'ascolto 5 (nota 5)

La Settima Sinfonia nasce tra l'autunno 1811 e il giugno 1812, contemporaneamente all'Ottava e alle musiche di scena per Le rovine d'Atene. La prima esecuzione pubblica, sotto la direzione di Beethoven, fu organizzata l'8 dicembre 1813 nella sala dell'Università di Vienna in una serata a beneficio dei soldati austriaci e bavaresi feriti nella battaglia di Hanau: l'accoglienza fu entusiastica (come pure per la Vittoria di Wellington dello stesso Beethoven), in particolare in virtù del secondo movimento, l'Allegretto, di cui venne subito chiesta la ripetizione. Già i contemporanei, anche i più spregiudicati come C. M. von Weber, avvertirono nell'opera una componente estrosa, una originalità spinta ai limiti del lecito; su questa linea si pone anche la celebre definizione di Wagner di «apoteosi della danza» e di «musica delle sfere a misura d'uomo». In effetti, mai il ritmo strutturale, come elemento basilare dell'invenzione, aveva conosciuto una così straripante efficacia; come sempre, però, nella produzione centrale di Beethoven l'energia scatenante è in equilibrio con il dominio formale, spinto qui a miracoli di controllo e maestria combinatoria. Considerando la natura particolare delle sinfonie Ottava e Nona, si può dire che con la Settima Beethoven chiude un capitolo nella storia della sinfonia, esaurendo tutto il potenziale linguistico e comunicativo evidenziato dalle ultime sinfonie di Haydn e Mozart circa venti anni prima. Alcuni spunti hanno una definizione così originale da non consentire altri sfruttamenti: così il collegamento fra il Poco sostenuto introduttivo e il Vivace (attraverso la ripetizione quasi iperbolica di una sola nota), la costanza del ritmo puntato nel Vivace, l'essenzialità del profilo ritmico dell'Allegretto (una nota lunga e due brevi), l'entusiasmo dello scherzo (compreso il marziale trio ripetuto due volte come nella Quarta Sinfonia) e del finale (Allegro con brìo), testimoni di quella «onnipotenza bacchica» messa in luce da Wagner e rimasta tale anche per il gusto moderno.

Guida all'ascolto 6 (nota 6)

Per questa Sinfonia, compiuta da Beethoven nel luglio 1812, e successiva all'«Eroica», alla Sinfonia «del destino», alla «Pastorale», i commentatori, da sempre, si sono tormentati per trovare un titolo, un'indicazione di contenuto in modo da costituire con le altre sorelle una più spiccata continuità. Fra le tante amenità che i più sprovveduti hanno immaginato a proposito di questo o quel movimento (soprattutto problematico l'Allegretto, che ad alcuni è parso una marcia funebre, ad altri una marcia nuziale!), il tentativo di definizione più illustre e forse più centrato è certamente quello che Wagner lasciò nella sua Opera d'arte dell'avvenire, e che in varia misura ritorna anche negli esegeti moderni (come il Bekker che definisce la Settima «una specie di sublimazione ideale dell'antica 'suite' di danze»): «Questa sinfonia è l'apoteosi della danza in sé stessa: è la danza nella sua essenza superiore, l'azione felice dei movimenti del corpo incarnati nella musica. Melodia e armonia si mescolano nei passi nervosi del ritmo come veri esseri umani che, ora con membra erculee e flessibili, ora con dolce ed elastica docilità, ci danzano, quasi sotto gli occhi, una ridda svelta e voluttuosa, una ridda per la quale la melodia immortale risuona qua e là, ora ardita, ora severa, ora abbandonata, ora sensuale, ora urlante di gioia, fino al momento in cui, in un supremo gorgo di piacere, un bacio di gioia suggella l'abbraccio finale».

Il ritmo come principio informatore di tutta la composizione: mai come in questa Sinfonia, Beethoven, che pure ai disegni ritmici aveva da sempre rivolta un'attenzione ignota al Settecento da cui pur proveniva (si pensi al finale della Sonata detta «Chiaro di luna», a quello della «Patetica», dell'«Eroica»), mostra di voler privilegiare questo primario elemento costitutivo della musica, celebrare in esso la pulsazione vitale, il «respiro del mondo»: dal movimento ascensionale del primo tempo al solenne, ossessivo andamento di dattilo-spondeo nell'Allegretto, alle più esplicite figurazioni di danza del III e IV tempo. Non vogliamo intrattenerci più oltre e scendere ad analisi particolari dei quattro classici movimenti in cui la Settima è articolata; vorremmo solo sottoporre agli ascoltatori una curiosità squisitamente fiorentina: il 9 dicembre 1928 nasceva, sotto la guida di Vittorio Gui, la Stabile Fiorentina che, nel suo primo concerto inaugurale, eseguì appunto la Settima di Beethoven. Per quella occasione, fu lo stesso Gui a dettare le note di programma, che qui si possono rileggere non senza qualche utilità: «Il primo tempo s'inizia con una serena introduzione, nella quale spiccano le continue scale ascensionali dei vari strumenti (furono dette le scale dei giganti). Il tema principale si manifesta quindi negli strumentini nel 'Vivace', e dilaga ben presto negli altri gruppi orchestrali attraverso i suoi molteplici sviluppi predominanti dalla forza cadenzata del ritmo logaedico, immagine ora di una gioia semplice ed agreste, ora lievemente tinta di malinconia ed ora irrompendo irresistibile nel 'Tutti'. A proposito del secondo tempo, lasciamo la parola a Berlioz: 'È il miracolo della musica moderna, in cui genio e arte profondono i più potenti effetti della melodia, dell'armonia, dell'orchestrazione. Il pezzo comincia con un profondo sospiro dei legni, dopo il quale un canto sublime si eleva gradatamente sino agli accenti d'una sofferenza immensa, pari a quella del profeta delle Lamentazioni. Allontanando per un momento il triste velo che copre il suo pensiero, il poeta getta quindi sul passato uno sguardo triste come la pazienza sorridente al dolore; poi Beethoven ritorna a essere Geremia, rientra nella Valle di lacrime e dopo averla percorsa interamente, lascia sfuggire di nuovo quell'ineffabile sospiro che la previsione del dolore gli aveva strappato all'inizio'. Lo 'Scherzo' originale e giocondo è come un risveglio, in cui Beethoven ha lasciato libero corso al fervore deila sua immaginazione. Si vuole che il 'Trio', più lento, riproduca un canto di pellegrini noto nella bassa Austria. Il focoso 'Finale' è una di quelle creazioni che non possono uscire che da una mente sublime. Wagner disse che rappresenta una festa dionisiaca: certo è una vera orgia di suoni e di ritmi, una pagina di una forza e di un'irruenza indescrivibili».

Cesare Orselli


(1) Testo tratto dal programma di sala del Concerto dell'Accademia di Santa Cecilia,
Roma, Auditorio di via della Conciliazione, 12 dicembre 1999
(2) Testo tratto dal libretto del CD AM 074-2 allegato alla rivista Amadeus
(3) Testo tratto dal programma di sala del Concerto dell'Accademia di Santa Cecilia,
Roma, Auditorio di via della Conciliazione, 5 maggio 2001
(4) Testo tratto dal programma di sala del Concerto dell'Accademia di Santa Cecilia,
Roma, Auditorium Parco della Musica, 14 aprile 2007
(5) Testo tratto dal Repertorio di musica sinfonica a cura di Piero Santi, Giunti Gruppo Editoriale, Firenze, 2001
(6) Testo tratto dal programma di sala del Concerto del Maggio Musicale Fiorentino,
Firenze, Palazzo Pitti, 26 luglio 1983

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Ultimo aggiornamento 27 aprile 2016