Quartetto per archi n. 8 in mi minore, op. 59 n. 2 "Razumowsky"


Musica: Ludwig van Beethoven (1770 - 1827)
  1. Allegro
  2. Molto Adagio (mi maggiore)
  3. Allegretto
  4. Presto
Organico: 2 violini, viola, violoncello
Composizione: Vienna, 1806
Edizione: Bureau des Arts et d'Industrie, Vienna 1808
Dedica: Conte Razumovsky
Guida all'ascolto 1 (nota 1)

Dopo la stesura dei sei giovanili Quartetti dell'opera 18, scritti fra il 1798 e il 1800, l'occasione di dedicarsi nuovamente al quartetto per archi venne, per Beethoven, dalla commissione di un personaggio di grande rilievo nella vita cultural-mondana della Vienna di inizio secolo, il conte Andreas Rasumovskij (1752-1836). Dal 1794 questo aristocratico russo, figlio di un ufficiale cosacco che aveva avuto una relazione con l'imperatrice Caterina (circostanza che certo aveva facilitato la carriera della sua discendenza), ricopriva l'incarico di ambasciatore a Vienna; appunto nella capitale austriaca svolgeva un ruolo di mecenate, promuovendo grandi trattenimenti musicali nel suo splendido palazzo. Apparteneva alla cerchia di Rasumovskij il violinista Schuppanzig, amico di Beethoven e primo interprete di tanta parte della sua musica da camera, e capitava che l'aristocratico, dotato, come si conveniva all'epoca, di una adeguata preparazione musicale, sostenesse la parte di secondo violino nelle sedute di quartetto; fondò anzi nel 1806, con Schuppanzig, il violista Franz Weiss e il violoncellista Josef Lincke, un suo proprio quartetto, che si riunì stabilmente fino a quando, nel 1816, il palazzo dell'ambasciatore non venne completamente distrutto da un incendio, causandogli ingenti danni finanziari. Non stupisce dunque che questo personaggio, ammiratore di Beethoven fin dagli esordi del musicista, gli potesse commissionare un ciclo di Quartetti; né che queste partiture, come diretto riferimento al destinatario, rechino al proprio interno la citazione di alcuni temi russi, tratti da una delle tante antologie di melodie popolari, raccolte secondo quella tendenza ad indagare le culture locali (sia pure con occhi "civilizzati" e viziati da pregiudizi) che si andava diffondendo; per l'esattezza è verosimile che i temi citati da Beethoven siano stati tratti da una raccolta di Ivan Pratsch, edita nel 1790. Beethoven scrisse dunque le tre partiture, ovvero i Quartetti op. 59, nel periodo 1805-1806, per pubblicarle poi un paio d'anni più tardi, con dedica al committente. Anche se il lasso temporale che distanzia questi nuovi Quartetti da quelli dell'opera 18 è di appena cinque anni, in realtà molta acqua era passata sotto i ponti musicali viennesi, e Beethoven in particolare si era lasciato alle spalle quelle partiture, tipiche dei suoi anni giovanili, incentrate su un gusto intrattenitivo ancora settecentesco, e aveva fatto eseguire capolavori quali il Terzo Concerto per pianoforte op. 37, la Terza Sinfonia "Eroica" op. 55, le Sonate per pianoforte op. 53 ("Waldstein") e op. 57 ("Appassionata"), nonché la prima versione del Fidelio. Ovvio che le premesse di sperimentazione fonica, formale e concettuale di questa nuova fase creativa dovessero in qualche modo ripercuotersi anche nei nuovi lavori quartettistici.

Dunque si proietta, sui Quartetti dell'opera 59, la logica dell'esperienza sinfonica, senza che venga compromessa la specificità cameristica delle composizioni, che anzi trae nuova linfa da un concetto di "massa" sonora per cui veramente il Quartetto non è più un insieme di quattro strumenti ma un unico strumento esso stesso. Il Quartetto per archi non viene meno alla sua scrittura ricercata, alla tecnica dell'elaborazione tematica, ma ingloba piuttosto una serie di tecniche e di spunti che erano ignoti ai Quartetti dell'opera 18, quali la sobrietà e talvolta l'indeterminatezza (nella fisionomia e nella funzione) del materiale tematico, la logica più stringente e consequenziale, dovuta a una concezione della forma musicale e degli accadimenti che in essa si verificano, come "processo", in cui ogni dettaglio ha una sua necessità all'interno di un preciso percorso evolutivo. Tali caratteristiche contraddistinguono il secondo Quartetto sotto il segno di una ambientazione espressiva, segnata dal tono dolente di mi minore. È proprio guardando alla carica passionale ed intimistica di questo Quartetto che si comprende come l'opera 59 costituisse una vera pietra di paragone per la generazione di Schumann, che poteva guardare al mirabile equilibrio di forma e contenuto della partitura. Nell'Allegro iniziale troviamo un preciso percorso che muove dalla frammentaria e sofferta idea iniziale, allo spunto sereno della seconda idea, divisa fra violoncello e violino, all'eccitazione della coda dell'esposizione; lo sviluppo sembra improntato soprattutto al rapido mutare delle situazioni; e la riesposizione arricchisce ma non contraddice il percorso di lievitazione dell'esposizione, lasciando alla coda il compito di fungere da anticlimax, e di riportare il movimento alla situazione espressiva iniziale. Fulcro del Quartetto è comunque il tempo lento in mi maggiore, Molto Adagio, al quale l'autore premise l'indicazione «Si tratta questo pezzo con molto di sentimento». La caratteristica mirabile di questo movimento consiste nella giustapposizione di diverse idee tematiche, che sfociano l'una nell'altra e non sono fra loro in contraddizione, ma piuttosto illuminano sotto prospettive differenti (il corale, l'animazione ritmica, lo staccato, il canto purissimo del violino) il medesimo assunto di purezza espressiva; il ricorso alle ombreggiature armoniche e al modo minore nella sezione centrale vale appunto a sottolineare maggiormente tale dimensione sublimata nella ripresa. Si giunge così allo Scherzo, con un malinconico Allegretto che si riallaccia al tempo iniziale, e che si presenta con il suo ritmo spezzato e l'accompagnamento in contrattempo, gli improvvisi contrasti dinamici e gli sbalzi ritmici; il contrasto con il trio è nettissimo, poiché troviamo qui il tema russo di questo Quartetto; tema peraltro reso celeberrimo da Musorgskij nel Boris Godunov e da Cajkovskij nella Ouverture 1812; qui viene trattato polifonicamente e contrappuntato da uno scorrevolissimo ritmo di terzine; e calibratissimo è il ripetuto avvicendamento delle situazioni dello Scherzo e del Trio. Le tensioni di tutto il Quartetto trovano risoluzione nel Finale, un Presto che costituisce una sorta di corsa frenetica, con un tema scattante del violino sostenuto da un accompagnamento incalzante degli altri strumenti - e trattato nella continua trascolorazione fra maggiore e minore - poi contrastato da un'altra idea sospirosa e da altre idee secondarie, senza però che venga meno l'assunto di base del movimento, il rapido precipitare nella dimensione di pathos e, di affanno della coda.

Arrigo Quattrocchi

Guida all'ascolto 2 (nota 2)

Il gruppo dei tre Quartetti dell'op. 59, pubblicati nel 1808 e tutti dedicati al Conte Andrej Razumovskij, rappresentano nel corpus beethoveniano un momento di espansione e di emancipazione, più di quanto non sottintendano una vera e propria svolta. Espansione significa in questo caso il coraggio di modificare le proporzioni correnti del quartetto d'archi alle proprie esigenze compositive, lasciando a queste la libertà di espandersi oltre i limiti dettati dalla tradizione. Emancipazione vuol dire invece attribuire al materiale e alle idee musicali una forza fecondativa superiore ad ogni preoccupazione stilistica e ad ogni vincolo d'occasione, come poteva essere la destinazione di una composizione a determinati interpreti o a un pubblico di dilettanti. I codici formali sono qui dettati dalla forza interna dei temi, non dipendono da leggi o strutture che prevalgano sull'invenzione. I Quartetti dell'op. 59 sono in questo senso genuinamente romantici, ma rappresentano pur sempre in Beethoven un momento di passaggio, una fase intermedia rispetto alla sistemazione di un linguaggio che tenderà a una maggiore essenzialità. Confrontati con i quartetti d'archi della tradizione, o anche con i precedenti lavori dell'op. 18, i tre Quartetti "Razumovskij" possiedono proporzioni decisamente più sviluppate sia dal punto di vista della durata, sia da quello della configurazione sonora, della spazialità, del virtuosismo che impegna in modo particolare il primo violino, ma che più in generale estremizza i compiti di tutti gli strumentisti.

Del secondo Quartetto dell'op. 59 colpisce anzitutto il linguaggio armonico: nonostante sia basato sul mi minore, infatti, Beethoven esce dal tipo di espressività che si riteneva caratteristica di questa tonalità e gioca anzi su una serie di significativi contrasti. Anziché adattarsi a un soggettivismo che punta sulla malinconia e sull'intimismo, in altre parole, Beethoven cerca un'espressione più ampia e per così dire sovrapersonale, fatta di grandi gesti oratori nei quali i caratteri tradizionali della tonalità di mi minore agiscono come un elemento di turbativa, come un principio di ambiguità. Già l'inizio è in questo senso emblematico: il ritmo è quello di una danza, ma il timbro oscuro genera un contrasto dal quale sorge l'impressione di una fatalità, di un limite che incombe sulla forma in modo più profondo e radicale di un semplice sentimento individuale. Tutto il movimento è sotto il segno di una simile dialettica fra la concezione dei temi, la scrittura ritmica e il colore armonico, tanto da riflettersi in un gioco di luci e ombre che conosce il suo apice nell'ampia sezione dello sviluppo.

Il carattere della luminosità sembra più deciso nel movimento lento, basato sulla più aperta tonalità di mi maggiore. Anche in questo caso, tuttavia, l'impressione va arricchita con una serie di osservazioni che pongano in rilievo gli aspetti meno "eroici" dell'ispirazione beethoveniana: così nel tema principale può riconoscersi la forma del corale e nella successiva elaborazione contrappuntistica la memoria di una polifonia che riporta immediatamente a un clima di edificazione religiosa la cui consistenza è come sempre, in Beethoven, fortemente problematica e conflittuale. Tale ambiguità può forse riflettersi nella concezione formale del movimento, che mentre si sviluppa sulla linearità arcaica di una polifonia quasi chiesastica, pure rispetta in modo rigoroso la distribuzione dei materiali richiesta dalla forma sonata, verso la quale Beethoven ci attira in modo sotterraneo.

Nello Scherzo si assiste a una pausa distensiva, costruita secondo tratti in fondo convenzionali, anche se arricchiti da ritmi sincopati che danno al tema principale un carattere piuttosto originale. Nella sezione del Trio compare una melodia popolare russa che, come già accadeva nel primo Quartetto dell'op. 59, incarna esplicitamente la dedica del musicista al Conte Razumosvkij. E nel complesso un movimento di passaggio, una sorta di accentuazione della tendenza al rischiaramento che si avvertiva già nel passaggio dal primo al secondo tempo, ma che diventa realmente affermativa solo nel finale, in forma di rondò, nel quale dominano il senso della danza, la vivacità del ritmo e la ricchezza di un tessuto armonico che varia in continuazione passando da un colore all'altro.

Stefano Catucci

Guida all'ascolto 3 (nota 3)

I tre quartetti dell'Op. 59 (in fa maggiore il primo, in mi minore il secondo e do maggiore il terzo) vanno sotto la denominazione di «Quartetti Rasumowsky», perché commissionati a Beethoven dal conte Andrei Rasumowsky, ambasciatore russo, fin dal 1794 alla corte di Vienna. Il conte (poi fatto principe, nel 1815 dallo zar Alessandro l), oltre che famoso rubacuori (si diceva che durante la sua permanenza a Napoli, quale ambasciatore, avesse fatto battere il cuore della regina Carolina) era un munificentissimo mecenate, fine intenditor di musica e buon violinista. Aveva fondato nel suo sontuoso palazzo di Vienna (sarà distrutto da un incendio nel 1816) il famoso «Quartetto Schuppanzigh» così denominato dal nome del primo violino Ignaz Schuppanzigh con Sina, secondo violino, Weiz viola e Kraft, violoncello. Sei anni intercorrono tra la pubblicazione dei sei quartetti dell'Op. 18, stampati, secondo il Lenz nel 1801, a due riprese, dall'editore Mollo di Vienna e la pubblicazione, nel 1807 presso l'editore Schreivogel, dei tre quartetti dell'Op. 59.

Durante questo arco di tempo il genio di Beethoven produce alcuni dei suoi massimi capolavori tra cui l'«Eroica», la «Quinta», il «Quinto concerto in sol maggiore per pianoforte e orchestra» e il «Concerto in re maggiore per violino». Era naturale, pertanto, che una tanta spinta d'elevazione nel campo creativo del genio beethoveniano si riflettesse nelle strutture dei quartetti dell'Op. 59, imprimendo loro un'altezza d'ispirazione e una sapienza costruttiva personalissime, con conseguente affrancatura da influssi di Haydn e di Mozart, evidenti nei quartetti dell'Op. 18. La complessità formale (si pensi alla fuga finale del terzo quartetto), la densità e l'altezza di meditazione (si rifletta sull'Adagio del quartetto n. 2 in mi minore) costituiscono più che un preannuncio del messaggio eccelso che Beethoven affiderà ai suoi ultimi quartetti. I quartetti dell'Op. 59 vengono definiti, ordinariamente sinfonici. Una tale definizione non va interpretata — annota Carli Ballola — «nel senso di una presunta dimensione orchestrale assunta dallo strumento-Quartetto», ma, piuttosto, «nel senso che Beethoven trasferì nel quartetto l'imponenza formale, la densità musicale e l'epica eloquenza, già raggiunte nel dominio sinfonico». In altri termini anche se l'urgenza e l'abbondanza del fiotto di pensiero musicale tende a sommergere, a travolgere il limitato ambito sonoro dell'architettura quartettistica, l'essenza e la natura particolare del quartetto non viene mai tradita o deformata da Beethoven. André Boucourechliev, uno dei più penetranti esegeti di Beethoven, alludendo alla fuga, «Allegro molto» del terzo quartetto Rasumowsky asserisce che essa è sinfonica anche «per il suo tempo, concepito attraverso tappe grandiose». Il quartetto in mi minore, secondo dei «quartetti Rasumowsky» è l'ottavo dell'intera serie dei quartetti beethoveniani. Nei confronti della serenità idilliaca dell'«Allegro» del quartetto n. 1, l'«Allegro» del secondo quartetto è caratterizzato da agitazione ansiosa, espressa dalla breve frase zampillante dai due violenti accordi d'apertura che esplodono con la secchezza di scariche elettriche. Un secondo tema, anche esso di breve respiro, è improntato, invece, a distesa serenità. Esso s'espande in figurazioni dinamiche, tra cui emerge un crescendo in forma sincopata, sorretto da una serie di nutriti accordi degli strumenti inferiori. Lo sviluppo si dipana complesso e ampio, utilizzando gli elementi dell'esposizione, sempre caratterizzato da una temperie di inquietudine e di tensione, che si risolve nella ripresa, animata dal veemente impulso dei quattro strumenti suonati all'unisono. La coda costituisce quasi un secondo sviluppo più rapido e teso «risolto dall'impetuoso dispiegamento finale» del tema predominante.

Il secondo tempo, «Molto adagio» ci trasporta con un colpo d'ala in una delle zone più alte alla quale sia pervenuta l'ispirazione di Beethoven. Enunciato completamente sin dall'inizio in forma di corale il tema fondamentale esprime contemplazione estatica e concentrata. Esso, a detta dell'Holz e dello Czerny, sarebbe stato ispirato a Beethoven dal fulgore di una notte stellata, contemplata nei prati di Baden, vicino a Vienna e che avrebbe suscitato nel maestro l'idea del movimento (circulato) delle sfere. L'atmosfera di rapimento siderale non è però costante. Il motivo iniziale, sostenuto da una figurazione trocaica che — come annota Carli Ballola — quasi battito d'ali ne sorregge la spinta all'elevazione, gradatamente discende dalle sfere celesti, cedendo il passo a un motivo più disteso e più umano e ad altro più cupo, quasi lo spirito avverta il tremito e lo smarrimento di fronte all'infinità degli spazi. Tuttavia l'impressione di estasi prevale, accentuata da un'improvvisa spinta ascensionale dei quattro strumenti, seguita da un loro progressivo «mancare» che dilata la mistica contemplazione a latitudini sconfinate, in cui lo spirito individuale si disperde annegando. La chiusa in «diminuendo» ripropone un senso di pacata calma. Il terzo tempo, «Allegretto», inizia con un tema ritmicamente concitato e sussultante sugli staccati del primo violino cui fa da ghirlanda sonora il ritmo d'accompagnamento, in fortissimo, su viola e violoncello.

Colpisce, subito dopo, per il tono pateticamente elegiaco, un frammento di melodia (quasi un accenno di corale soggiacente alla costruzione sonora lo definisce Giovanni Biamonti) del violoncello che canta «nella chiave di violino». Il caratteristico e quasi bizzarro motivo dell'attacco, in contrasto con la serena andatura dell'«Adagio», per il suo dinamismo e la rude accentuazione ritmica ha spinto qualche studioso di Beethoven (il De Marliave) ad avvertire in esso un preannuncio delle mazurche Chopiniane. Nel trio (in maggiore) risuona vivace e trascinante il «tema russo» che riecheggerà, più di mezzo secolo dopo, nel coro di giubilo del popolo al passaggio dello zar, nel «Boris Godunov» di Mussorgsky. Il tema, conosciuto da Beethoven in una raccolta di canti russi del Pratsch sarà adoperato da Rimsky Korsakov nella «Fidanzata dello zar», da Arensky nel Quartetto Op. 35 (1894) e da Wassily Zolotarev nel Quintetto Op. 19 (1905). Sviluppato in forma di fuga, esso migra dalla viola al secondo violino, al violoncello, passando, in fine, al primo violino. Risale poi ancora con procedimento «a canone» dal violoncello agli altri strumenti, finché, in ultimo, si spegne in un tremito sussurrato.

Il tempo si chiude con l'integrale ripetizione della frase concitata d'apertura, seguita dal breve canto mesto del violoncello, L'avvio al «Finale» è dato da una improvvisa impennata dei violini che mettono in circuito una ronda travolgente, cui si affianca un secondo motivo, anch'esso dinamico, ma quasi venato da ilare giocondità. L'attenzione dell'uditore è attratta dal loro gioco d'interpenetrazione (i due motivi sembrano sgranare l'uno dall'altro), dalla necessità fonica da cui scaturiscono riprese e ritornelli, nonché dal ritmo aereo, quasi danza di falene, impresso a porzioni minime del primo tema. L'ebbro entusiasmo «motorio» che agita il «Finale» ha spinto qualche critico — il Biamonti — a vedere in esso «una rude marcia di pifferi e tamburi, trasposta nel complesso d'archi». Alla fine il moto precipita in un «Più presto» conclusivo dalla stretta irrefrenabile.

Vincenzo De Rito


(1) Testo tratto dal programma di sala del Concerto dell'Accademia di Santa Cecilia,
Roma, Auditorio di Via della Conciliazione, 24 novembre 2000
(2) Testo tratto dal programma di sala del Concerto dell'Accademia Filarmonica Romana,
Roma, Teatro Olimpico, 7 marzo 1996
(3) Testo tratto dal programma di sala del Concerto del Maggio Musicale Fiorentino,
Firenze, Teatro Comunale, 6 giugno 1976

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Ultimo aggiornamento 10 aprile 2019