Concerto n. 2 per pianoforte e orchestra in si bemolle maggiore, op. 19


Musica: Ludwig van Beethoven (1770 - 1827)
  1. Allegro con brio
  2. Adagio (mi bemolle maggiore)
  3. Rondò. Molto allegro
Organico: pianoforte, flauto, 2 oboi, 2 fagotti, 2 corni, archi
Composizione: 1795
Prima esecuzione: Vienna, Burgtheater 29 Marzo 1795
Edizione: Hoffmeister & Kühnel, Lipsia 1801
Dedica: Carl Nicklas Edler von Nickelsberg
Guida all'ascolto 1 (nota 1)

Nel primo movimento (Allegro con brio) del Concerto op. 19 si assiste a una curiosa situazione estetica, peraltro comune a molte "opere prime" in ogni campo artistico: Beethoven traccia un itinerario, segna confini e linee di forza, ma tale progetto o struttura tiene qualcosa di astratto perché i protagonisti, e cioè i temi o motivi, non sono ancora all'altezza di quel progetto per vivacità e personalità di concezione; così l'ascoltatore consapevole del futuro svolgimento creativo del compositore introduce lui di suo, qua e là idealmente, personaggi e figure di opere posteriori più mature e complete: operazione che non deve convertirsi in una critica o delusione, ma piuttosto accompagnarsi all'ammirazione o alla constatazione di una inventiva precocemente polarizzata sul progetto, sul percorso, prima che sull'attrattiva più esteriore del tema: in perfetta consonanza con il pensiero illuministico in cui Beethoven ha le radici. Considerato in se stesso, il primo tema della giudiziosa esposizione orchestrale è senza dubbio un poco intimidito e un poco di corto respiro nel suo trotterellare; ma la prospettiva si allarga in inopinate modulazioni, in sospensioni e attese, fin dall'entrata del pianoforte alla ribalta: con un tema che pare tutto nuovo (in realtà desunto da un motivo secondario dei violini alla battuta 34), indeciso fra galanteria e affabilità, e consanguineo al clima di incantevole improvvisazione nelle prime battute della Sonata op. 10 n. 2.

Nell'Adagio, anche se si può percepire una dipendenza dal movimento centrale (Andante) del Concerto K. 450 di Mozart nella medesima tonalità, Beethoven afferma con più precisa coscienza alcuni caratteri peculiari: Mozart procede con l'elisia fluenza di un corale, quasi al passo con i sacerdoti del Flauto magico, con orchestra e pianoforte che si rispecchiano nella medesima frase; mentre in Beethoven la cantilena, anche se tessuta in modo simile fra le pause di un Corale, è meno continua, più lavorata di piccole intenzioni espressive, anche se allo stesso modo rivolta a una amplificazione del respiro ritmico e di un fraseggio melodico esteso alle soglie della vocalità; il solista poi si riserva il proprio spazio d'intervento, una volta che l'orchestra ha esaurito la sua esposizione, presentandosi alla ribalta con un teatrale gesto di entrata; di particolare evidenza è la conclusione, con il solista che si dedica a una cadenza in stile di recitativo, lasciando all'orchestra il sommesso commento con frammenti del tema: una liricità che invade anche la clausola finale, quando il flauto solo si sovrappone con un ultimo intervento, marginando gli accordi conclusivi con un'ultima delicata insorgenza di canto.

Come il Concerto op. 15, il Rondò finale (che ha sostituito il Rondò WoO 6 che concludeva il Concerto nella seconda versione) è il brano che conquista l'ascoltatore con maggiore immediatezza, specie per le marcate accentuazioni sincopate: rese ancora più fervide in un episodio centrale, dove il solista si produce in audaci salti in contrattempo, come un giocoliere che salta fuori dalla schiera dei compagni e si mette a fare i suoi esercizi in prima fila; ultima trovata, di stampo haydniano, è quella dì accompagnare all'uscita il pianoforte in punta di piedi, con una nuova, amabile figura melodica impreziosita di acciaccature che si lasciano dietro una lieve scìa di trilli nel registro acuto e una esitante cadenza in pianissimo, che innesca la repentina replica dell'orchestra, adeguatamente robusta e conclusiva.

Giorgio Pestelli

Guida all'ascolto 2 (nota 2)

Benché pubblicato da Hoffmeister di Lipsia alla fine del 1801 e quindi dopo il Concerto in do maggiore, il Concerto in si bemolle maggiore op. 19 fu scritto qualche anno prima, tra il 1795 e il 1798, come rivela anche la maggiore sudditanza ai supremi modelli mozartiani del genere. Derivati direttamente da Mozart sono l'entrata del pianoforte con un tema del tutto nuovo dopo l'esposizione dell'orchestra (Allegro con brio), l'impasto timbrico di legni che fanno il tema, e gli archi che accompagnano con pizzicati mentre il pianoforte riassume il quadro armonico con arpeggi (Adagio); anche il ritmo di 6/8 per il Rondò finale è un suggerimento mozartiano (Concerti K. 450 e 595), benché proprio qui Beethoven si faccia sentire in prima persona per l'estrosità delle accentuazioni sincopate. Il concerto fu eseguito la prima volta da Beethoven stesso nel 1798 a Praga, sotto la direzione dì Antonio Salieri. (In realtà si tratta di una seconda versione, la versione originale è stata eseguita a Vienna il 29 Marzo 1795 n.d.r.)

Guida all'ascolto 3 (nota 3)

Il Concerto per pianoforte e orchestra n. 2 in si bemolle maggiore op. 19 si apre con un vivace e scoppiettante Allegro con brio. Beethoven dimostra tutta la freschezza dei suoi anni giovanili in questo lavoro non troppo dominato dalla personalità delle linee tematiche, ma assolutamente originale e spesso imprevedibile nelle soluzioni che egli imprime alla partitura. Si notano nella scrittura soprattutto una notevole ricchezza inventiva e una duttile articolazione dei profili motivici, con un fitto lavoro di intaglio e di recupero del materiale che trapassa da una parte all'altra, da una sezione all'altra del Concerto, un po' secondo lo stile di Haydn o di Mozart. Alcuni elementi sono ancora di retaggio palesemente «galante», così come colpisce il taglio del Concerto, pensato prettamente per il pubblico, con soluzioni brillanti e di sicuro effetto affidate all'orchestra e largo spazio per il virtuosismo dell'esecutore, mai comunque fine a se stesso. D'altronde il compositore, nel momento in cui scriveva queste pagine, era ancora e soprattutto un grande pianista desideroso di mostrarsi davanti alla sua platea e di mettere alla prova proprio lì la sua «fatica». Dal punto di vista delle architetture compositive è già evidente la sicurezza di Beethoven nel dominio della forma. A partire dal citato primo movimento, l'Allegro con brio, appare interessante la cornice di riferimento scelta: i due gruppi tematici principali sono ben distribuiti tra Esposizione orchestrale (primo gruppo) e Riesposizione solistica (secondo gruppo), tanto che nella Ripresa proprio questi ultimi sono scelti per essere riesposti, «saltando» le altre parti ritenute da Beethoven meno pregnanti. All'interno della struttura compare anche uno Sviluppo molto complesso, che recupera idee e spunti un po' da tutte le sezioni precedenti sottoponendole a profonde mutazioni e varianti.

Ma per giungere a queste soluzioni risulta interessante il percorso seguito dal compositore. Il primo gruppo dell'Esposizione orchestrale del movimento iniziale, ad esempio, spicca per la sua segmentata composizione, costruito com'è su più parti indipendenti eppure perfettamente collegate: lo definiscono, in alternanza, uno scalpitante motto su ritmo puntato pronunciato dall'orchestra e un tranquillo inciso di risposta in levare dei violini; il tema prosegue poi in un motivo acefalo non privo di gestualità galanti, basato su note ribattute. Dalla combinazione di questi elementi, dalla loro variazione e permutazione dipenderanno molti dei passi successivi dell'Allegro, come appare evidente ad esempio per il motivo acefalo, che ritorna nell'Epilogo dell'Esposizione, o nel delizioso interludio orchestrale, in cui letteralmente ispira una nuova frase opportunamente rivista in diminuzione e imitazione, o alla fine della Riesposizione, dove torna più vicino al profilo ritmico-melodico originario. Ma è soprattutto il motto introduttivo a dominare la scena fungendo da elemento base, da matrice sonora di molti passaggi: dopo l'esposizione orchestrale ricompare infatti subito nella frase di transizione alla dominante resa più instabile e nervosa proprio dal ritorno del motto puntato e dal raddoppio ritmico dell'accompagnamento, vivacizzato dal sostegno di gruppi di crome reiterate; anche nell'Epilogo dell'esposizione orchestrale ricompare, contribuendo ad aprire un episodio carico di contrasti e di strappi impetuosi, mentre nella riesposizione solistica il pianoforte mostra il suo volto più combattivo proprio quando prende in mano con personalità la situazione esponendo l'inciso iniziale nel ponte modulante. Come si vede, è specie nelle situazioni di contrasto, di movimento e di carattere che Beethoven fa riemergere il tratto incisivo del suo motto, utilizzato dunque per spingere in avanti il discorso e nelle parti strutturalmente più complesse ed elaborative; ancora lo ritroviamo infatti nei bassi per ispessire e innervare ritmicamente il registro grave, o nella grande frase di commiato che segue, o anche alla fine della Riesposizione, in un'anticipazione gravida di significati nella voce dei violini primi e secondi, presto confermata a piena voce con l'inizio della Ripresa.

Invece il terzo componente del primo gruppo tematico, il tranquillo inciso di risposta al motto introduttivo, compare in altri momenti musicali, di carattere e profilo diverso. Beethoven vi ricorre in particolare per le situazioni inattese, o per creare diversivi sviluppando nuovi episodi, oppure in funzione di chiusura di discorso, in questo caso associato al motivo acefalo per formare una nuova unità tematica. L'orchestra si ferma di colpo su tre note orchestrali all'unisono, poi ripetute un semitono sopra a re bemolle: è un vero e proprio coup de thèàtre, poiché l'ascoltatore, dopo un incedere del movimento così filante, tutto si aspetterebbe tranne che questo. Da tale interruzione compare, inaspettato, proprio il profilo dell'inciso di risposta, con quel suo caratteristico incedere morbido e avvolgente proposto dai violini e subito rilevato dai fiati in un meraviglioso dialogo sonoro; una simile situazione si ripropone durante lo Sviluppo, quando però questa volta è anche il pianoforte che, sollecitato dall'orchestra, ne disegna e ne sviluppa leggiadre elaborazioni. In altri casi ancora, l'inciso di risposta si collega al motivo acefalo; dalla combinazione nasce un'idea di congedo di particolare delicatezza; così è sfruttata alla fine dell'esposizione orchestrale poco prima dell'entrata del pianista, nella frase di commiato che conclude la riesposizione solistica e precede lo Sviluppo, alla fine dell'intero Allegro con brio, esposta dai violini primi in una brevissima coda di grazia e delicatezza mozartiane. Dal punto di vista del ruolo del solista la figura del pianoforte non è mai preponderante rispetto all'orchestra: non esiste un vero e proprio primo tema pianistico, poiché l'entrata del solista è affidata a una plastica presentazione su una frase preludiante che ce lo dipinge quasi in punta di piedi, come un protagonista atteso, brillante ma non ingombrante; e anche il secondo gruppo tematico è affidato prima all'orchestra e solo in seconda battuta alla voce del solista, che quindi guadagna terreno poco per volta e senza anticipare troppo i tempi, rispettoso di precisi equilibri prestabiliti. Inoltre, secondo una strategia ben congegnata, prende possesso della scena quasi replicando a specchio le esperienze dell'orchestra; dopo l'esposizione del secondo gruppo, riproponendo ad esempio un nuovo episodio imprevisto sullo stesso re bemolle, piano tonale che aveva già prediletto in precedenza l'orchestra; solo dopo questi passaggi gerarchici eccolo impegnato in una grande sezione virtuosistica interamente dedicatagli, estesa e «complessa» e con proprio nuovo materiale il pianoforte aveva affrontato un passo tecnico, ma piuttosto breve e con elementi «recuperati» da precedenti passi orchestrali. La cura di Beethoven nel disciplinare la forma è dunque impressionante, in questo senso degno erede della tradizione viennese. Ritroviamo dunque già in questo vivido e brillante primo tempo, una straordinaria opera di assemblaggio della forma che si riversa con risultati sorprendenti nell'ascolto.

Il secondo movimento è un Adagio di delicata fattura. I toni sfumati evocano un'atmosfera incantata da notturno mentre la parte tematica è di consistenza prettamente vocale. Si respira una certa misura e gradualità nello svolgersi delle idee, tutto procede pacatamente e con calma, quasi non si volesse smuovere troppo la superficie sonora, in un clima di quiete bucolica. Il tema principale dell'Adagio, in mi bemolle maggiore, ne è un caso esemplare: la sua fisionomia è svelata solo poco per volta ed esso prende forma progressivamente. All'inizio, intonato sottovoce da archi e fagotti, non viene infatti esposto nella sua interezza, perché i corni intervengono con un inciso ripetuto su ritmo puntato che ne smorza l'eloquio, sino a comprimerlo, spegnendolo in un accordo irrisolto e procrastinato. Il denso flusso sonoro si spezza in un fortissimo da cui si sprigiona una nuova frase che poco dopo tornerà ad assumere caratteristiche sospensive, sul ritorno del ritmo puntato. Beethoven aspetta invece il pianoforte per riavviare il tema e questa volta esporlo in tutta la sua interezza, ma sempre con il caratteristico respiro lento, modellandolo poi finemente in una successiva e più ampia riesposizione elaborativa che ne completa il carattere lirico. La sezione centrale dell'Adagio (B) presenta una seconda idea nella dominante si bemolle maggiore. Scambiata in eco tra pianoforte e orchestra, è conclusa in una frase sospirosa di grande trasporto del solista. A questo punto l'orchestra commenta questo intervento con una sorta di piccolo sviluppo in nuce; l'ambiente armonico si increspa e sono introdotti chiari elementi tensivi: è una scossa che muove il solista a reintrodursi nel discorso con una frase di cerniera melodica verso la tonica che riporta progressivamente allo stato di quiete. La Ripresa è doppia, poiché contempla il ritorno sia di A che di B. Prima torna il tema principale dell'Adagio rivisitato in veste fiorita dal pianoforte. Poi è lo stesso pianoforte che procede con un fluente movimento di terzine simile a un dolce mormorio sul quale l'oboe, sostenuto dai fiati, intona con respiro struggente la melodia principale, melodia che infine si conclude con la frase declinante del piano. È un momento magico di questo movimento, che restituisce all'ascoltatore sensazioni di grazia impagabile.

Anche la ripresa di B dipinge, attraverso squisite sfumature, il secondo tema, scambiato tra pianoforte e orchestra, ma ora nel tono d'impianto di mi bemolle maggiore; questa volta però il pianoforte prosegue in un nuovo, luminoso episodio in cui con il suo tocco vellutato diventa il protagonista assoluto della vicenda sonora. Dopo il corrucciato commento dell'orchestra c'è spazio anche per una piccola cadenza in stile recitativo del pianoforte, con gli archi che rispondono in pianissimo con brevi respiri ricavati ancora una volta dal tema principale. Infine una frase di coda pronunciata da tutta l'orchestra conclude l'Adagio con echi bucolici e pastorali.

L'ultimo movimento è un Rondò in tempo Allegro molto. Lo domina un tema-refrain sbarazzino nella tonica si bemolle maggiore. Il pianoforte si trova a suo agio nell'esporlo sfruttando le proprie doti tecniche di strumento virtuoso e brillante, ma anche l'orchestra esibisce un'agilità inconsueta fatta di scalette, rimbalzi, volate, scatti vibranti, e anche giochi dinamici, nouances e chiaroscuri timbrici. Come nel primo movimento, passaggi e sorprese inattese sono dietro l'angolo (come le scalette interrotte che frammentano sorprendentemente il flusso sonoro), così come c'è una ricerca per il senso del bello, dell'ornamento, del movimento corale, quasi a replicare in musica le sensazioni di un elegante evento di festa, la categoria mentale di un sentimento di gaiezza viva e spigliata. Per questo non mancano espliciti richiami a temi di ballo e di danza, motivi e melodie di sapore tzigano, folclorico, come il compositore ama talvolta fare nelle sue composizioni.

Già all'inizio il tema principale, esposto immediatamente dal pianoforte e curiosamente accentato sul tempo debole, rivela la sua natura imprevedibile e un po' umoristica: funziona da avvolgente invito alla danza, al coinvolgimento di gruppo; l'orchestra risponde subito con lo stesso spirito. Anche durante la transizione alla dominante tutto scorre veloce, senza respiro, comprese le brucianti figurazioni in ottave spezzate del pianoforte che aprono la strada a una sua prima «uscita» virtuosistica. Il primo dei due episodi solistici consiste in un breve motivo rimbalzante e ritmico che trascina anche l'orchestra in uno scambio dialogico serrato. Poco dopo quest'ultimo diventa irresistibile richiamo anche per il ritorno del refrain di base, ma questa volta Beethoven lo propone fortemente variato: ne mantiene infatti solo l'intervallo-quadro (una terza discendente), correggendone il percorso e l'andamento melodico e soprattutto ne «normalizza» l'accentuazione trasferendola in battere sull'accento forte, secondo il ritmo indotto proprio dal primo episodio: un esempio della cura assoluta anche del particolare all'interno di questo sgargiante quadro sonoro. Dopo il ciclico ritorno del tema principale del rondò, il secondo episodio solistico ancora una volta porta una ventata di estro e freschezza: ambientato in modo minore, appare come un misterioso canto tzigano che attrae e conquista; l'orchestra si contrappone all'inquietudine del solista con lunghe e più stabili stringhe melodiche di commento. Questa volta l'accento è spostato in avanti, esattamente come nel refrain di base. A questo punto Beethoven affronta la sezione di Ripresa del materiale tematico con il ritorno del refrain, della transizione - qui non più modulante per mantenersi nel tono d'impianto -, del primo episodio e infine delle scalette interrotte che precedevano il ritorno del refrain; ma ora di esso se ne sente solo l'incipit, e sorprendentemente in sol maggiore, visibilmente rallentato e con l'accento spostato «regolarmente» sul tempo forte. È un effetto inatteso, che cambia fisionomia al rondò e prepara la grande sezione conclusiva. Una frase di collegamento consistente in una vivace e precipitosa elaborazione di un segmento del refrain e poi in una Ripresa testuale ma scorciata - in si bemolle maggiore - ancora del refrain di base conduce rapidamente alla fase finale del Concerto. Come in un veloce tourbillon, temi ed episodi si sono accavallati sempre più velocemente man mano che il rondò procedeva. Dopo tanto succedersi di motivi conduttori, dopo che il materiale è stato più volte presentato, esposto e ripreso, nell'Epilogo nulla rimane se non la necessità di concludere il discorso con i toni che l'hanno definito, ovvero quelli della festa galante. Si apre un quadro dalle tinte cariche di colori costituto da nuovi elementi. Un'autentica pioggia, una vera cascata sonora invade la scena, con vaporose volate in arpeggio e doppie scale cromatiche per terze discendenti del solista; l'orchestra commenta scambiandosi col piano spezzoni del refrain in forma di tranquilla e un po' vanitosa gestualità attraverso una annuente codetta. Infine intervengono le ferme asserzioni di fiati e archi nel risoluto accordo finale sulla tonica si bemolle maggiore.

Marino Mora

Guida all'ascolto 4 (nota 4)

Il Concerto in si bemolle op. 19 che da sempre tutti considerano e definiscono come il secondo dei cinque per pianoforte e orchestra che figurano nel corpus beethoveniano è in realtà il primo, precedendo nel tempo il Concerto in do maggiore pubblicato come op. 15 (e dunque correntemente noto come Primo) di circa un paio d'anni. Il Concerto in si bemolle venne infatti composto fra il 1794 e il '95 («frettolosamente», aggiunge qualcuno), per un'occasione ben precisa, e molto importante per Beethoven, la serie di tre serate consecutive al Burgtheater nella quale il musicista venticinquenne fece il suo debutto in grande stile come pianista e compositore di fronte al pubblico di Vienna, nel quadro di una grande «accademia» organizzata da Haydn a beneficio delle vedove dei caduti in guerra; oltre a eseguire il Concerto K. 466 di Mozart e a esibirsi come improvvisatore, Beethoven presentò, all'inizio della prima serata (29 marzo 1795), il Concerto in si bemolle, guadagnandosi, come riferì la «Wiener Zeitung», «l'unanime approvazione del pubblico». Probabilmente fu proprio l'esito felice di quella serata a spingere Beethoven a eseguire il Concerto in si bemolle, insieme con quello in do maggiore composto nel frattempo, nel corso della tournées (le prime e le ultime della sua vita) svolte fra il 1796 e il 1798 con grande successo e apprezzabili risultati finanziari, e che lo portarono a Praga, Lipsia, Dresda, Presburgo, Budapest, Berlino. A pubblicarlo, tuttavia, Beethoven si risolse soltanto dopo qualche anno, e non senza prenderne in certo senso le distanze. Nel gennaio 1801, dopo aver già affidato la pubblicazione dell'altro Concerto, il cosiddetto Primo, ad altri, Beethoven offriva all'editore Hoffmeister di Lipsia un gruppo di composizioni fra le più importanti del suo primo periodo viennese: il Settimino op. 20, la Prima sinfonia, la Sonata op. 22 per pianoforte e appunto il Concerto in si bemolle: nel proporre le sue condizioni, Beethoven mostrava di non tener più in gran conto il lavoro che gli era valso tanto «unanime approvazione» poco tempo prima: «Il Concerto lo metto soltanto 10 ducati perché, come ho già scritto, non lo considero tra i miei migliori e non credo che il prezzo, tutto compreso, Le sembri esagerato». Forse proprio al momento di dare alle stampe il Concerto, Beethoven operò una sostituzione (non dimostrata al cento per cento, ma data per probabile da molti), quella del Finale, la cui versione originaria sarebbe da rintracciare in un isolato Rondò in si bemolle ripubblicato qualche decina di anni fa e che sporadicamente capita di ascoltare.

Il giudizio sfavorevole dello stesso Beethoven, si direbbe, fu la prima e non ultima delle ipoteche che, dopo le affermazioni dei primi anni, hanno pesato sul Concerto in si bemolle, che è rimasto un po' la Cenerentola dei cinque Concerti beethoveniani, per essere quello meno eseguito dagli interpreti e meno considerato dalla critica. E certamente, il cammino che Beethoven fece percorrere nei quindici anni scarsi che separano questo suo primo confronto (non valendo la pena di tener conto di quel Concerto in mi bemolle composto nel 1784, e del quale ci è rimasta solo la parte pianistica) con un genere destinato sempre di più, nel corso del secolo, a esser considerato «minore», perché più compromesso di altri con le esigenze più esteriori del concertismo, e meno suscettibile di esser sottoposto all'intensa elaborazione e integrazione formale di una Sinfonia o di una Sonata, dalle grandiose architetture dell'Imperatore, è lungo assai; per tacere del fatto che già la prova immediatamente successiva, il Primo concerto in do maggiore, e ancor più il Terzo, cui Beethoven stava appunto lavorando quando svendeva all'editore il Secondo, denotano una consapevolezza compositiva e stilistica ben più profonda, e connotati più originalmente «beethoveniani». Rispetto a questi, il Secondo concerto resta quello che è: un lavoro relativamente disimpegnato, scritto a proprio uso per imporsi presso un pubblico dai gusti ben definiti, senza turbarlo più che tanto: carattere che potrebbe dar ragione, anche senza renderlo valido in tutto e per tutto, al netto rifiuto di un Ferruccio Busoni, che ci vedeva soltanto una brutta copia dei Concerti di Mozart.

Naturalmente il settecentismo di Beethoven è sempre assai relativo: anche prima di elaborare uno stile e un'etica del comporre propri e originali, Beethoven infondeva spontaneamente nella sua musica, seppure ancora il modo inconsapevole, quel «di più» per cui i panni aggraziati ed eleganti del Settecento sembrano sempre stargli stretti di qualche misura, con non poco danno per certe cuciture che spesso tendono a saltare. Ma pur tenendo presenti queste premesse, è lecito iscrivere il Concerto in si bemolle nel quadro di una musica «di società», scritta per se stesso da un pianista che deve conquistarsi approvazione il più possibile «unanime», e che ha ben presenti i modelli cui rifarsi: e che in questo caso sono il Concerto di tipo «marziale» entrato in voga sull'onda di una certa sensibilità neoclassica (Carli Ballola richiama giustamente Clementi, Viotti e Cramer, ma lo stesso Mozart non mancò di omaggiare più volte questo gusto), e la tranquilla ancorché commossa espansione di affetti, determinata da un dialogo ancora equilibrato fra strumento solista e orchestra, che si espandeva negli Adagi haydniani e mozartiani, come il virtuosismo vistoso quanto prevedibile del pianismo «brillante». L'ampia e robusta introduzione orchestrale del primo movimento sembra annunciare fin dall'inizio quel tanto di vecchio e di nuovo che Beethoven sa proporre in questo stadio della sua creatività; nel proseguire del brano, più volte si avverte il contrasto delle intenzioni più scopertamente accattivanti con l'urgere di ben altrimenti profonde necessità emotive. L'Adagio è probabilmente la carta ancor oggi vincente del Concerto: un clima intenso e commosso, creato in apertura dagli archi, circonda il canto sentito e purissimo del pianoforte, che domina tutto lo svolgimento del secondo tempo anche quando, nella ripresa, il tema è affidato all'orchestra, e lo strumento solista vi ricama intorno toccanti variazioni in terzine; e alla coda c'è un momento veramente profetico di ben altri traguardi espressivi, con il breve dialogo fra il pianoforte e gli altri strumenti. Il Rondò si basa su un tema popolaresco, alternato a un motivo cantabile di sapore quasi schubertiano: e stabilisce la giusta conclusione di un'opera certo limitata quanto ad ambizioni formali, ma segnata dal tranquillo è sano ottimismo di chi parte, ricco di speranze,e di entusiasmo, per un viaggio lungo e grande.

Daniele Spini


(1) Testo tratto dal programma di sala del Concerto dell'Accademia di Santa Cecilia;
Roma, Auditorium Parco della Musica, 6 Dicembre 2004
(2) Testo tratto dal Repertorio di Musica Sinfonica a cura di Pietro Santi, Giunti Gruppo Editoriale, Firenze, 2001
(3) Testo tratto dal libretto inserito nel CD allegato al n. 142 della rivista Amadeus
(4) Testo tratto dal programma di sala del Concerto del Maggio Musicale Fiorentino,
Firenze, Teatro Comunale, 27 settembre 1980

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Ultimo aggiornamento 3 novembre 2017