Die Geschöpfe des Prometheus (Le creature di Prometeo), op. 43a

Ouverture in do maggiore

Musica: Ludwig van Beethoven (1770 - 1827)
Organico: 2 flauti, 2 oboi, 2 clarinetti, 2 fagotti, 2 corni, 2 trombe, timpani, archi
Composizione: 1801
Edizione: Hoffmeister & Kühnel, Lipsia 1804
Guida all'ascolto (nota 1)

Non ci è naturale avvicinare l'immagine di Beethoven ai caratteri musicali di un balletto ottocentesco - descrittivi, mimici, episodici - subordinati alla scena e spesso futilmente brillanti. E invece, tra il 1800 e il 1801, nei mesi in cui creò il Terzo Concerto op. 37, le Sonate op. 26 e op. 27 (l'op. 27 n. 2 è il famosissimo Chiaro di luna), i sei Quartetti op. 18 e la Seconda Sinfonia, Beethoven compose anche un balletto e non era il suo primo: ma fu il suo ultimo, forse per la delusione che ne aveva avuto lavorando.

Il progetto si era avviato dopò l'invito fatto nel 1799 a Beethoven dal coreografo italiano (napoletano) Salvatore Viganò, allora capo del balletto di corte a Vienna. Viganò era una celebrità internazionale, buon musicista (sua madre era sorella di Boccherini), originale inventore e guida di balletti a Madrid, a Parigi, a Londra, Venezia, Vienna (qui in due periodi, nel 1793-95 e dal 1799). Beethoven, che a Vienna nel 1799 era già un musicista di fama, dovette sentirsi lusingato dall'invito, che era un riconoscimento sociale, e accettò: anche perché una delle idee innovatrici di Viganò era quella di ottenere nella danza il massimo di efficacia col sottomettere la gestualità scenica all'espressività dell'orchestra. Per Beethoven era questa una buona premessa di collaborazione (quindi nello spettacolo da creare non ci sarebbero state né stravaganze, né futilità, né lungaggini), come un accettabile presupposto era il soggetto scelto, serio, morale, appassionante. E Prometeo, l'eroe impavido, il liberatore, doveva essere per Beethoven figura ammirevole. Ma nel soggetto del nuovo balletto le imprese più audaci dell'eroe sono già compiute ed egli appare come un idealista umanitario.

Qui, dunque, Prometeo con il fuoco sottratto agli dei riesce a dare vita a due statue di creta da lui plasmate, un ragazzo e una fanciulla, ma non può dar loro ragione e sentimento. Deluso, il Titano vorrebbe distruggere le statue, ma una voce interiore lo trattiene (atto I). Prometeo conduce le sue fredde creature sul Parnaso dove Apollo, Bacco, Pan, le Muse, Orfeo, Arione, con magie, musiche, danze, accendono nei due giovani affetti, emozioni e desiderio di gloria, e ne fanno due nobili creature veramente umane. Dopo una peripezia la favola si conclude con una festa generale (atto II). Tutto il balletto in due atti e in sedici scene dura circa un'ora.

Come ho detto, Beethoven si era messo al lavoro per diverse ragioni: oltre che per il tema in sé, per il successo e la notorietà che potevano venirgliene e poi perché Viganò e il direttore amministrativo dei Teatri di Corte, il barone Peter von Braun, presentavano il balletto come omaggio all'imperatrice Maria Teresa. Il soggetto mitologico, con cui si intendeva esaltare «la forza della musica e della danza», come è detto nel sottotitolo, era un tema degno, e dunque la vicenda era nobile e tale da potersi confrontare, anche se da grande distanza, con il contenuto sacro della Creazione di Haydn, ascoltata dai viennesi due anni prima, nel 1798, e sempre universalmente ammirata. Anzi, uno scambio di idee tra i due geni sul nuovo balletto si ebbe davvero, dopo una delle repliche del Prometeo nel 1802. «Ho sentito il Suo balletto e mi è piaciuto molto» disse Haydn, e Beethoven: «Ella è molto generoso, buon papà, ma non si tratta certo di una creazione». Haydn, allora, sorpreso e quasi risentito «Certo che non è una Creazione e credo difficile che Ella ci possa arrivare». Dopo di che i due grandi, il settantenne e il trentenne, si salutarono turbati.

Il balletto ottenne buon successo al Burgtheater, con quindici repliche nel 1801 (la prima rappresentazione fu il 28 marzo 1801) e tredici nel 1802, poi non ebbe altre riprese finché Beethoven fu in vita. Né egli deve essersene curato troppo dopo aver scosso e trasformato il mondo della musica con la Terza Sinfonia "Eroica" (1803-4, prima esecuzione pubblica 7 aprile 1805). Non se ne curò, dicevo, anche perché un tema assai evidente nel Finale del Prometeo era passato nel capolavoro.

Infatti la musica delle Creature di Prometeo è di buona e, in qualche episodio, di eccellente qualità, varia, fantasiosa, elegante all'occorrenza, molto curata nello stile e nei colori. Essa ha un suo carattere sereno e illuministico quasi sorprendente nel Beethoven della prima maturità. Proprio non si comprende perché queste musiche siano scomparse dal repertorio sinfonico, con la sola eccezione dell'Ouverture.

Nel genere dell'Ouverture drammatica conosciamo i capolavori successivi di Beethoven, il Coriolano, 1807, e l'Egmont, 1811, e rispetto alla loro potenza espressiva l'Ouverture del Prometeo ha originalità e concisione minori, nonché più debole efficacia narrativa. Essa comincia 'a sorpresa' proprio come la Prima Sinfonia, avviandosi in un'area tonale (fa maggiore) diversa dalla principale, che è do maggiore e che si afferma nella quinta battuta. La breve, ma brusca, tensione che si crea, è già un tratto tipicamente beethoveniano, come è il contrasto tra il 'fortissimo' dell'inizio e il 'pianissimo' con cui si presenta il do maggiore. Dopo un attacco sinfonicamente così conciso, il primo tema, Allegro molto con brio esposto dai primi violini, ci suona scattante ma generico, nello stile del classicismo viennese, mentre carattere più deciso ha il secondo tema presentato dai flauti. Il seguito è dinamico, anche se manca una vera contrapposizione tra i due soggetti e quindi un vero sviluppo sinfonico.

Più di dieci anni dopo, per la prima rappresentazione del terzo Fidelio (23 maggio 1814), Beethoven, che non aveva ancora concluso l'Ouverture dell'opera, vi premise l'Ouverture del Prometeo, dichiarandosi poi insoddisfatto della scelta. La tradizionale classicità della sua antica musica deve essergli suonata scarsa accanto alla sublimità del capolavoro drammatico.

Franco Serpa


(1) Testo tratto dal programma di sala del Concerto dell'Accademia di Santa Cecilia,
Roma, Auditorium Parco della Musica, 6 dicembre 2008

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Ultimo aggiornamento 3 maggio 2012