König Stephan (Re Stefano), op. 117

Musiche di scena per voci recitanti, coro ed orchestra

Musica: Ludwig van Beethoven (1770 - 1827)
Testo: August von Kotzebue
  1. Ouverture. Andante con moto - Presto (mi bemolle maggiore)
  2. Coro di uomini: Andante maestoso e con moto (do maggiore)
  3. Coro di uomini: Allegro con brio (do minore)
  4. Marcia trionfale: (sol maggiore)
  5. Coro di donne: Andante con moto all'Ongarese (la maggiore)
  6. Melologo di Stefano
  7. Coro: Vivace (fa maggiore)
  8. Melologo di Stefano: Maestoso con moto (re maggiore)
  9. Marcia, coro e melologo di Stefano: Moderato - Allegro vivace e con brio (si bemolle maggiore)
  10. Coro finale: Presto (re maggiore)
Organico: voci recitanti maschili e femminili, coro misto, ottavino, 2 flauti, 2 oboi, 2 clarinetti, 2 fagotti, corno di bassetto, 4 corni, 2 trombe, 3 tromboni, timpani, archi
Composizione: Teplitz, 15 Settembre 1811
Prima esecuzione: Pest, teatro Imperiale, 9 febbraio 1812
Edizione: Breitkopf & Härtel, Lipsia 1811
Guida all'ascolto (nota 1)

Tra le musiche di Beethoven destinate alla scena solo quelle, scritte nel 1810, per l'Egmont di Goethe stanno accanto al Fidelio per l'altezza della concezione, l'originalità dell'insieme, la coerenza con il testo letterario e quindi per l'autentica energia drammatica. Gli altri, pochi lavori appartengono alla produzione minore e per questa ragione sono, quasi tutti, usciti di repertorio, come molta della musica celebrativa e occasionale che Beethoven si adattò a scrivere secondo consuetudini settecentesche che proprio lui, per primo e con forza maggiore, stava eliminando per sempre dalla vita artistica. Questi suoi lavori su commissione, teatrali o sinfonici, egli li giudicava spesso con severità addirittura maggiore di quel che meritassero, ma non tollerava, poi, le censure altrui: e di questa sua suscettibilità, talvolta esagerata, fu vittima una volta l'autorevole J. F. Rochlitz, il musicologo stimato da Goethe (ma probabilmente l'interessato non lo seppe mai; del resto egli rimase in rapporti amichevoli con Beethoven e nel 1823 fu lui che gli propose, senza successo, di musicare nientemeno che il Faust). Nella "Allgemeine Musikalische Zeitung", di cui era direttore, Rochlitz espresse equilibrate riserve sul carattere generale delle musiche di Beethoven per la scena, e il musicista, furibondo, sconciò con offese e improperi la pagina del settimanale che aveva sottomano. Rochlitz affermava, in sostanza, che nel genere patriottico ed encomiastico (principalmente l'enorme e fragoroso Wellingtons Sieg, la cantata Der glorreiche Augenblick, scritta per il Congresso di Vienna, e, appunto, König Stephan con le Ruinen von Athen) Beethoven aveva trattato lo stile eroico con originalità e inventiva molto più incerte che nelle opere sinfoniche maggiori. Una verità già allora innegabile, che i posteri hanno confermato.

I due spettacoli con musiche di scena, König Stephan, che serviva da prologo, e Die Ruinen von Athen, erano stati appena scritti dal poeta August von Kotzebue per l'inaugurazione del nuovo Teatro Tedesco a Pest. Beethoven ricevette i testi drammatici i primi giorni dell'agosto 1811, proprio nel momento in cui stava partendo da Vienna per la villeggiatura a Teplitz in Boemia (si dice che glieli abbiano dati di corsa mentre la carrozza era già avviata). Beethoven era di buon umore, sperava di conoscere Goethe (ma il celebre incontro tra i due geni avvenne l'anno dopo, sempre a Teplitz, e, come sappiamo, non fu un incontro felice) e pregustava il riposo tra le belle signore viennesi, gli intellettuali, gli artisti romantici. Di Beethoven in quell'estate 1811 scrisse da Teplitz l'amico Karl A. Varnhagen von Ense (dal quale Beethoven sperava di avere un libretto d'opera) a Uhland: «Come ci è apparso bello, commovente, pio e severo il grand'uomo, come se l'avesse baciato un dio, quando ci ha suonato sul fortepiano variazioni celestiali, che erano un così puro prodotto di una potenza divina che l'artista poteva solo lasciarle riecheggiare». Di là dal fervore un po' ridicolo della descrizione di Varnhagen riusciamo a capire che Beethoven a Teplitz nel 1811 era attorniato dall'ammirazione e dall'affetto dei più (le cose andarono peggio l'anno dopo, quello dell'incontro con Goethe, e per colpa delle fantasie e delle maldicenze di Bettina Brentano il musicista ruppe molti rapporti e anche quello con Varnhagen). Come che sia, a Teplitz Beethoven portò a termine le musiche per i due lavori di Kotzebue rapidamente, in soli venti giorni (nove brani per lo Stephan e dieci per le Ruinen): tanta fretta potrebbe suggerirci un fastidio da parte sua, ma non fu così. Infatti pochi mesi dopo, nel gennaio 1812, scrisse a Kotzebue una lettera complimentosa e addirittura umile per domandargli un libretto d'opera.

Invece a noi, oggi, lo Stephan e le Ruinen sembrano prolissi, inconsistenti, enfaticamente adulatori e dunque improponibili nella loro integrità, ma dimostrano anche quale funzione ufficiale avesse il teatro nell'Austria-Ungheria del tempo. Per una serata di cerimonia il pubblico, soprattutto il pubblico conservatore, non si aspettava profondità di pensieri e verità drammatica, bensì parole solenni, retorica adeguata, illusioni, effetti scenici, cortei, cori. E Kotzebue ha allestito tutto ciò nei testi per l'inaugurazione del Teatro di Pest, il König Stepkan, appunto, che, come abbiamo detto, era il Vorspiel (il Prologo) della cerimonia e Die Ruinen von Athen, il Nachspiel (l'Epilogo; lo spettacolo centrale, che non aveva musica, fu una specie di esaltazione allegorica della città di Pest e della sua fedeltà all'Impero e all'Imperatore). Il re Stefano che è protagonista del Prologo è Stefano detto il Santo (Szent Istvàn, morto nel 1038), colui che continuando l'impresa iniziata dal padre, il principe Géza, portò alla fede cattolica tutto il popolo degli Ungari e che nell'anno 1000 ricevette da papa Silvestro II la corona d'Ungheria e la croce apostolica. Nel lungo monologo si fìnge che egli, dotato di spirito profetico, veda nel futuro alcuni dei suoi discendenti, tra i quali Ladislao il Santo, il valoroso che conquistò la Transilvania e sbaragliò i barbari Cumani, Ludovico il Grande, che combattè contro Venezia per il dominio della Dalmazia, il celebre Mattia I Corvino (Matyàs Hunyadi), giù nei secoli fino all'«onesto nipote della buona Maria Teresa» cioè fino a Francesco I d'Austria, in onore del quale tutto il macchinoso apparato era stato montato (forse non del tutto meritevole di tanti ossequi dai secoli passati, dato che fu l'ultimo sovrano con la corona del Sacro Romano Impero). L'Epilogo, Die Ruinen von Athen, aveva, poi un soggetto anche più bizzarramente allegorico del Prologo: la dea Atena, destatasi da un sonno di duemila anni, trovava in rovina la sua città e tutto il mondo greco-romano, ma il suo sconforto si mutava in letizia quando ella vedeva che la grande civiltà del passato era ancora fiorente a Pest per grazia di Sua Maestà Francesco I.

Dalla succinta esposizione dei contenuti è chiaro l'intendimento encomiastico. Gli eventi storico-leggendari del Prologo e le immagini mitico-classiche dell'Epilogo convergono in un centro ideale, nell'epoca allora presente, raffigurata come l'età aurea dell'augusto sovrano. Bisogna, però, dire poi che non tutta la produzione teatrale di August von Kotzebue (1761-1819), produzione del resto immensa, è così lontana da noi come sono i due testi musicati da Beethoven. Kotzebue era quello che oggi chiameremmo un professionista del teatro e scrisse di tutto, drammi eroici, storici, borghesi, commedie, alcune delle quali intelligenti e brillanti, e anche romanzi, novelle, saggi e fu un autore in voga nella prima metà dell'Ottocento, anche fuori dall'Austria e dalla Germania (addirittura il nome Krähwinkel, immaginario luogo d'azione della bella commedia Die deutschen Kleinstädter, 1802, è rimasto proverbiale nella lingua tedesca). Aveva carattere difficile e grande considerazione di sé e certo Beethoven non si sentì affatto diminuito per l'incarico di musicarne i testi, per quanto inferiori al suo genio essi oggi ci sembrino.

Ma, infine, come assolse Beethoven quell'incarico? Abbiamo detto, all'inizio, che questa musica non deve essere messa a confronto con i lavori maggiori (già solo in quel 1811 egli compose la Settima Sinfonia e il Trio "Arciduca," op. 97!), ma non è neppure soltanto convenzionale musica scenica. Certo, essa non ha la vitalità drammatica né il fervore etico dell'Egmont, perché l'una e l'altro qui sono assenti. Sul carattere e sullo scopo della musica di scena molto si era discusso in Germania da Lessing in poi: nello Stephan e nelle Ruinen essa è musica per la scena, per lo spettacolo cioè quasi soltanto accompagnamento e sostegno dei gesti, delle parole, degli effetti scenici e mai interpretazione spirituale dei contenuti. L'ouverture, che è la pagina più energica, è introdotta da quattro squilli asciutti, solenni, arcaizzanti ed è poi concepita su due idee musicali che si alternano l'una all'altra e si ripetono con mutamenti di strumentale e quindi di colorito, la prima prevalentemente lirica ed esotica ("all'Ongarese" scrive Beethoven quando riprende questo tema nel brano n. 4, l'elegante Coro delle donne che accompagnano la sposa) e la seconda impetuosa e bellica. Lo stile e il carattere degli altri brani sono adeguati con maestria, ma anche in forma per lo più impersonalmente solenne, alle esigenze sceniche.


(1) Testo tratto dal programma di sala del Concerto dell'Accademia di Santa Cecilia,
Roma, Auditorio di via della Conciliazione, 26 Ottobre 1996

I testi riportati in questa pagina sono tratti, prevalentemente, da programmi di sala di concerti e sono di proprietà delle Istituzioni o degli Editori riportati in calce alle note.
Ogni successiva diffusione può essere fatta solo previa autorizzazione da richiedere direttamente agli aventi diritto.


Ultimo aggiornamento 23 Settembre 2011