Dido and Aeneas, Z. 626

Opera in tre atti

Musica: Henry Purcell (1659 - 1695)
Testo: Nahum Tate da Virgilio

Ruoli: Organico: 2 violini, viola, basso continuo
Composizione: 1677 - 1688
Prima rappresentazione: Londra, Pensionato femminile di Josias Priest, Chelsea, ? ottobre 1689
Sinossi

Atto primo.

L’ouverture, nella forma francese di un solenne Adagio cui segue uno spumeggiante tempo veloce, ci introduce nel palazzo reale di Cartagine. Belinda, confidente di Didone, intuisce il suo tormento, e cerca di distoglierla dai funesti presagi che la opprimono prospettandole un futuro raggiante (“Shake the cloud from off your brow”); il coro dilata e sostiene il suo stato d’animo (“Banish sorrow, banish care”). Ma Didone, nella bellissima aria in forma di ciaccona che chiude l’episodio, si tormenta e afferma di considerare la pace ormai estranea alla sua anima (“Ah Belinda, I am press’d with torment”). Nel recitativo seguente, Belinda la spinge a confidarsi, intuendo che l’ospite troiano è la causa della sua inquietudine. Confidando che l’alleanza permetterà a Troia di rinascere e porterà maggiore sicurezza a Cartagine, la sua voce si espande melodicamente fino a introdurre l’augurio del coro per un accresciuto benessere dei due popoli (“When monarchs unite, how happy their states”). Il successivo recitativo (“Whence could so much virtue spring”), nel quale Didone esprime tutta la sua ammirazione per Enea, riconoscendo in lui il valore di Anchise e il potere di seduzione di Venere, gradualmente si espande, coinvolgendo Belinda in un appassionato e lirico duetto. Belinda ammette che il racconto di Enea, così carico di sventure, avrebbe impietosito una pietra. Didone, anch’ella provata dall’esistenza, nutre compassione e simpatia per il dolore altrui. Il duetto culmina nel ritmo ternario e sincopato di danza ‘veloce e leggera’ affidata a Belinda, a una seconda donna e al coro, che incitano la regina ad abbandonarsi all’amore e a goderne tutta la dolcezza (“Fear no danger to ensue”). Nel successivo recitativo, sempre molto espressivo, Belinda, vedendo arrivare Enea (“See, your royal guest appears”), spinge Didone a manifestare il suo sentimento; ma ella teme il destino avverso. Il coro intreccia un fitto contrappunto polifonico sul tema del dolore amoroso, che può essere lenito solo da chi l’ha provocato (“Cupid only throws the dart”). Enea, nel recitativo seguente, implora l’amore di Didone, se non per la sua salvezza, almeno per quella del’impero (“If not for mine, for empire’s sake”). La linea vocale di Belinda sulle parole “Pursue thy conquest, Love, her eyes Confess the flame her tongue denies”) è seguita da un inno all’Amore intonato dal coro, che coinvolge la natura circostante e sfocia in un danza trionfale (“To the Hills and the vales, to the rocks and the mountains”), su ritmi puntati alla francese, alla fine della quale le indicazioni di scena prescrivono tuoni e lampi.

Atto secondo.

In una caverna. Su un funereo e inquietante ritmo di marcia, si ode il preludio delle streghe; quindi la maga invoca le «malefiche sorelle» perché compiano il misfatto che «brucierà tutta Cartagine»: la regina, prima del tramonto, dovrà perdere gloria, vita e amore. Un elfo apparirà a Enea con le sembianze di Mercurio, messaggero di Giove e gli ordinerà di ripartire nella notte, con la flotta, alla ricerca degli italici lidi. Il coro intercala gli ordini della maga dando voce alle streghe, che prima si compiacciono del loro potere distruttivo e quindi si scatenano in due episodi in parossistico stile fugato, intessuto su grida evocatrici di pratiche di possessione diabolica; una strumentale danza delle Furie chiude la scena. In un boschetto. Un sereno e idilliaco ritornello strumentale introduce il canto di ammirazione di Belinda (“Thanks to these lonesome vales”), ripreso poi dal coro, rivolto al paesaggio nel quale si sta svolgendo la caccia, un luogo caro alla stessa Diana. Ma la voce della seconda donna (“Oft she visits this lone mountain”), evocando il drammatico episodio della morte di Atteone su un inquietante basso ostinato, introduce una nota di doloroso presagio, che si chiude su un altro ritornello strumentale. In un recitativo sempre più concitato, Enea e Didone avvertono segnali oscuri nell’aria, finché Belinda, sostenuta dal coro, incita tutti ad abbandonare la campagna (“Haste, haste, to Town”), avviando un lungo e articolato episodio polifonico cui partecipa anche il coro in un crescendo di densità contrappuntistica, che sottolinea l’inarrestabile incedere della furia degli eventi, naturali e sovrannaturali. Nel recitativo successivo, che gradualmente si anima, lo spirito mandato dalla maga appare a Enea, che si sottomette al suo volere pur lamentando la propria sorte (“But ah, what language can I try”), poiché «con più gioia morirebbe» piuttosto che abbandonare Didone.

Atto terzo.

Al preludio seguono un coro e una danza dei marinai, che esultano per l’imminente partenza (“Come away, fellow sailors”). La scena successiva ci mostra la gioia delle streghe e della maga, che si scatenano in un’orgia di soddisfazione per il dolore che hanno provocato e che continueranno ad alimentare perseguitando Enea con un’altra tempesta quando si troverà in mare. Le due streghe cominciano con un veloce gioco polifonico (“Our plot has took”) che conduce a un momento di espansiva vocalità riservato alla maga (“Our next motion must be to storm her lover on the ocean”), per poi scatenarsi in una pagina corale (“Destruction’s our delight”) che, a sua volta, culmina nella strumentale danza delle streghe. Dopo che Didone ha confessato a Belinda la sua disperazione e la sua certezza di perdere Enea, il drammatico incontro con l’amato dà vita a un duetto intenso e carico di affanno (“What shall lost Aeneas do?”). Enea cerca di giustificarsi incolpando il destino, ma la regina lo accusa di viltà e ipocrisia; Enea giura allora che resterà, ma Didone lo scaccia, perché ormai si è dimostrato sleale. Il coro commenta la loro incapacità di comprendersi (“Great minds against themselves conspire, and shun the cure they most desire” ). Didone, nonostante il suo sdegnoso rifiuto, non può più vivere senza l’eroe troiano, e decide quindi di uccidersi. Chiede conforto tra le braccia di Belinda (“Thy hand, Belinda, darkness shades me”) ma, nel famoso lamento di addio (“When I am laid in earth”), implora l’amica affinché non si lasci tormentare dal ricordo dei suoi errori quando sarà morta. Una commovente partecipazione accompagna, su un basso di ciaccona – la cui tensione è accentuata da cromatismi e da un’asimmetrica configurazione in cinque misure –, l’invocazione (“Remember my”) di Didone. Nello struggente e insieme straniante coro conclusivo (“With drooping wings”) i Cupidi, apparsi tra le nuvole sopra la sua tomba, sono pregati di vegliare su di lei per sempre.

Guida all'ascolto 1 (nota 1)

Si ha notizia di un’unica rappresentazione di Dido and Aeneas vivente Purcell, nel 1689, presso il collegio femminile di Chelsea, un sobborgo di Londra, diretto da Josias Priest. A eccezione del ruolo di Enea, la parti solistiche furono quindi presumibilmente scritte per soprano, e interpretate dalle ragazze del collegio. Nel 1704 l’opera fu rappresentata a conclusione di serata al Little Lincoln’s Inn Fields Theatre e, sempre nel Settecento, fu allestito come masque nell’ambito di un adattamento di Measure for Measure di Shakespeare. Della prima rappresentazione ci è rimasto solo il libretto, con un prologo che manca, invece, nel cosiddetto manoscritto Tenbury, il più antico che ci sia giunto, che risale a un periodo successivo al 1748 ma fu probabilmente copiato da una fonte precedente al 1720. Questo manoscritto è inoltre privo del coro e della danza che chiudono il secondo atto, presenti nel testo di Tate e con i quali, peraltro, si concludono tutte le altre scene dell’opera. Nella prassi esecutiva spesso si introducono, secondo le abitudini dell’epoca, brani sostitutivi, sulle parole di Tate. Nell’edizione curata da Benjamin Britten e Imogen Holst, la maga e le due streghe intessono un trio di giubilo (da The Indian Queen, 1690), poi affidato al coro (da Welcome Song, del 1687), che sfocia in una danza strumentale tratta dall’ouverture del Sir Anthony Love, 1690. Altre diversità del manoscritto rispetto alle indicazioni del libretto, lasciano supporre che fosse prevista una danza anche nella prima scena del secondo atto, poi omessa dallo stesso Purcell, e che fosse stato improvvisato un brano con accompagnamento di chitarra. In un altro manoscritto della fine del Settecento, si trovano alcune differenze nei ruoli vocali. La maga, ad esempio, è scritta in chiave di basso, forse in relazione all’allestimento come masque in Measure for Measure, dove la parte venne interpretata da un basso-baritono, Wilshire. In effetti, i recitativi accompagnati sono generalmente affidati, nelle opere di Purcell, ai ruoli maschili. Inoltre, la parte del primo marinaio era scritta in chiave di violino, e quindi eseguita da una voce femminile o bianca ma, nel caso di Measure for Measure, era stata eseguita dallo stesso Wiltshire, che interpretava anche il ruolo della maga. Pubblicata poi tra il 1887 e l’89 da William H. Cummings, venne ristampata in edizione moderna, nel 1960, dalla Purcell Society Edition.

La concisa vicenda disegna, in un percorso psicologico ricco di sfumature e di grande forza drammaturgica, le caratteristiche formali e la densità narrativa di un’opera di grande coesione, attraversata da un unico, coerente gesto teatrale. Infatti, la personalità di Didone, con la sua grandezza d’animo, costituisce il fulcro espressivo di accadimenti che coinvolgono, in chiave simbolica, situazioni mitologiche e arcadiche. La profondità del suo sentimento finisce per estendersi all’intero lavoro, anziché concentrarsi in alcuni punti focali; le situazioni-chiave, infatti, come l’ammissione da parte di Didone del suo amore o il drammatico incontro con Enea prima del suicidio, sono risolti con asciuttezza, quasi con rapidità. L’influenza del mondo magico e fiabesco inglese stilizza in chiave scenografica e drammaturgica la tensione tra i grandi archetipi affettivi e narrativi: il destino e l’amore, il maschile e il femminile, la ragion di stato e le ragioni del sentimento. L’espressività lirica, che risente dell’influenza operistica italiana, in particolare di Cavalli, e di quella degli oratorî di Carissimi, si modella sulle esigenze drammaturgiche con estrema duttilità: recitativi animati, che esaltano con ornamentazioni cariche di intenzioni armoniche il senso e il suono delle parole, confluiscono con naturalezza in arie concise, per poi sfociare in episodi corali e strumentali – le arie, in realtà, assomigliano più spesso degli ariosi che si inseriscono nel duttile profilo discorsivo dell’opera. La grande flessibilità melodica di Purcell, del resto, sfrutta appieno l’irregolarità e la libertà dei versi di Tate. La bellezza delle linee vocali, la plasticità fraseologica che piega la forma alle esigenze espressive, hanno reso quest’opera di Purcell molto amata ed eseguita nel Novecento. Pur mancando qui quella ricchezza di episodi descrittivi e autonomi che caratterizzano altri lavori di Purcell (in particolare le musiche di scena per The Tempest e Oedipus, e le ‘opere con dialogo’ Dioclesian, King Arthur, The Fairy Queen), l’intensità dell’opera ne fa un capolavoro di assoluta statura. Spesso il divenire emotivo è sottolineato da arditezze e preziosità armoniche comunque inserite in un piano tonale molto coerente, che investe l’intera opera e non manca di dar luogo ad allusioni emblematiche (ad esempio con l’impiego della tonalità-base sol minore, considerata da Purcell la ‘tonalità della morte’, oppure quella di fa minore, connessa allo spirito magico). L’organico, costituito dai soli archi (oltre al basso continuo) e da un numero relativamente limitato di voci, non impedisce a Purcell di sfruttare al massimo le potenzialità strumentali e vocali, con grande sapienza di orchestratore ed estrema raffinatezza timbrica.

Lidia Bramani

Guida all'ascolto 2 (nota 2)

Alla magnifica fioritura del melodramma italiano e dell'opera francese, l'Inghilterra non può aggiungere che un solo nome, quello di H. Purcell (1659-1695). La prima metà del sec. XVII, l'epoca dello sfortunato Carlo II e delle lotte sanguinose prò e contro la Repubblica, non era certamente il periodo migliore per una fioritura musicale. I primi saggi non si ebbero che dopo il 1676 quando Robert Cambert fu chiamato da Parigi per dirigere la Cappella Reale. E' a quest'epoca che risalgono i primi tentativi per creare un teatro musicale veramente inglese: ma il primo che riuscì — il primo e l'ultimo, poiché dopo di lui comincia la influenza di Haendel che impedì lo sviluppo di un'arte nazionale — fu H. Purcell. Figlio d'un maestro di coro della Cappella Reale, da cui ricevette la sua prima istruzione musicale, H. Purcell fu dapprima ragazzo cantore nel coro, poi organista, e finalmente compositore di Corte.

Aveva cominciato prestissimo a comporre musiche religiose, dove l'influenza dei primi madrigali inglesi si coniugava con quella dei maestri veneziani. Ma in quelle musiche — che furono assai lodate dai contemporanei — v'era anche una personalità spiccata: particolarmente negli Inni e nelle Lodi scritte in onore di Santa Cecilia, patrona della musica. — Più tardi — furono le commissioni ricevute o la ambizione di dotare il suo paese di un dramma musicale? — si dedicò alla composizione teatrale e scrisse una sessantina di composizioni drammatiche. La maggior parte di esse è ciò che oggi si chiamerebbe «musica di scena»: solamente Didone ed Enea può aspirare veramente al titolo di «opera».

Sulla data di composizione di quest'opera i critici non sono ancora d'accordo: sembrò in un primo tempo ch'essa potesse fissarsi al 1680, ma le ricerche di Mr. Barclay Squire la fissano al 1689. Comunque sia (né il libretto, né il manoscritto portano data) è certo che Didone ed Enea fu scritta per un collegio di fanciulle diretto da un Mr. Josias Priest a Chelsey, ed ivi rappresentata in un anno non ancor bene determinato, fra il 1680 e il 1689.

L'opera risente l'influenza dei grandi modelli veneziani e di quelle di Lully nelle sue grandi linee, ma la concezione di questa musica e la sua realizzazione sono originali e personalissime. Se qualche formula melodica od armonica si può trovare anche nell'opera di altri musicisti è perché tali formule appartengono ad un fondo comune al quale tutti attingevano: ma il tono conciso, sobrio, incisivo di questa musica afferma una personalità di prim'ordine.

Purcell, nel comporre quest'opera, mirò a rendere evidente e chiara la vita interiore dei suoi personaggi con un senso di modernità davvero sorprendente. La parte più viva non sono le danze, ma le pagine che esprimono i sentimenti e la passione, lo sdegno o il sacrificio di Didone (dove il musicista trova accenti indimenticabili), la ferocia delle streghe; quelle che tratteggiano il carattere di Belinda e dei marinai, ed i recitativi di Enea e del Nunzio. La verità di questi personaggi trova riscontro solo in qualcuna delle creature di Monteverdi e di Cavalli.

E' evidente che Purcell ha studiato con amore i veneziani: è da essi ch'egli prende il procedimento del «basso ostinato» che dà così grande unità a certe sue pagine: è da essi ch'egli ha imparato a tradurre in suono ed in melodia il significato più riposto della parola. I cori si innestano nell'azione con una logica drammatica non comune a quell'epoca, e sono d'una efficacia sorprendente. Del resto, per qualificare i doni drammatici di questo musicista, basta vedere come egli caratterizzi musicalmente le streghe: pochi personaggi diabolici del teatro musicale sono più vivi di questi.

Ma una cosa soprattutto attira la nostra attenzione in Didone ed Enea: ed è che, mentre in quasi tutto il teatro musicale le arie diventano fine a sé stesse e pretesto alla virtuosità del cantante, qui tutto concorre esclusivamente alla espressione drammatica senza concessioni e virtuosismi: e il dramma si sviluppa con una logica, una coerenza e una unità tutte moderne.

La prima rappresentazione italiana e con testo italiano di Didone ed Enea ebbe luogo al Maggio Musicale Fiorentino sotto la direzione di Vittorio Gui nel 1940.

Domenido de Paoli


(1) "Dizionario dell'Opera 2008", a cura di Piero Gelli, edito da Baldini Castoldi Dalai editore, Firenze
(2) Testo tratto dal programma di sala del Concerto dell'Accademia di Santa Cecilia.
Roma, Teatro Argentina, 8 aprile 1956


I testi riportati in questa pagina sono tratti, prevalentemente, da programmi di sala di concerti e sono di proprietà delle Istituzioni o degli Editori riportati in calce alle note.
Ogni successiva diffusione può essere fatta solo previa autorizzazione da richiedere direttamente agli aventi diritto.


Ultimo aggiornamento 29 dicembre 2020