Jeanne d'Arc au bûcher

Oratorio drammatico

Musica: Arthur Honegger (1892 - 1955)
Testo: Paul Claudel

  1. Prologo
  2. Les Voix du ciel
  3. Le livre
  4. Les Voix de la terre
  5. Jeanne livrée aux bêtes
  6. Jeanne au poteau
  7. Les rois, ou l’invention du jeu de cartes
  8. Catherine et Marguerite
  9. Le Roi qui vat à Rheims
  10. L’Epée de Jeanne
  11. Trimazo
  12. Jeanne d’Arc en flammes

Ruoli recitati Ruoli cantati Mimi

Organico: voci recitanti, 2 soprani, contralto, tenore, coro misto, 2 flauti (2 anche ottavino), 2 oboi, 3 clarinetti, clarinetto basso, 3 fagotti, controfagotto, 3 sassofoni, tromba piccola, 3 trombe, 3 tromboni, trombone basso, timpani, tam-tam, tamburo, tamburo piccolo, grancassa, piatti, celesta, 2 pianoforti, onde Martenot, archi
Composizione: 3 gennaio - 28 novembre 1935 (Prologo 28 novembre 1944)
Prima esecuzione: Basilea, Kunstmuseum, 12 maggio 1938
Edizione: Maurice Senart, Parigi, 1939
Dedica: Ida Rubinstein
Guida all'ascolto (nota 1)

"Non si può dorare l'oro", aveva detto Paul Claudel ad Arthur Honegger nel rifiutare la collaborazione per un'ipotetica Jeanne d'Arc au bûcher da destinarsi a Ida Rubinstein: da francese, e da cattolico, non se la sentiva di metter mano alle parole di un'icona nazionale, consegnate già alla storia dagli atti del processo. Poi, quando già il treno lo riportava ai suoi doveri di ambasciatore a Bruxelles, lontano da quel simpatico musicista che era rimasto male per il rifiuto, ebbe d'un tratto un'intuizione che lo fece ricredere: non era certo il caso di ripercorrere tutte le tappe della vicenda di Giovanna, ma sarebbe stato molto interessante e nuovo concentrarsi sulle ultime ore della condannata, sui suoi dubbi, su una sorta di perdita dell'identità che solo di fronte al martirio ritrova la propria luminosa certezza.

Per quanto questi racconti di 'illuminazioni artistiche' siano sempre in sospetto di costruzione a posteriori, certo è che Jeanne d'Arc si costruisce dal principio alla fine sull'immagine di una protagonista immobile, incatenata al rogo, costretta a ripensare alle vicende che l'hanno condotta lì e a mettere a nudo la propria anima. Una sorta di gigantesca confessione, offerta a un sacerdote che per quasi tutta la durata del dramma è accanto al rogo e con le sue domande provoca ricordi, risveglia incubi, sollecita spiegazioni. Naturalmente accanto a una Giovanna d'Arco non può stare un monachello qualunque: sarà dunque San Domenico in persona, dottore della Chiesa, a intessere il dialogo con la pastorella. E fin da principio la posizione di Claudel è chiara: Giovanna non ha spiegazioni da offrire, le è accaduto un miracolo che lei stessa non sa spiegare, proprio come l'artista non sa dove di preciso nasca l'ispirazione che lo spinge a creare.

Questa strana protagonista immobile, al margine della scena, ha suscitato reazioni molto contrastanti: Giorgio Vigolo la giudicava "ormai inascoltabile"; e Fedele d'Amico polemizzava proprio sull'enfasi data all'ignoranza della Santa, che appare quasi come una pura-folle, sicura solo della propria buona fede: "Le faticose distinzioni a cui sono costretti gli altri mortali le sono felicemente ignote: per lei la natura fa tutt'uno con la morale, la morale con la religione, e la religione con la Francia; si direbbe ch'ella basi le sue rilevanti decisioni politiche sui colori di un'alba".

Sta di fatto che questo "Oratorio dramatique" combina in maniera molto insolita, e nuova, la recitazione pura e la musica, l'immobilità e la baraonda, il presente e il passato, la realtà e l'immaginazione. L'azione è in realtà una sequela di flash-back in ordine casuale, dai ricordi del processo alle battaglie, dalle campane dell'infanzia alla figura del re vittorioso, periodicamente tornando alla consapevolezza della condanna presente e al terrore: non tanto terrore di morire, pure umanissimo e palpabile, ma soprattutto terrore di aver agito male, di aver perso l'affetto dei suoi, di aver tradito senza sapere la causa che le era stata affidata.

Jeanne è una voce recitante, come d'altra parte quasi tutti i personaggi solisti, tranne la Vergine che compare nell'ultima scena, emblema del canto religioso, limpido, senza fronzoli, e il giudice Porcus, a cui spetta invece un'irriverente parodia della vocalità operistica. Altrimenti il canto è appannaggio del coro: un coro composito, flessibile, che passa dalla preghiera alla bestemmia, dal realismo alla pura visionarietà, arrivando fino all'urlo, ma accogliendo piccole oasi di purezza come il coretto dei bimbi o il canto femminile che mima le campane: pagine non solo di grande fascino, ma di notevole originalità, tanto che anche Eugenio Gara ammetteva di preferire l'esecuzione puramente oratoriale, "a tutto vantaggio della musica, una rinunzia felice". D'altro canto il lavoro, concepito per una primadonna come la Rubinstein, fu affidato in diverse occasioni ad attrici il cui nome bastava a riempire il teatro, basti ricordare Ingrid Bergman in uno spettacolo con regia di Rossellini che girò trionfalmente da Napoli (1953) a Milano (1954) a Palermo (1955), passando per l'Opera di Parigi dove poterono vederlo Claudel stesso e l'anziano e malato Honegger, entusiasti entrambi dell'attrice (che recitò la parte di Jeanne anche in svedese, spagnolo e inglese, facendo circolare il lavoro per tutta l'Europa). E proprio con Rossellini le potenzialità cinematografiche della sceneggiatura di Claudel si tradussero in atto, con la pellicola girata nel 1954, in cui molti videro un marcato influsso anche della Giovanna d'Arco di Dreyer.

Quest'intersezione di piani diversi viene colta da Honegger e realizzata musicalmente in termini di montaggi e ritorni interni: la presenza forse più evidente in questo senso, per la sua singolarità timbrica, è quella delle Ondes Martenot, strumento elettronico che grazie a un condensatore modifica l'altezza dei suoni con effetti ora di sfumato celestiale, ora di ululato diabolico: e Honegger (che l'aveva definito per l'appunto "voce degli elementi scatenati o degli dèi") lo usa infatti in questa duplice valenza, come latrato di un Cerbero che aizza cori infernali, o come cangiante aureola al canto degli angeli.

Il Prologo, aggiunto nel 1944, respira l'aria plumbea della guerra: è una grande pagina corale, una stele funeraria, con il narratore che a tratti perfora e interrompe i blocchi corali con i suoi interventi rapidi, le sue domande taglienti. L'ostinazione con cui viene ripetuta la parola "ténèbres" condiziona in partenza il colore e il disegno strumentale, con un'adesione della partitura alle esigenze testuali che costituisce la miglior testimonianza della stretta collaborazione che Honegger offrì a Claudel: il quale già aveva idee chiare sulla resa musicale e le veniva esponendo al musicista pronto a tradurle in atto. Il clima è quindi quello di un ostinato opprimente, un magma lontano e indistinto (al coro Honegger prescrive "très bas et comme la main sur la bouche"), linee nude e livide che danno l'idea di una terra desolata e senza sole. Le ripetizioni prescritte dal testo ("ténèbres, ténèbres, ténèbres") gravano come macigni sull'intero tessuto musicale, tanto che quando verso la fine della scena appaiono le trombette, così esili nel gran magma generale, il loro timbro di solito squillante si carica invece di squallore, come fossero creature isolate e disperse su uno sfondo spettrale: e qui come in seguito si affaccia il ricordo del ghigno della iena nell'ultima parte del Sacre di Stravinskij.

Questo Prologo ha per così dire due fuochi: uno è nel "De profundis" latente in tutto il testo e poi citato apertamente nell'incipit latino verso la fine della sezione (anticipa il suono di una delle campane dei Domrémy nella VII e nella IX Scena); l'altro nell'annuncio di una sorta di vox clamantis in deserto (il narratore) che però usa il verbo al passato, non araldo di speranza, dunque, ma inutile ambasciatore di una fiaba del tempo che fu ("C'era una volta una ragazza chiamata Giovanna"): scatenando nuove frenesie d'ostinato, questa volta nei registri acuti degli archi e nella fascia femminile del coro. Chiaro è il valore bifronte di questa pagina: la Francia vuota e inetta, coperta di tenebre, azzannata dal lupo, non è solo quella dei tempi di Giovanna d'Arco, ma quella presente della guerra e dell'occupazione nazista, e il pianto senza più lacrime del coro è quello della nazione stremata. Splendida l'uscita di un soprano solo ("Du fond de l'engloutissement j'ai élevé mon àme vers Toi, Seigneur!"), dove la voce freme e si dibatte sopra la linea fissa dei bassi, drammatizzando i versi di Claudel con uno scavo prosodico che non potrebbe dirsi più sensibile.

Il malefico latrato di cane che apre la Scena I era l'attacco originario del lavoro: il cane allude a un Cerbero infernale, precisamente a Yblis, lo spirito del male. Raramente la musica ha toccato toni sinistri come in questa pagina, dove si direbbe che sonorizzi il male: l'intera orchestra si raggrinza in una dissonanza a cui lo sfondo delle Ondes Martenots dà un alone agghiacciante, e subito, da punti diversi del palcoscenico, si sentono le primi voci ultraterrene, alcune vocalizzando, altre a bocca chiusa, con un talento plastico e una stratificazione di piani sonori che basterebbero a far comprendere le ragioni per cui Jeanne d'Arc continua ad aver successo anche in sala da concerto. Ed ecco le prime ripetizioni del nome di Jeanne: quelle ripetizioni che infastidivano tanto d'Amico, dispiaciuto che una partitura "pressappoco infallibile" come questa dovesse associarsi a un testo che potrebbe consistere soltanto in "Giovanna, Giovanna, Giovanna".

Se la prima scena si consuma tutta in questi richiami di voci invisibili, la Scena II è tra le più fitte di recitazione: fa la sua comparsa il Frate Domenico (abbigliato in modo inequivoco con veste bianca e mantello nero) portando con sé un libro dal quale leggerà stralci della vita di Jeanne, soccorrendo la memoria di lei che vacilla, subissata da accuse in cui non si raccapezza più. La lettura di Domenico (Scena III) evoca un passato da incubo, riportando Giovanna ai giorni del processo, mentre le accuse tuonano come una litania infernale: e qui Honegger sfrutta l'effetto sempre drammatico del melologo, dove la parola è a contatto diretto con l'accompagnamento strumentale: due linguaggi di solito separati chiamati a convivere con un effetto che si usava di preferenza (pensiamo alla Medée di Cherubini o al Fidelio di Beethoven) per acuire le pointes tragiche. La padronanza drammaturgica e la cultura storica di Honegger vengono fuori pienamente in scene come questa, dove il linguaggio sacro viene echeggiato e capovolto, generando l'impressione di un rito satanico: il basso solo che snocciola il suo latino "à la Bach", il coro che via via incalzando sommerge la voce di Jeanne con la brutalità dei cori-turba delle Passioni bachiane, infine l'emersione sinistra delle Ondes Martenots, chiamate sempre a dar veste sonora agli incubi della pastorella: nel montaggio di tutti questi elementi la mano ferma del compositore di oratori si rivela con una bravura pari all'originalità.

La scena sfuma sopra un balletto sinistro, avviato sui toni aciduli dei fiati: Frate Dominique ha già spiegato a Jeanne che a condannarla non sono stati uomini, ma bestie; ed ora, sopra una marcetta curiale che tornerà a scandire la fasi della scena, ecco entrare la corte animalesca che deve giudicare l'imputata (Scena IV). Bisogna nominare il giudice, ma tutti gli interpellati ricusano: ogni animale è impersonato da uno strumento, il trombone per la tigre, il sassofono per la volpe, la coppia di ottavino e clarinetto piccolo per il serpente. A offrirsi volontario per l'infame compito è naturalmente il peggiore di tutti, Porcus (nome suggerito da quello reale di Pierre Cauchon, il vescovo di Beauvais che osteggiò Giovanna e che fu a capo del tribunale inquisitorio): la fatuità di Porcus richiama sia nel timbro tenorile sia nella puerile insistenza delle colorature vocali l'indimenticabile Edipo di Stravinskij; e d'altra parte, con il suo impianto in bilico fra opera e oratorio, proprio l'Oedipus rex di Cocteau e Stravinskij aveva rappresentato un modello cruciale nella concezione stessa della Jeanne d'Arc.

Il coro acclama Porcus in latino, slittando di continuo dalla solennità del corale allo sberleffo carnascialesco, con tanto di intrusioni jazzistiche, e finisce con l'intonare un vero canto di goliardi, "Ecce magnis auribus", citato pari pari dalla tradizione di Beauvais e mescolato a frasi irrisorie e sguaiate: si sente che i Carmina burana sono ormai alle porte.

Comincia il processo, la fase cioè alla quale Claudel aveva esitato a metter mano, non volendo lavorar di fantasia né potendo citare letteralmente i documenti d'archivio, poco musicabili. La soluzione sta nel leggere il processo a rovescio, facendone una farsa: al posto dei giudici e della corte siede, come s'è visto, un intero bestiario (il popolo è un gigantesco gregge e come tale saprà solo belare in maniera servile a ogni sproposito proferito da Porcus), le parole di Jeanne sono deliberatamente falsate, l'accusa è già formulata in partenza ed enunciata a precipizio da Porcus, su una cantillatio che una volta di più ricorda, parodiandole, le modalità della liturgia. A ricordarci che non si tratta affatto di uno scherzo, ma di una tragica vittoria dell'umana stupidità, intervengono tremule le Ondes Martenots. La scena si conclude abbandonando il canto: anche il coro questa volta parla, anzi sibila, grida, e continuerà a brontolare le sue calunnie anche nella scena successiva (Scena V), dove la macchina da presa torna a guardare Jeanne legata al palo, mentre commenta con Domenico i fatti che insieme hanno appena rivissuto: una scena quasi tutta di melologo, in cui il cane torna a ululare nella notte, con una sorta di gemito cosmico che mette i brividi alla ragazza. Domenico accusa i sapienti e i dottori della Sorbona di averla tradita, e sfoglia un altro capitolo del libro: quello che ripercorre gli intrighi politici colpevoli della condanna a Jeanne. È il momento della partita a carte (Jeu des cortes, Scena VI), alla quale Honegger riserva quello stile da cabaret che i Six avevano tanto usato come arma contro i fumi tardoromantici e postwagneriani. Si sente dietro un settecentismo alla Stravinskij, trapiantato con voluto anacronismo su strumenti da caffè-concerto, fiati aciduli, ottoni resi pungenti dall'assenza dei corni, linee scarne e metalliche di una musica senza più vibrazione interiore, ma formalmente perfetta: una Gavotta tiene insieme tutto il quadro, scambiando via le parti fra i vari strumenti a mano a mano che i personaggi si avvicendano. Da notare il suono anomalo dei pianoforti 'preparati', che (solo in questa scena) imitano il timbro del clavicembalo previo inserimento di una barra metallica. Alla fine tutti hanno vinto, assistiti ciascuno da un peccato capitale: a fare le spese del nuovo assetto politico sarà solo chi è fuori dai giochi, ossia naturalmente Jeanne.

La Scena VII ci riporta alla sbigottita Pulzella, sempre immobile al palo: finora è stata circondata da dèmoni e perseguitata da incubi che la razionale rilettura di Frère Dominique non è in grado di fugare. Il carattere uditivo del testo di Claudel tocca qui uno dei punti di maggiore evidenza: lo scenario notturno è tutto un ribollire di voci, parole, suoni, echi: in principio si sente solo un rimbombo di campana che non promette nulla di buono, e infatti (spiega Domenico) sono campane a morto; ma nella mente ormai sfinita di Giovanna questo suono si trasfigura e prende la consistenza amata dei rintocchi di Domrémy, con le due campane udite da bambina e familiarmente battezzate Catherine e Marguerite. Mentre Jeanne, ormai sempre più astratta dalla realtà presente, si immerge nei suoi ricordi e li commenta quasi inconsapevolmente con il frate, le due campane assumono voce di donna e intrecciano i loro richiami all'imperterrita pulsazione con cui i bassi grugniscono sullo sfondo i loro "comburatur igne". Coro e voci soliste, voci lontane e voci vicine, parlato e cantato, latino e francese, voci scure e voci chiare: Honegger fa di questa scena un caleidoscopio in cui la partitura assume una consistenza plastica più forte ancora della scena, così immaginaria e antirealistica da non potersi tradurre del tutto in termini visivi. Umanizzate, le campane rincuorano Jeanne ripetendo il loro ritornello; Jeanne è qui come un Sigfrido che abbia ritrovato la capacità di comprendere il linguaggio della natura, e rivive lo slancio con cui aveva saputo trascinare alla vittoria il re di Francia.

Le capacità mimetiche, la sovrapposizione stilistica e la magistrale stereofonia di Jeanne d'Arc arrivano all'acme nelle due scene che seguono, le più complesse del lavoro: l'ottava, "Le Roi qui va-t-à Rheims", e la nona, "L'Épée de Jeanne". Nella Scena VIII il coro si sfarina in più sorgenti sonore: il pannello iniziale serve a dissipare le caligini che finora hanno oppresso il cuore di Jeanne. Si riaffacciano alla mente i canti popolari e con essi l'idea della nazione francese, che la Guerra dei Cento Anni rischiava di stroncare sul nascere: il gigante Heurtebise, simbolo della Francia del Nord (cerealicola), corteggia la Madre delle Botti, che invece rappresenta la Francia del Sud (viticola); nel sogno della loro unione l'atmosfera si rischiara, la melodia si fa spigliata e gioviale. Intorno a queste ronde primaverili cinguetta un canto di fanciulli: "Volete mangiare le ciliegie?", tradizionale melodia associata alla città di Laon, dove veniva eseguita dal carillon civico (donde il soprannome di "carillon de Laon"); l'orchestra aggiunge lucentezza all'insieme con gli ori delle trombe, lo scampanellio del triangolo e il rullo dei tamburini. Un prelato zittisce l'allegria pagana e comanda un inno liturgico; ecco prendere forma un canto gregoriano, "Aspiciens a longe", responsorio per il notturno della prima domenica d'Avvento qui fedelmente citato da Honegger: un flauto solo dà l'intonazione, il chierico attacca e il coro prosegue all'unisono. Al meccanicismo farneticante delle "turbae" che hanno imperversato nelle scene precedenti subentra una parentesi di pacificazione, culminante nell'assolo di una voce bianca; poi la cerimonia viene interrotta dal graduale appressarsi del corteggio regale in marcia per Reims, con spettacolare stereofonia. Quando anche queste immagini si sono affievolite come in una dissolvenza, ricompare il bisbiglio tetro della moltitudine, che scandisce (parlando su ritmi definiti in partitura) nuove ingiurie contro Giovanna.

Questi elementi tornano nella sequenza successiva, "L'épée de Jeanne" (Scena IX), stratificandosi e dislocandosi spazialmente in un montaggio ardito, tanto che il teatro pare già vivo e tangibile nei suoni. Ora lo scenario mentale si arricchisce di un segnale amico, quello delle campane che già si sono udite nella scena VII; oscillando enigmatiche fra rintocchi dorati e tonfi cupi, come nel Boris Godunov di Musorgskij, le campane sembrano sillabare una canzone ambigua: "Spera, spira, spera, spira", ripetono con fascinazione quasi ipnotica, scivolando a un certo punto persino nel Dies irae. Un coro a bocca chiusa avvolge ogni oggetto nel proprio riverbero, come un alito oltremondano; si leva un canto di usignolo, impersonato dal flauto; e questo graduale schiarisi dei timbri sale come un'onda di luce e si comunica via via all'intera orchestra, ai violini, alle Ondes Martenots finalmente diventate voci celesti. Ormai la memoria soave del passato torna a imporsi sul presente, trasfigurandolo: lo sgomento della pastorella cede all'emozione della veggente, e il tono del dialogo con Domenico si rovescia: adesso è lui a chiedere spiegazioni, con il suo inutile librone fra le mani, simbolo di una dottrina che ha perso il contatto con i misteri dello spirito. E Giovanna non si scomoda a fornirgli glosse chiarificatrici: "Ma perché tu comprenda dovresti essere una ragazzina lorenese! Non posso certo prenderti per mano a portarti con noi a cantare il Trimazô!". In orchestra si librano sottili scie di fiati, striature di violini all'acuto, sospesi come in attesa: ed ecco tornare (fuori scena e appoggiate al vocalizzo a bocca chiusa di tenori e bassi) le voci bianche nel canto appunto del "Trimazô" (Scena X), la melodia del mese di maggio, il mese mariano in cui la natura riprende vita: è il clima collaudato con la Pastorale d'été nel 1920, inserito qui come un refolo a purificare temporaneamente l'atmosfera.

Sarà questo "Trimazô" a muovere Giovanna al canto, almeno un sussurro di canto, "d'une voix entrecoupée"; per il quale tuttavia Honegger consentiva un eventuale "doppiaggio" dell'attrice da parte di una cantante. Riprendono poi con insistenza i cori che abbiamo sentito fin dalle prime scene, con l'incitamento: "Jeanne, Jeanne, Jeanne, fìlle de Dieu, va, va, va!" che si configge nella babele generale come un pungolo a cui sia impossibile sottrarsi; e a cui Jeanne risponde infatti con la stessa obbedienza incondizionata che tempo addietro l'aveva mossa a indossar la corazza. Ed è forse qui il limite del personaggio, escluso dal canto, costretto a dibattersi in una recitazione che la fa gridare come un agnellino sgozzato sopra alle masse che la sovrastano; imprigionata fra cielo e inferno, più che condottiera di una sublime battaglia sembra costretta in una morsa da cui solo la regressione all'infanzia pare consolarla: persino gli angeli commentano: "Elle est seulement un enfant, après tout". La fiammata del rogo, Scena XI, eccita un'ultima babele linguistica, con cori che si sovrappongono, si contrastano, commentano, criticano; alla fine però l'ultima parola spetta ai fanciulli e ai volteggi del flauto (incarnazione dell'usignolo-Filomela, e quindi anch'esso figura di pianto), mentre la celesta purifica l'atmosfera e il richiamo infaticabile delle campane ("Spera, spira") si addolcisca gradualmente in una sorta di bereeuse per Jeanne morente.

A detta di Honegger, Paul Claudel scrisse il testo per Jeanne d'Arc con le idee ben chiare sullo svolgimento della musica al suo interno; e senz'altro trovò un musicista in grado come pochi altri di sviscerare queste potenzialità e di esaltare la musicalità dei versi. Si era così rapidamente avverata la speranza espressa da Honegger appena poco tempo, nel 1932:

"Sogno una collaborazione che giunga a essere totale, dove il poeta pensi da musicista e il musicista da poeta, in modo che l'opera scaturita da quest'unione non sia il risultato accidentale di una serie di approssimazioni e di concessioni, ma la sintesi armoniosa di due aspetti di un unico pensiero".

Elisabetta Fava


(1) Testo tratto dal programma di sala del Concerto dell'Accademia di Santa Cecilia,
Roma, Auditorium Parco della Musica, 12 ottobre 2008


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Ultimo aggiornamento 3 giugno 2019