Quartetto per archi n. 6 in si bemolle maggiore, op. 18 n. 6


Musica: Ludwig van Beethoven (1770 - 1827)
  1. Allegro con brio
  2. Adagio, ma non troppo (mi bemolle maggiore)
  3. Scherzo. Allegro
  4. Adagio "La Malinconia"
  5. Allegretto quasi Allegro
Organico: 2 violini, viola, violoncello
Composizione: 1798 - 1800
Edizione: Mollo, Vienna 1801
Dedica: Principe Franz Joseph Maximilian von Lobkowitz
Guida all'ascolto 1 (nota 1)

I Quartetti per archi di Beethoven sono complessivamente sedici, più la Grande fuga, che in origine costituiva il finale dell'op. 133. Secondo un criterio non solo cronologico, ma di valutazione critica, accettato in linea di massima dagli studiosi della musica beethoveniana, i Quartetti si possono classificare in tre gruppi distinti: i sei Quartetti dell'op. 18 (1798-1800), che risentono l'influenza del modello haydniano e mozartiano; i Quartetti del secondo periodo e della maturità, raggruppati nell'op. 59, n. 1-3, (1805-1806), nell'op. 74 (1809) e nell'op. 95, (1810); e infine negli ultimi Quartetti scritti tra il 1822 e il 1826, comprendenti le op. 127, 130, 131, 132, 133 e 135. In questi tre momenti della produzione quartettistica si riflette tutta la parabola artistica del compositore, dalla fase iniziale dell'op. 18, quando è alla ricerca di uno stile personale e si tormenta per raggiungere la più aderente espressione del proprio io intcriore fino alle più ardite soluzioni armoniche e formali racchiuse nelle ultime opere cameristiche beethoveniane. In più, nel Quartetto per archi, il genere che il musicista predilesse e coltivò intensamente insieme alla Sonata per pianoforte, l'artista racchiuse i suoi pensieri più intimi e riservati, così da toccare spesso la forma del soliloquio. Non per nulla Paul Bekker, uno dei più documentati biografi del maestro di Bonn, così scrive nell'esaminare la struttura e la fisionomia dei vari Quartetti, specie quelli appartenenti al cosiddetto terzo stile: «Questa musica da camera per strumenti ad arco è veramente l'asse della psiche creativa di Beethoven, intorno al quale tutto il resto si raggruppa a guisa di complemento e di conferma. Nei Quartetti si rispecchia tutta la vita del musicista, non sotto l'aspetto di confessione personale, quasi di diario, come nell'improvvisazione delle sonate, non nella grandiosa forma monumentale dello stile sinfonico, bensì nella contemplazione serena, che rinuncia all'aiuto esteriore della virtuosità e alla monumentalità delle masse sonore dell'orchestra e si limita alla forma, semplice e priva di messa in scena, di colloqui tra quattro individualità che tra di loro si equivalgono».

I sei Quartetti dell'op. 18 furono pubblicati nel 1801 e dedicati al principe Lichnowsky, che li apprezzò molto dopo averli ascoltati, tanto da assegnare al compositore 600 fiorini annui e regalargli anche quattro preziosi strumenti ad arco: un violino e un violoncello di Guarneri costruiti a Cremona tra il 1712 e il 1718, un secondo violino di Nicola Amati fatto nel 1667 e una viola di Vincenzo Ruger costruita nel 1690.

Nel sesto Quartetto in si bemolle maggiore se i primi due movimenti - un Allegro con brio e un Adagio ma non troppo - si mantengono nell'ordine di una sobria e disincantata maniera, comunque riconducibile a una certa convenzionalità, fin dallo Scherzo si prova la confortante sensazione di trovarsi di fronte a un prepotente bisogno di fare da sé, di rischiare l'originalità di un'invenzione senza precedenti. Con molta ragione Carli Ballola, nella sua pregevole monografia beethoveniana, l'individua nello «scontro di due strutture ritmiche diverse: quella della frase, in sei ottavi, e quella della misura, in tre quarti»; salvo aggiungere che proprio di qui derivano quegli inquietanti bagliori espressivi che preludono le ben più mature tensioni romantiche dello Scherzo di Beethoven.

È però il famoso Finale, di complessa formazione, a giustificare pienamente l'inclusione del Quartetto nelle più significative composizioni del primo Beethoven. Lascia perfino stupefatti, non fosse che per la preveggenza degli ultimi Quartetti, l'arditezza con cui s'imposta il discorso musicale di questo Adagio che Beethoven stesso intitolò La Malinconia; e cioè meraviglia l'intuizione precoce di un impianto tematico affidato a una melodia di poche note che appunto ritornano identiche nelle due strutture di quattro battute del tema, e che però diventano a loro volta l'insistente elemento strutturale di un complesso organismo timbrico e armonico destinato a diventare la materia base del brano. Si perviene cioè a un vero e proprio campo armonico consegnato a una successione di accordi di settima diminuita privi di attrazione tonale ben definita, sospesi davvero in uno stato di imponderabilità, che evidenzia lo scopo di consegnare alla polifonia timbrica degli strumenti in diverse combinazioni, l'evolversi di una situazione musicale proprio perciò guidata nel suo allucinante accumulo di intensità espressiva, dalle progressioni e dalla dinamica dei piani e dei forti, usate per eludere ogni ragionevole, abituale, andamento discorsivo. Si crea insomma un clima sonoro che via via domina sovrano talché il concetto di malinconia perde ogni connotato di patetico sentimentalismo, e conquista l'immagine di una chiaroscurata ansietà dove si riconoscono i tratti del romanticismo beethoveniano, sorretto da una forza ideale consapevole delle concrete contraddizioni umane. L'Allegretto conclusivo, ricondotto a un candido Laendler, stabilisce un brusco contrasto, inatteso e certamente impoverente, benché anch'esso concepibile in quell'ordine di visione dei moti dello "spirito", al quale Beethoven non poteva certo ancora sottrarsi, e al quale d'altronde credeva, per cui la chiusura di un pezzo non poteva essere in negativo, bensì di segno positivo, e significativamente con un richiamo popolaresco.

Guida all'ascolto 2 (nota 2)

Il genere quartetto occupa una posizione particolare nella produzione di Beethoven. Fra la sonata pianistica e la sinfonia, il quartetto è il genere scevro da sollecitazioni esteriori. L'estro della improvvisazione ed il virtuosismo che caratterizza la carriera del pianista compositore resta un carattere permanente del pianoforte di Beethoven, ed anche al tempo della sordità totale il pianoforte rimane il mezzo a cui l'artista si affida con maggiore estemporaneità. L'orchestra è invece per Beethoven il medium retorico per eccellenza, e nel caso di Beethoven retorica sta per ideologia: la sua orchestra sarà quindi lo strumento del suo pensiero umanitario e politico, e la reazione d'ascolto non può restare passiva davanti ai contenuti di tale pensiero. Ma nel quartetto prevale la ricerca della forma ideale, sviluppo della scienza concertante, in cui i caratteri grezzi della ideologia si dissolvono, e riemergono sotto la specie di un progresso storico delle forme musicali. Così il quartetto beethoveniano è la voce ultima della Wiener Klassik, l'apice di una certezza culturale che, appunto per la monumentale evoluzione del sistema linguistico, assegna a questa, più che ad ogni altra epoca della storia musicale, la definizione di classica.

I sei Quartetti op. 18 furono composti nel 1800 ed apparvero a stampa in due fascicoli in questo e nell'anno seguente. A quell'anno risalgono opere tanto diverse come il Settimino op. 20, l'ultimo e migliore omaggio di Beethoven alle mete dello stile galante, il Concerto in do minore per pianoforte e orchestra (il terzo), con la sua fusione del monumentale e del virtuosistico, e la Sonata in si bemolle op. 22, ritorno alla gioia di vivere pianistica, dopo i patetici furori. Il Quartetto in si bemolle maggiore reca alcuni ricordi della sonata nella stessa tonalità, e difatti per Beethoven la tonalità resta un fattore psicologico vincolante. L'Allegro con brio di apertura conta fra i più felici di Beethoven. Il tema si distribuisce fra i quattro strumenti su un ritmo pulsante con un gioco di domande e risposte, ed anche la seconda idea, col suo affetto cantabile, non spezza la costruzione gioiosa del pezzo. L'Adagio non troppo in mi bemolle maggiore addita gli sviluppi tecnici del concertante beethoveniano. La concezione del solo accompagnato è superata dalla serrata partecipazione di tutti gli strumenti alla variazione del motivo in biscrome di serena andatura alla marcia, in cui è ravvisabile la ascendenza haydniana. L'arte è eminentemente contrappuntistica con grande varietà di controcanti. Lo Scherzo è basato sull'ambiguità ritmica del binario e ternario (6/8 o 3/4) con effetti ritmici stimolanti che travolgono gioiosamente i settecenteschi effetti di sorpresa. Il breve Trio è un piccolo intermezzo per violino solista. L'introduzione all'ultimo tempo reca il titolo «La malinconia». Il breve tema esposto pianissimo in distese armonie di terze e seste si arresta sulle interrogative modulazioni proposte da un gruppetto, ripensamenti passeggeri, che il delizioso Allegretto dissipa con tutto l'impeto della natura campestre. E se anche due volte la malinconia torna ad insinuarsi fra lo scorrere danzante del 3/8, essa è ormai soltanto una nube che non può turbare la natura felice.

Gioacchino Lanza Tomasi


(1) Testo tratto dal programma di sala del Concerto dell'Accademia di Santa Cecilia;
Roma, Auditorio di Via della Conciliazione, 22 novembre 1991
(2) Testo tratto dal programma di sala del Concerto dell'Accademia Filarmonica Romana,
Roma, Teatro Olimpico, 18 febbraio 1976

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Ultimo aggiornamento 1 novembre 2015