Die Geschöpfe des Prometheus (Le creature di Prometeo), op. 43

Musica per il balletto

Musica: Ludwig van Beethoven (1770 - 1827)
Coreografia: Salvatore Viganò
  1. Ouverture: Adagio – Allegro molto con brio "La Tempesta" (do maggiore)
  2. Poco adagio (do maggiore)
  3. Adagio (fa maggiore)
  4. Allegro vivace (fa maggiore)
  5. Maestoso - Andante (re maggiore)
  6. Adagio (si bemolle maggiore)
  7. Un poco Adagio - Allegro (sol maggiore)
  8. Grave (sol maggiore)
  9. Marcia. Allegro con brio (re maggiore)
  10. Adagio (mi bemolle maggiore)
  11. Pastorale. Allegro (do maggiore)
  12. Andante (do maggiorre)
  13. Maestoso (do maggiore)
  14. Allegro (re maggiore)
  15. Andante (fa maggiore)
  16. Andantino (si bemolle maggiore)
  17. Allegretto (mi bemolle maggiore)
Organico: 2 flauti, 2 oboi, 2 clarinetti, (o corni di basseetto), 2 fagotti, 2 corni, 2 trombe, timpani, arpa, archi
Composizione: 1800 - 1801
Prima rappresentazione: Vienna, Hofburgtheater, 28 marzo 1801
Edizione: Breitkopf & Härtel, Lipsia 1864
Dedica: Marie Christine Lichnowsky
Argomento

Come indica il titolo, l'argomento del Balletto riprende la favola classica di Prometeo. Questo eroe greco - creatura sublime che aveva trovato l'umanità nello stato di ignoranza primigenia - ebbe il merito, secondo la mitologia, di aver affinato gli esseri umani attraverso le scienze e le arti e di aver offerto loro leggi universali. Muovendo da questi presupposti il Balletto porta in scena due simboliche statue ani­mate che, grazie alla potenza dell'Armonia, a poco a poco divengono partecipi di tutte le espressioni della vita (di qui l'origine dei vari «qua­dri» del Balletto). Prometeo conduce le statue sul Parnaso e da incarico ad Apollo di avvicinarle ai mondi delle varie Arti; Apollo, a sua volta, invita Anfione, Arione e Orfeo a far conoscere alle statue i segreti della musica, mentre invita Melpomene e Talia a dischiudere i misteri della tragedia e della commedia. In ultimo Prometeo affida le creature a Tersicore e a Pan, affinchè apprendano le tecniche della danza pastorale; a Bacco perché esse entrino nel mondo delle danze a carattere orgiastico.

Guida all'ascolto (nota 1)

La personalità e l'opera di Salvatore Viganò (1769-1821), il grande coreografo fiorito in piena èra napoleonica, dovrebbero occupare uno speciale capitolo nello studio organico, tuttora in mente Dei, della civiltà neo-classicistica che annovera il Nostro tra i suoi interpreti più sensibili e versatili. Come sia avvenuto l'incontro tra Viganò, astro del firmamento teatrale di fine Settecento e il pressoché trentenne Beethoven, inesperto di cose teatrali in genere e di coreografia in particolare (l'aneddotica biografica, è noto, ce lo presenta come ballerino volenteroso quanto pessimo) non si sa di preciso. Sta di fatto che nel 1800 il compositore ebbe l'incarico da parte del Teatro Imperiale di Vienna di dar musica a un soggetto coreografico ideato da Viganò e intitolato originariamente "Gli uomini di Prometeo": si trattava di un "ballo eroico allegorico" in due atti, articolati in un'organica successione di quadri corrispondenti ad altrettante interpretazioni coreografiche di determinati eventi scenici. L'argomento si rifaceva assai liberamente al mito greco di Prometeo, qui raffigurato come il benefico demiurgo apportatore della scintilla divina della razionalità all'umanità bruta, secondo un motivo che percorre nell'intimo, come fiume sotterraneo, tutta la cultura e la poesia tedesche a cavallo tra i due secoli. Il titano ha plasmato con le proprie mani due statue alle quali infonde la vita del corpo e dello spirito. Indi le conduce sul Parnaso e ne fa dono ad Apollo e alle Muse che riveleranno ai due esseri la luce dell'arte e della bellezza, completando in tal modo la loro umanità. Nel secondo atto, in una successione di quadri, le creature di Prometeo (tale il titolo definitivo dato all'azione coreografica) vengono istruite nella musica da Anfione, Arione e Orfeo, nella tragedia e nella commedia da Melpomene e Talia, nella danza rituale e pastorale da Tersicore e Pan e in quella orgiastica da Dionisio.

Non è impresa di troppo sbrigliata fantascienza critico-estetica immaginare che cosa avrebbe potuto trarre da un tal soggetto Luigi Cherubini, autore di una Médée e di un Anacréon dove il mondo del mito è scandagliato con la temeraria determinazione del solitario scopritore di tragici orrori e di apollinee atarassìe sotto la crosta sedimentata di un plurisecolare accademismo. Beethoven non vide, nell'intreccio propostogli, che il pretesto per allineare i sedici "numeri" di una tra le sue partiture più levigate ed eleganti, che si plasma con la morbidezza della cera di un calco canoviano, sulle figure da bassorilievo di Viganò, assecondandone discretamente il nobile rituale coreografico e spettacolare. Ecco dunque il compositore giocare tutte le sue carte di artista "neo-classico" adornando le proprie idee con i drappeggi di una strumentazione piena di sensuale raffinatezza nella presenza dell'elemento concertante (gli splendidi "a solo" del violoncello nel n. 5, seconda parte, Andante quasi Allegretto) e di rari tocchi coloristici, come (ancora nel n. 5) il liquido fluire dell'arpa sotto il concerto dei legni. Il tutto è introdotto dall'alacre e scattante Ouverture che si apre pomposamente in un clima di festa teatrale ed è concluso dal festoso epilogo (n. 16, Danza generale) in cui appare la fatidica idea melodica in seguito utilizzata per una serie di Variazioni pianistiche (op. 35) e per il Finale dell'Eroica.


(1) Testo tratto dal programma di sala del Concerto dell'Accademia di Santa Cecilia,
Roma, Villa Giulia, 11 luglio 1996

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Ultimo aggiornamento 23 gennaio 2013