Variazioni in do maggiore su un valzer di Diabelli per pianoforte, op. 120


Musica: Ludwig van Beethoven (1770 - 1827)
  1. Tema: Vivace Alla Marcia maestoso
  2. Poco Allegro
  3. L'istesso tempo
  4. Un poco più vivace
  5. Allegro vivace
  6. Allegro ma non troppo e serioso
  7. Un poco più allegro
  8. Poco vivace
  9. Allegro pesante e risoluto
  10. Presto
  11. Allegretto
  12. Un poco più moto
  13. Vivace
  14. Grave e maestoso
  15. Presto Scherzando
  16. Allegro
  17. Allegro
  18. Poco moderato
  19. Presto
  20. Andante
  21. Allegro con brio - Meno allegro - Tempo primo
  22. Allegro molto, alla 'Notte e giorno faticar' di Mozart
  23. Allegro assai
  24. Fughetta (Andante)
  25. Allegro
  26. (Piacevole)
  27. Vivace
  28. Allegro
  29. Adagio ma non troppo
  30. Andante, sempre cantabile
  31. Largo, molto espressivo
  32. Fuga: Allegro
  33. Tempo di Minuetto moderato
Organico: pianoforte
Composizione: 1819
Edizione: Cappi e Diabelli, Vienna 1823
Dedica: Antonia Brentano
Guida all'ascolto 1 (nota 1)

Le circostanze che favorirono la composizione delle Variazioni op. 120 sono assai note, tanto che basterà qui riassumerle molto brevemente.

L'editore viennese Antonio Diabelli ebbe l'idea di mettere insieme una specie di Parnaso nazionale chiedendo a molti compositori residenti nell'impero asburgico di scrivere ciascuno una Variazione su un suo valzer. La raccolta, pubblicata nel 1824 sotto il pomposo titolo Società Nazionale degli Artisti. Variazioni per pianoforte su un tema originale, composte dai più eccellenti compositori e virtuosi di Vienna e dell'Impero Austrìaco, comprendeva cinquanta Variazioni di cinquanta diversi compositori. Tra i cinquanta troviamo molti musicisti oggi sconosciuti e qualche celebrità: Schubert, Moscheles, Hummel, Czerny, Kalkbrenner, il tredicenne Liszt. Non troviamo Beethoven, perché Beethoven si era messo a lavorare sul valzer di Diabelli fin dal 1819, e nel 1823 aveva consegnato all'editore un monumento di ben trentatré Variazioni, che furono pubblicate nello stesso anno con dedica ad Antonia Brentano, moglie del banchiere Franz e cognata di Bettina e Clemens Brentano. Siccome Vincent d'Indy sostenne un tempo una sua tesi sulle convinzioni razzistiche di Beethoven, affermando tra l'altro che il compositore non aveva dedicato ad ebrei nessuna della sue opere, non è fuor di luogo osservare che Antonia Brentano, nata von Birbenstock, era ebrea.

Le Variazioni op. 120 sono la composizione che riassume in sé, in una sintesi storica irripetibile, tutto il cammino a ritroso compiuto da due generazioni di musicisti che avvertirono per primi il problema di inserire la creazione musicale nella storia anziché nell'attualità. Partendo dalla geometria elementare - ma non banale, a parer nostro - del valzer di Diabelli, Beethoven trascorre attraverso atteggiamenti stilistici diversi per concludere con cinque Variazioni di sapore arcaico, che ricordano il barocco o (l'ultima) un Settecento sentito come luogo di un'arcadia trasfigurata. La definitiva riacquisizione di stilemi del passato è un tratto fondamentale del tardo Beethoven (si pensi alle Fughe delle ultime Sonate e degli ultimi Quartetti, o all'uso della modalità antica nella Missa solemnis e nel Quartetto op. 132). Qui Beethoven torna verso il barocco: le Variazioni ventinovesima e trentunesima sono due adagi barocchi (il secondo del tipo dell'Adagio violinistico con fioriture improvvisate), la Variazione trentesima è una Invenzione a quattro voci, non rigorosa, e la trentaduesima è una doppia Fuga; la trentatreesima è un Tempo di Minuetto, cioè un minuetto stilizzato o trasfigurato, che il Geiringer chiama giustamente «un epilogo in cielo».

Le suddivisioni strutturali non sono indicate da Beethoven; ma la cura dell'autore, evidentissima, nel differenziare le Variazioni mediante l'alternarsi di ritmi, velocità, modi di attacco del suono diversi, pone, a chi studia l'op. 120, il problema di individuarle. La divisione in due parti è evidente: la straordinaria ventesima Variazione, che Liszt chiamava «la sfinge» e che tanto piaceva a d'Annunzio, tutta condotta al limite di intensità piano, con bassissima densità ritmica e senza che venga mai toccato il registro acuto del pianoforte, rappresenta nel modo più chiaro la conclusione della prima parte e lo spartiacque tra la prima e la seconda. Le due parti seguono quindi la proporzione della sezione aurea, perché il rapporto tra i trentaquattro pezzi (Tema e trentatré Variazioni) dell'insieme e i ventuno (Tema e venti Variazioni) della prima parte è uguale al rapporto tra i ventuno della prima e i tredici (Variazioni dalla ventunesima alla trentatreesima) della seconda parte. Anche le due parti sono a loro volta suddivise secondo la sezione aurea: la prima parte presenta una suddivisione tra la dodicesima e la tredicesima Variazione, la seconda tra la ventottesima e la ventinovesima. La composizione è quindi organizzata secondo questi quattro gruppi principali:

  1. Tema - Var. XII (13 pezzi)
  2. Var. XIII - Var. XX (8 pezzi)
  3. Var. XXI - Var. XXVIII (8 pezzi)
  4. Var. XXIX - Var. XXXIII (5 pezzi)

Infine, anche il primo gruppo è suddiviso secondo la sezione aurea: questa suddivisione è meno evidente, ma in realtà è importantissima, perché nella quinta Variazione viene cambiata per la prima volta la struttura tonale del valzer (invece dell'andamento dalla tonica alla dominante e viceversa, nella quinta Variazione si passa dalla tonica al relativo minore della dominante e viceversa). Con la ulteriore suddivisione del primo gruppo Beethoven stabilisce quindi, all'interno della suddivisione generale secondo la lezione aurea, una suddivisione simmetrica: 5, 8, 8, 8, 5 pezzi.

La serie delle Variazioni, che non aveva trovato se non per eccezione una vera concentrazione formale, si organizza così per gruppi e su un arco serrato, scandito secondo proporzioni precise e funzionali che diventeranno un modello di organizzazione per i cicli romantici di forme brevi. Accanto alle Variazioni op. 120 terminate nel 1823 si pongono infatti subito le Valses sentimentales di Schubert, composte tra il 1823 e il 1824 e pubblicate nel 1825: un ciclo di trentaquattro pezzi, organizzato secondo rapporti formali molto sottili, che tengono conto di simmetrie geometriche e della sezione aurea. Il passo rivoluzionario che Schubert compie, rispetto a Beethoven, riguarda la struttura tonale: mentre le Variazioni op. 120 mantengono ancora l'unità tonale (la tonalità di do maggiore prevale nell'arco complessivo della composizione), le Valses di Schubert la spezzano, creando un inedito rapporto tra una prima ed una seconda area tonale, distanziate di una terza maggiore discendente.

Piero Rattalino

Guida all'ascolto 2 (nota 2)

Nato nel 1781 nei pressi di Salisburgo e allievo di Michael Haydn, Anton Diabelli fu molto apprezzato a Vienna come insegnante di pianoforte e chitarra; e in effetti mentre la sua produzione musicale, non andando oltre un onesto mestiere, è stata presto dimenticata, alcune delle sue moltissime opere didattiche trovano posto ancora oggi sui leggii di pianisti e chitarristi alle prime armi. Oltre all'attività di compositore e di insegnante, a partire dal 1818, per quasi trentacinque anni Diabelli si dedicò anche all'editoria musicale, prima in società con Pietro Cappi e poi in proprio, pubblicando soprattutto opere teoriche e didattiche e musiche di carattere prevalentemente leggero: Strauss, Lanner, ma anche molti dei Lieder e delle danze pianistiche di Franz Schubert, di cui nel 1851 realizzò il catalogo tematico delle opere.

Intorno al 1819, all'inizio della sua attività editoriale in proprio, Diabelli ebbe un'idea singolare dagli indiscutibili vantaggi pubblicitari: compose un semplice valzer di sedici battute e lo inviò «agli eccellenti compositori e virtuosi di Vienna e degli imperialregi Stati austriaci» pregando ciascuno di loro di scrivere una variazione. L'operazione presentava indubbiamente vantaggi sia per l'editore che per il suo pubblico: Diabelli riusciva d'un colpo a stabilire un contatto con praticamente tutti i compositori di area tedesca dell'epoca, mentre gli appassionati di musica trovavano una raccolta di piccoli brani che compendiava gli stili di tutti quei compositori e nello stesso tempo - come annunciava l'editore con una punta di orgoglio - un vero e proprio «dizionario alfabetico di tutti i nomi dei musicisti, in parte già da lungo tempo affermati, in parte ancora molto promettenti, della nostra magnifica epoca».

L'iniziativa ebbe senz'altro successo visto che nel giro di due o tre anni vi aderirono numerosi compositori: Diabelli ne scelse cinquantuno, e il suo «dizionario alfabetico», pubblicato poi nel 1824, va da Ignaz Assmayer a Johann Hugo Worzischek, passando per musicisti allora molto popolari come Carl Czerny, Johann Nepomuk Kummel, Friedrich Kalkbrenner, Conradin Kreutzer, Ignaz Moscheles; la raccolta comprende anche i contributi di alcuni aristocratici dilettanti di musica, primo fra tutti l'Arciduca Rodolfo - allievo e amico di Beethoven - autore della Variazione n. 40 (una fuga!) e anche quelli di molti musicisti che oggi rappresentano per noi solamente dei nomi senza importanza o tuttalpiù delle curiosità, come quel Wolfgang Amadeus Mozart, figlio omonimo del grande Amadé. Ma accanto a questi troviamo nomi di ben altra importanza, come quelli di Franz Schubert e di Franz Liszt, sicuramente uno dei musicisti «molto promettenti» di cui parlava Diabelli, visto che scrisse la sua Variazione all'età di soli undici anni; ma, soprattutto, Diabelli riuscì a coinvolgere nella sua iniziativa quello che era universalmente riconosciuto come il più grande compositore vivente, Ludwig van Beethoven.

Beethoven si era dedicato molte volte al genere del tema con variazioni fin dal 1782, quando, appena dodicenne, aveva composto e pubblicato le Nove Variazioni in do minore su una marcia di Dressler; delle diciannove serie di variazioni composte fra il 1782 e il 1809 bisogna ricordare almeno le 15 Variazioni e fuga su un tema del balletto Le Creature di Prometeo op. 35, del 1802, e le 32 Variazioni in do minore su un tema originale, del 1806. Oltre ad alcune altre serie di variazioni composte per vari organici cameristici, Beethoven aveva naturalmente fatto ricorso al genere del tema con variazioni anche in molti movimenti di sonate e sinfonie; ma negli ultimi anni della sua vita l'interesse per la tecnica della variazione era divenuto talmente preponderante da costituire, insieme alla scrittura di tipo contrappuntistico, il tratto più immediatamente caratterizzante della sua estrema stagione creativa.

Tuttavia sembra che inizialmente Beethoven non fosse affatto intenzionato ad aderire all'invito di Diabelli e che trovasse troppo ripetitivo e meccanico il tema, da lui definito ironicamente «toppa del ciabattino»; molto presto però il compositore cambiò completamente parere. Già in una lettera a Simrock del febbraio del 1820, infatti, parla delle «grandi variazioni su un valzer tedesco», visto che ormai aveva deciso di inviare a Diabelli non una sola variazione ma un'intera serie. Secondo un recente studio di William Kinderman, Beethoven, partito con l'intenzione di comporre sei o sette variazioni, ne aveva già abbozzate ventitre nel corso del 1819; a questo punto, le accantonò per alcuni anni per dedicarsi alle ultime tre sonate per pianoforte, alla Missa Solemnis e ad altri lavori, e le riprese solo nell'inverno 1822-23 completandole, ampliando il finale e aggiungendone addirittura dieci completamente nuove (le numero 1, 2, 15, 23-26, 28-29 e 31), realizzando così il suo lavoro pianistico più ampio e complesso.

Le 33 Variazioni di Beethoven si rivelarono in effetti un'opera talmente monumentale da sganciarsi completamente dal progetto originario di Diabelli, che infatti nel giugno del 1823 le pubblicò separatamente - come op. 120 con dedica ad Antonie Brentano - con il titolo tedesco, gradito all'autore, di 33 Veränderungen uber einen Walzer für das Pianoforte. L'anno seguente poi, Diabelli diede finalmente alle stampe il suo «dizionario alfabetico», articolato in due volumi e intitolato Vaterländischer Künstlerverein (Circolo patrio degli artisti), ripresentando le Variazioni beethoveniane a fianco di quelle di altri cinquanta compositori.

Ma cosa aveva trovato Beethoven di tanto interesse nell'innocuo Valzer di Diabelli? Molti critici si sono meravigliati della straordinaria capacità beethoveniana di trarre un capolavoro di così grande ricchezza e varietà da un motivo così banale; ma come ha acutamente osservato Giovanni Carli Ballola, «non fu nonostante, ma attraverso la schematicità del tema proposto, che a Beethoven riuscì di creare quella che possiamo francamente definire come la sua summa theologica dell'arte della variazione. Egli lesse il valzer come in una radioscopia, mettendone a nudo l'impalcatura consistente in uno schema metrico di 16 più 16 battute, preceduto da anacrusi, e in un giro armonico fondato sull'alternanza di tonica (do) e dominante (sol), con elementari progressioni modulanti». Dopo aver esaminato ai raggi X l'innocuo Valzer di Diabelli, Beethoven non ne sottopone a variazioni semplicemente il "motivo", il tema, ma le stesse strutture portanti, «l'impalcatura», i tratti caratteristici a livello filmico, armonico, intervallare. Di volta in volta questi vari elementi - il ritmo ternario, l'anacrusi dell'inizio, gli accordi ribattuti, gli intervalli e i semplici giri armonici - vengono enfatizzati o ricondotti al grado zero con una gradazione e un'intenzione sempre diverse, in modo che ciascuna variazione viene ad assumere un suo aspetto particolare; ma proprio perché investono la struttura del tema e non semplicemente la sua melodia, per il fatto insomma di essere delle «variazioni strutturali» - come le ha definite Riezler - le Variazioni beethoveniane conservano sempre, pur nel loro continuo ed eterogeneo divenire, una straordinaria coesione interna. Anche quando sembra perdersi completamente ogni legame con il Valzer di partenza - come nel caso emblematico della Variazione n. 22 («alla "Notte e giorno faticar" di Mozart») che citando letteralmente l'incipit della celebre sortita di Leporello nel Don Giovanni mozartiano sembra essere costruita su un tema del tutto diverso - è ancora una volta la struttura, «l'impalcatura» ad essere parafrasata e a garantire il legame con il tema di partenza: al dì là del divertente aneddoto riferito da Czerny secondo cui Beethoven avrebbe utilizzato questo tema per protestare scherzosamente contro le pressioni di Diabelli affinchè completasse al più presto il lavoro, i due motivi sono accomunati dal fatto di presentare all'inizio un intervallo di quarta discendente seguito subito dopo da uno di quinta discendente.

Carlo Cavalletti

Guida all'ascolto 3 (nota 3)

L'occasione esterna che dette origine alle monumentali «Trentatré Variazioni, op. 120» fu un concorso che l'editore Anton Diabelli bandi nel 1821 fra «i più distinti musicisti e virtuosi di Vienna e dei regi imperiali Stati austriaci» per la composizione di una serie di variazioni su un proprio valzer. L'album risultante da questa proposta, alla quale avevano aderito ben cinquantuno compositori, fu pubblicato nel 1824 e, fra i nomi celebri, oltre Beethoven, vi si trovano quelli di Schubert, Liszt, Czerny. Le «Variazioni» beethoveniane erano già state pubblicate però nel 1823 con il numero d'opera 120.

Il lavoro conclude cosi, con uno splendido monumento, l'intera opera pianistica del compositore e la sua valutazione critica può essere affrontata, come sempre accade con i capolavori, da diversi punti di vista. Anzitutto, per il significato ideologico che assume, insieme con gli altri contemporanei lavori di Beethoven (la «Nona Sinfonia», le ultime Sonate per pianoforte, gli ultimi Quartetti), nel senso di testimonianza artistica della maturazione rivoluzionaria dell'illuminismo settecentesco e della conseguente esigenza di libertà in tutti i campi. Dalla nascita di questo nuovo individualismo deriva anche una rivoluzione dei mezzi espressivi che, in un artista della sensibilità e del genio di Beethoven, si manifesta nel distacco da ogni precedente formalismo strutturale e dialettico. In altri termini, nella creazione di un nuovo stile.

Da questo punto di vista, infatti, è la struttura formale e ritmica del modesto tema di Diabelli che Beethoven ha posto a base delle sue «Variazioni», tanto che si è potuto parlare di variazioni di struttura e quindi, in definitiva, di variazione di tutti i parametri del suono, un fatto che precorre direttamente le esperienze più avanzate della musica d'oggi.

Infine, per quanto riguarda più specificamente la forma della variazione, non va dimenticato che le «Variazioni, op. 120» concludono al più alto livello un'esperienza sempre più frequente nelle opere dell'ultimo Beethoven non tanto come lavoro a sé (le ultime significative variazioni su un tema da «Le rovine di Atene» risalgono infatti al 1809), quanto perché divenuta ormai organica, come sopra si accennava, al linguaggio del musicista; basta ricordare a questo riguardo l'Adagio della «Sonata in si bemolle maggiore, op. 106» per pianoforte, la celebre «Hammerklavier».

Non c'è dubbio che, se dal punto di vista formale e della tecnica dello strumento, l'op. 120 esaurisce tutte le possibilità dell'arte della variazione, essa rappresenta soprattutto una sorta di universo che riassume in sé i fondamentali atteggiamenti spirituali della vita, per cui al di là del pur altissimo magistero tecnico e della grande costruzione intellettuale, il lavoro ci appare una fondamentale manifestazione dell'umanesimo beethoveniano.

È ovvio che in una tale tensione espressiva, il mediocre valzer di Diabelli, con il suo schema metrico di 16 più 16 battute, finisca per diventare poco più che un pretesto per un'opera che si svolge in piena autonomia linguistica. Fin dalla prima variazione, infatti, il tema del valzer viene come distanziato da una dimensione ritmica ed espressiva che ne mette completamente a nudo il semplicistico schema strutturale. L'essenzialità della scrittura polifonica unita ad una suprema libertà di invenzione consente cosi al maestro di eludere con soluzioni ogni volta diverse e geniali i riferimenti obbligati allo schema iniziale, tanto che nella ventiduesima variazione, Beethoven può prendere addirittura come tema d'inizio quello del «Notte e giorno faticar» di Leporello nel «Don Giovanni» di Mozart. Momenti di grande dolcezza melodica, come nella terza e quarta variazione, diafane trasparenze (come nell'ottava), si alternano a momenti di più spiccato costruttivismo (sesta, ventunesima e soprattutto ventesima variazione), per concludere poi il lavoro in un crescendo patetico ed espressivo (29, 30 e 31) che sbocca nella fuga a due soggetti della penultima variazione e nell'umanissimo e dolce «Tempo di Minuetto» finale.

Mario Sperenzi


(1) Testo tratto dal programma di sala del Concerto dell'Accademia di Santa Cecilia,
Roma, Auditorio di Via della Conciliazione, 17 Gennaio 1991
(2) Testo tratto dal programma di sala del Concerto dell'Accademia Filarmonica Romana,
Roma, Teatro Olimpico, 11 febbraio 1993 (3) Testo tratto dal programma di sala del Concerto del Maggio Musicale Fiorentino,
Firenze, Teatro Comunale, 5 giugno 1976

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Ultimo aggiornamento 24 febbraio 2020