La mer, tre schizzi sinfonici per orchestra, L 111


Musica: Claude Debussy (1862 - 1918)
  1. De l'aube à midi sur la mer - Très lent (si minore)
    Organico: 2 flauti, ottavino, 2 oboi, corno inglese, 2 clarinetti, 3 fagotti, 4 corni, 3 trombe, 3 tromboni, basso tuba, timpani, piatti, tam-tam, 2 arpe, archi
  2. Jeux de vagues - Allegro (do diesis minore)
    Organico: 2 flauti, ottavino, 2 oboi, corno inglese, 2 clarinetti, 3 fagotti, 4 corni, 3 trome, piatti, triangolo, glokenspiel o celesta, 2 arpe, archi
  3. Dialogue du vent et de la mer - Animé et tumultueux (do diesis minore)
    Organico: 2 flauti, ottavino, 2 oboi, corno inglese, 2 clarinetti, 3 fagotti, controfagotto, 4 corni, 3 trombe, 2 cornette, 3 tromboni, basso tuba, timpani, grancassa, piatti, tam-tam, glockenspiel, 2 arpe, archi
Composizione: Bichain, Agosto 1903 - Parigi, 5 Marzo 1905
Prima esecuzione: Parigi, Concerts Lamoureux, 15 Ottobre 1905
Edizione: Durand, Parigi, 1905
Dedica: Jacques Durand
Guida all'ascolto 1 (nota 1)

«Forse non sapete che avrei dovuto intraprendere la bella carriera del marinaio - recita una lettera di Debussy - e che solo per caso ho cambiato strada. Ciononostante, ho mantenuto una passione sincera per il mare». L'amore per il mare risaliva ai tempi dell'infanzia, quando Debussy si recava a Cannes per le vacanze estive, in casa del padrino Achille-Antoine Arosa. Evocando quei tempi felici, il musicista ricordava «la ferrovia che passava davanti a casa con il mare sullo sfondo: in certi momenti pareva che il treno uscisse dal mare, o che dovesse tuffarvisi (a vostra scelta)».

Memorie che a distanza di tanto tempo rivelano la profonda emozione che il mare ha sempre suscitato nell'animo di Debussy. Non è sorprendente dunque se Debussy, aldilà delle numerose pagine legate alla misteriosa simbologia dell'acqua sparse nella sua produzione, abbia pensato al mare per affrontare il lavoro sinfonico più impegnativo della sua carriera. Debussy cominciò a comporre la musica nel luglio del 1903, durante il soggiorno estivo a Bichain. La partitura venne terminata nell'estate del 1905 a Eastbourne, sulla costa inglese, dove il musicista si era rifugiato per trovare un po' di tranquillità nel periodo più tempestoso della sua vita sentimentale. L'abbandono della moglie Rosalie Texier, compagna degli anni faticosi di Pelléas et Mélisande, e la fuga con Emma Bardac, signora della buona società parigina e moglie di un facoltoso uomo d'affari, avevano suscitato una valanga di pettegolezzi, diventati un vero e proprio scandalo dopo il tentato suicidio di Lilly con un colpo di pistola. A seguito di queste vicende, che avevano coinvolto un po' tutto l'ambiente artistico di Parigi, Debussy ruppe i rapporti con la maggior parte degli amici d'un tempo, a cominciare da quello più caro, Pierre Louys.

Dopo l'entusiasmante successo dei Nocturnes (1900-1901), l'accoglienza della prima esecuzione della Mer, il 15 ottobre 1905 ai Concerts Lamoureux diretti da Camille Chevillard, fu deludente. Gli ammiratori di Debussy speravano forse di ritrovare nella nuova composizione il clima notturno, i sussurri pieni di allusioni, i vapori misteriosi che li avevano incantati in Pelléas et Mélisande. Debussy invece aveva composto una musica che sembrava animata dal desiderio di un ritorno all'ordine. La Mer metteva in primo piano il problema della forma musicale. Le atmosfere velate e fiabesche dei Nocturnes lasciavano il posto a una scrittura luminosa, nitida e diurna. La Mer sembrava una forma arci-raffinata di classicismo settecentesco, ispirato dall'antica abitudine dei compositori francesi di conferire ai propri lavori un titolo di fantasia. Dietro la maschera di una descrizione bozzettistica (De l'aube a midi sur la mer, Jeux de vagues, Dialogue du vent et de la mer), si scorge la struttura di una sinfonia in tre movimenti, intrecciata di riferimenti strutturali e concepita su un grande arco formale.

Il tema del mare assume nei tre pannelli sinfonici un significato diverso dal naturalismo ottocentesco. «Mi ribatterete che l'Oceano non bagna esattamente le colline della Borgogna...! - scriveva l'autore - E che tutto sembrerà probabilmente un paesaggio costruito a tavolino! In effetti ho del mare infiniti ricordi; e questo, a mio avviso, vale più della realtà, il cui fascino in genere soffoca troppo il nostro pensiero». Debussy non intende raffigurare la natura nella sua realtà oggettiva, con l'occhio dell'artista ansioso di descrivere il fenomeno che l'ha impressionato. La sua musica cerca piuttosto di esprimere il processo intimo della percezione, cogliendo le infinite vibrazioni dell'essere di fronte a un'esperienza. «Cerco di fare "altro" - diciamo delle realtà - che gli imbecilli chiamano "impressionismo", un termine che viene usato del tutto a sproposito, soprattutto dai critici d'arte, i quali non esitano ad affibbiarlo a Turner, il più grande pittore di "mistero" che l'arte abbia mai avuto!».

Baudelaire in Correspondances, una delle poesie più importanti per l'estetica simbolista, aveva fissato i nuovi limiti espressivi del rapporto tra uomo e natura:

La Nature est un temple où de vivants piliers
Laissent parfois sortir de confuses paroles;
L'homme y passe a travers desforèts de symboles
Qui l'observent avec des regards familiers.

È un tempio la Natura, dove a volte parole
escono confuse da viventi pilastri
e che l'uomo attraversa tra foreste di simboli
che gli lanciano occhiate familiari.
(tr. Giovanni Raboni)

Ecco che nella musica di Debussy le "occhiate familiari" di Baudelaire si trasformano in echi misteriosi, che risuonano continuamente all'interno del discorso articolando il percorso temporale in una forma. Il mare di Debussy diventa un fenomeno quasi junghiano, come se quell'immagine rispecchiasse l'archetipo di una forza oscura e irrazionale che muove la coscienza. L'atmosfera serena che domina le tre vedute marine viene turbata all'improvviso da un brivido, ogni volta che la musica si avvicina all'ignoto regno delle passioni. La velocità del tempo muta in continuazione e altera il disegno del fraseggio, segno di un'inquietudine profonda che agita sotterraneamente la scrittura musicale. Tuttavia mai come in questo lavoro Debussy ha cercato di conferire al magma delle pulsioni emotive una struttura architettonica di grande respiro. L'unità della forma è affidata al percorso armonico, che traccia una lunga campata dal re bemolle del Modéré, som lenteur in De l'aube a midi sur la mer fino al poderoso accordo finale di re bemolle degli ottoni nel Dialogue du vent et de la mer. All'interno di quest'ampia arcata si svolge un'animata sequenza d'impasti sonori e ritmici di stupefacente bellezza e inventiva.

Secondo il critico Edgell Rickwood, Rimbaud «è un maestro della frase, non del periodo, che difatti non ha quasi mai costruito». Questa osservazione potrebbe essere vera in linea di massima anche per Debussy. I processi costruttivi della scrittura di Debussy tendono a isolare il singolo frammento, anziché elaborare uno sviluppo tematico. Le immagini sonore sono rapide e brucianti, ardono per così dire in una singola fiammata sonora, come certi versi abbaglianti di Mallarmé:

Le vierge, le vivace et le bel aujourd'hui.

In De l'aube a midi sur la mer Debussy si sforza di conferire a certi motivi di carattere contrastante un rilievo tematico, come per abbozzare la dialettica di un movimento di sonata. L'articolazione della forma resta tuttavia legata principalmente al timbro armonico, con accordi raffinati sparsi sulla partitura come macchie di colore, e alla plasticità dei gesti musicali di cui è ricca la musica di Debussy. La musica s'illumina all'improvviso con effetti di sconvolgente bellezza, come l'abbagliante accordo suonato dai violoncelli divisi a quattro, al centro del quadro.

Jeux de vagues riprende l'idea dello Scherzo classico come di un movimento di danza. La forma originalissima di Debussy mescola assieme, vorticosamente, una serie di frammenti che suggeriscono diversi tipi di ballo: valzer, giga, bolero. La strumentazione ha una trasparenza fantastica e la capacità di rinnovare continuamente l'immagine del paesaggio.

Il Dialogue du vent et de la mer si apre con un lungo rullo dei timpani, in maniera analoga al primo pannello. Tutta la parte iniziale esprime l'inquietante contrasto tra il mare e il vento, finché un colpo secco del timpano scarica la tensione accumulata in orchestra. Il tema principale del finale, esposto dai fiati, spunta con fatica da un'appoggiatura espressiva e si gonfia d'emozione man mano che cresce. La tonalità di re bemolle viene così a configurare una sorta di emblema musicale del mare, che riappare ora come archetipo, ora come sogno.

Oreste Bossini

Guida all'ascolto 2 (nota 2)

La mobilità, l'istantaneità, la novità del tempo musicale della Mer esigerebbero un'analisi non riassumibile in poche indicazioni. Il titolo De l'aube à midi sur la mer fa pensare a uno svolgimento ininterrotto a un procedere caratterizzato da una continua propulsione, attraverso il succedersi, sovrapporsi, addensarsi di motivi che si coagulano in più ampie strutture, stabiliscono un mobilissimo gioco di rapporti. Nell'arcana sezione introduttiva prendono forma gradualmente piccole cellule, per prima quel ritmo breve-lunga che già creava un senso di apertura spaziale in Sirènes. Emerge un lento disegno (corno inglese e trombe), un tema ciclico che si ritroverà nel terzo tempo; poi l'andamento si fa più animato, la nebulosa incertezza sembra dissolversi e si approda a una nuova sezione: su un accompagnamento «ondeggiante» degli archi si profila il celebre tema dei flauti e dei clarinetti subito seguito da un altro importante disegno dei corni. Nel libero fluire del pezzo, dopo l'introduzione, si possono riconoscere due sezioni (che chiameremo A e B) seguite da una coda. Nella mobilissima struttura della sezione A, oltre al tema principale già citato, altri elementi entrano in gioco: un arabesco dei flauti, un mesto disegno degli oboi limitato a tre note e sovrapposto a un canto del primo violino solo. La sezione A approda a un culmine di luminosità e complessità di sovrapposizioni ritmiche, poi si spegne. Un nuovo tema presentato da sedici violoncelli divisi apre la sezione B determinando un mutamento di clima espressivo. È l'elemento predominante fino al ritorno del tema «ciclico» apparso nell'introduzione. Un episodio statico stabilisce il collegamento con la coda conclusiva, aperta da un nuovo, solenne tema: essa approda a una luminosa perorazione, che esplode inattesa.

Di concezione anche più radicalmente nuova è la forma di Jeux de vagues. Il titolo fa pensare a un significato musicale, alla massima frantumazione, a una mobilità priva di direzione: l'articolazione fluida e polverizzata è fondata sul nascere di un'invenzione sull'altra, sul loro intersecarsi e accumularsi che non offre all'ascoltatore neppure i punti di riferimento ancora in qualche modo presenti nella struttura del primo schizzo sinfonico. Il pezzo si presta a essere analizzato in modi diversi: qui ci limiteremo a qualche schematica indicazione, individuando le idee principali che si incontrano nel fluire mobilissimo, cangiante, dai profili spesso sfuggenti. L'inizio dell'introduzione elude ogni presenza tematica, ogni materiale dai ben definiti contorni. Solo poi si profila un disegno del corno inglese, un semplice frammento di scala ascendente che si dilata in arabeschi. Finita l'introduzione, appare luminoso e lieve il primo tema, che inizia con trilli dei violini. Un secondo tema dal profilo più cantabile è presentato dal corno inglese su un ritmo danzante, quasi di bolero. Nuove idee caratterizzano la sezione successiva, poi si ha una sorta di ripresa variata della seconda parte dell'introduzione, uno sviluppo del secondo tema, e quindi sviluppi in cui entrano in gioco diversi elementi di breve respiro per approdare a un momento culminante, quasi una luminosa iridescente visione, che si dissolve e a cui segue il ritorno del primo tema. Inattesa si profila quindi una nuova idea in tempo di valzer, seguita da sviluppi che conducono a un altro punto culminante. Nella coda i temi sembrano dissolversi in un clima sospeso (anche la tonalità è incerta); di grande trasparenza la conclusione.

Un principio formale è annunciato nel titolo Dialogue du vent et de la mer: più che un semplice dialogo il pezzo propone il contrasto, la sovrapposizione, lo sviluppo parallelo di materiali diversi, non di due temi, ma di opposti campi di forza, in una mobilità di situazioni che conoscono anche momenti di parossismo drammatico. Di queste forze contrastanti la prima presenta una timbrica rude, violenta, configurandosi come un «movimento caotico» (Barraqué) dai ritmi frantumati; la seconda ricerca una sottolineata cantabilità di vasto respiro. L'originalità della concezione dell'ultimo tempo non impedisce di riconoscervi a grandi linee la disposizione formale di un rondò; da notare anche i collegamenti tematici con il primo tempo. Il tema «ciclico» appare nell'introduzione e diventa uno dei protagonisti del pezzo, dove il celebre tema principale, che ritorna come il refrain di un rondò, si caratterizza per un'intensa ampiezza di respiro. Il tema ciclico riappare invece nel corso del primo «episodio» del rondò, una pagina che conosce momenti di cupa concitazione. Ritorna il refrain in triplice presentazione; anche nel secondo episodio fra i materiali c'è il tema ciclico, che conosce nuovi sviluppi e trasformazioni ritmiche. Al terzo refrain segue una coda, che si chiude in un secco «fortissimo» e che propone, fra l'altro, nuove elaborazioni del tema «ciclico».

Paolo Petazzi

Guida all'ascolto 3 (nota 3)

Concluso nel 1902 il quasi decennale lavoro a Pelléas et Mélisande, Claude Debussy avviava una fase centrale della sua creatività; grossolanamente parlando, il musicista si apprestava a superare lo stile, i modi e il linguaggio che con una certa facilità si son definiti «impressionisti» e che nelle mezze tinte, nell'atmosfera sfumata di sogno del Pelléas avevano trovato un'estrinsecazione di insuperabile felicità. Punto d'arrivo di questa svolta, operata comunque per gradi, senza brusche scosse, sarebbero state la chiarezza, la precisione, l'oggettività tutte novecentesche e «moderne» dei capolavori degli anni precedenti la morte del compositore: in questo immediato «dopo Pelléas» per Debussy il problema era principalmente quello di essere meno «impressionista», meno «debussista» di quanto non rischiasse di farlo sembrare l'immagine di comodo che, sull'onda del grandissimo capolavoro teatrale, da troppe parti ci si tendeva a fare di lui, ingabbiandolo con un'etichetta forse impropria, certo riduttiva e superata nei fatti. Campo d'azione privilegiato del musicista sarebbe stato, negli anni immediatamente successivi al 1902, il pianoforte, da sempre (come del resto sarebbe stato anche per buona parte del nuovo secolo) il terreno più propizio alle innovazioni, perché nell'immediatezza del rapporto fra atto compositivo e possibilità esecutiva, nella dimensione squisitamente individuale di strumento capace di «far da sé», più aperto alla libertà del discorso ritmico e alla stessa sottilizzazione del fatto timbrico, di quanto non lo fosse l'orchestra, la cui scrittura era condizionata dalla necessità di contemplare sovrapposizioni e incastri di voci diverse, e le cui possibilità sperimentali erano più soggette alla tirannia della suddivisione in misure e del dosaggio di timbri e volumi.

Ma accanto alla stupenda serie delle composizioni pianistiche, avviata nel 1903 con le tre Estampes, giganteggia nella produzione debussyana immediatamente successiva al Pelléas una superba partitura sinfonica, destinata a restare come il momento centrale, dopo i tre Nocturnes composti nel 1897-99, nelle more della gestazione del Pelléas, e prima della terza serie di Images, che sarebbe venuta fra il 1906 e il 1912, del grande trittico dei capolavori orchestrali, non legati alla voce o al teatro: La mer. Del lavoro appena cominciato così scriveva Debussy in una lettera del settembre 1903: «Sto lavorando a tre schizzi sinfonici intitolati: 'Mare bello alle isole Sanguinarie - Giuochi d'onde - Il vento fa danzare il mare', sotto il titolo complessivo Il mare (La mer) [...]. Forse non sapete che io ero destinato alla bella vita del marinaio, e che soltanto per caso fui distolto da tale prospettiva. Ma ho tuttora una gran passione per il mare. Mi direte che l'oceano non bagna le colline di Borgogna, e che ciò che io faccio è come dipingere un paesaggio in studio. Ma i miei ricordi sono innumerevoli, e penso che essi valgano più della realtà, che in genere appesantisce il pensiero». I ricordi risalivano all'infanzia del musicista, ai soggiorni nel Meridione che gli aveva reso possibili la generosità dei padrini: Cannes gli aveva lasciato un ricordo incantevole, e fortissima era stata l'impressione dell'Atlantico, conosciuto più tardi. Ma il «ricordo» era cosa da intendere a sua volta in modo non troppo letterale: le isole Sanguinarie del titolo del primo schizzo - poi scartato in favore dell'assai più suggestivo Dall'alba a mezzogiorno sul mare - Debussy, che non era mai stato in Corsica, le conosceva per sentito dire; sicché l'intenzione del compositore, olte a non essere descrittiva nel senso più banalmente realistico del termine, appariva scopertamente «letteraria», secondo un atteggiamento che si sarebbe ripetuto sovente nelle evocazioni di figure o paesi affatto immaginari (basterebbero i titoli di tanti fra i ventiquattro Preludi pianistici a darcene un'idea). Eliminata, con la soppressione del riferimento geografico, ogni possibilità d'equivoco in tal senso, e mutata, con fedelissimo innalzamento poetico, anche l'intestazione del terzo pezzo, trasformato in Dialogo del vento e del mare, Debussy presentò al pubblico la partitura, terminata il 5 marzo 1905 «alle sei di sera», il 15 ottobre di quello stesso anno, ai Concerts Lamoureux, affidandola alla direzione di Camille Chevillard.

Le accoglienze non furono tutte entusiastiche. Poco più di una battuta furono le parole di Satie, che dopo aver udito provare De l'aube à midi sur la mer rispose a Debussy che gli chiedeva che cosa ne pensasse: «Ah, caro amico: c'è specialmente un momentino, fra le dieci e mezza e le undici meno un quarto, che mi pare stupendo!»; una frecciata verso i compiacimenti simbolistico-descrittivi dell'Impressionismo, senz'altro ingiustificata e fuor di luogo. Altrettanto fuor di luogo e ingiustificate, d'altro canto, appaiono le reazioni a caldo di alcuni fra i più autorevoli critici parigini, i quali al contrario rimproverarono a La mer - il primo lavoro importante che Debussy avesse presentato dopo Pelléas - proprio di non essere abbastanza impressionista. La palma fu vinta da Pierre Lalo, il critico del «Temps» (era figlio di Edouard Lalo, l'autore della Symphonie espagnole): «Scritti da chiunque altro che da Debussy, i tre brani de La mer mi avrebbero affascinato; ma trattandosi di lui, mi sento deluso. Perché una tale sensazione? Ricordate in Pelléas la scena della grotta? Qualche accordo, un ritmo dell'orchestra: c'è tutta la notte e tutto il mare. Mi sembra che ne La mer questa sensibilità non sia così intensa né così spontanea; mi sembra che Debussy abbia voluto sentire e non abbia veramente, profondamente e naturalmente sentito. Per la prima volta, ascoltando un'opera descrittiva di Debussy, ho l'impressione di essere non davanti alla natura, ma davanti a una riproduzione della natura: riproduzione meravigliosamente raffinata, ingegnosa e industriosa, ma sempre riproduzione». Poi la sentenza, simile al reclamo di un acquirente deluso dal fornitore: «Io non odo, non vedo, non sento il mare»; e simili appunti vennero da altri, da Jean d'Udine, che sul «Courier musical» accusava Debussy di deficienze costruttive e di estraneità alla poesia del mare, a Gaston Carraud, che sulla «Liberté» spiegava che del mare Debussy, pur dipingendo benissimo i giuochi di colore e di luce, non aveva saputo dare l'idea essenziale. Al di là dell'impressione più o meno curiosa che può farci, oggi che tutti sappiamo quale capolavoro immenso sia La mer, il vederla oggetto di sì fiere accuse di manchevolezza dal punto di vista dell'oceanografia musicale, questo tipo di rilievi risulta altamente indicativo del valore di novità - soprattutto all'interno della parabola creativa di Debussy - che La mer dimostrò al suo primo apparire. Per Pelléas e in nome di Pelléas la Francia musicale aveva combattuta una violenta battaglia con se stessa. Per contrastato che fosse stato l'affacciarsi del grande capolavoro sulla scena della cultura musicale di Francia, esso si era rapidamente affermato come una specie di manifesto della nuova musica nazionale, e in grazia di esso il compositore, fin allora rimasto relativamente oscuro, era in breve divenuto oggetto di un vero e proprio culto. Se quindi adesso era lo stesso Debussy a discostarsi così decisamente dalla maniera di Pelléas - e di quei Nocturnes che in parte ne respiravano l'atmosfera, pur preannunciando in tante cose la dimensione estetica de La mer - non c'è da sorprendersi registrando un certo senso, comunque espresso e motivato, di delusione da parte di qualcuno.

La differenza, la novità erano profonde. «Alle sfumature, alle melodie volontariamente sospese», scrisse Louis Laloy, «si sostituisce, senza rinunciare a una sottigliezza di sensazioni forse unica al mondo, uno stile serrato, determinato, affermativo, pieno; in una parola, 'classico'». Questa classicità - per ambiguo che possa suonare tale concetto nel caso di un musicista del Novecento, e in particolare di un Debussy, si manifesta anche, come Laloy non manca di notare, nella struttura complessiva del lavoro, che dietro la dizione «tre schizzi» cela un impianto quanto mai robusto: quasi una Sinfonia in tre tempi, che, arriva a dire Roland-Manuel, «potrebbero pure intitolarsi Allegro, Scherzo e Finale, ove si volesse riconoscere una tendenza, pur aborrita, verso un atteggiamento 'ciclico'». A tenere unito insieme tematicamente il grande affresco, provvede infatti il ritorno nel terzo brano di spunti tematici del primo; così come il primo, quello che in una Sinfonia vera sarebbe un tempo di Sonata, è costruito liberamente ma con solido disegno formale, anche per quanto riguarda il succedersi delle tonalità in cui sono esposte le tre idee tematiche principali. Accanto a queste considerazioni, c'è comunque da rilevare con particolare attenzione quella che è la veste sonora de La mer, che resta forse il traguardo massimo raggiunto da Debussy in fatto di ricchezza d'ispirazione timbrica e di varietà di colori orchestrali. Non si tratta ovviamente soltanto di un dato esteriore: il timbro, il colorito strumentale, sono in Debussy molto di più che non un accessorio del fatto compositivo in sé, ma anzi costituiscono un dato primario dell'atto creativo, non meno degli altri parametri del suono: tanto più che, pur essendo La mer tutt'altra cosa che una composizione «descrittiva» come credeva Pierre Lalo, la poesia del mare e del vento che in essa trova realizzazione sonora non poteva prescindere da una massima pertinenza (almeno poetica: non vi si fa, se non in senso trasfigurato, dell'onomatopeia musicale) delle soluzioni timbriche alle immagini via via evocate.

Con La mer, quell'impiego della grande orchestra post-romantica come mezzo coloristico, atto a registrare i più sottili e complessi moti della fantasia e dell'emozione proprio attraverso le sempre cangianti prospettive timbriche, che già tanto felicemente Debussy aveva praticato nel Pelléas e nei tre Nocturnes, giunge a una pienezza di risultati senz'altro straordinaria, accrescendosi rispetto ai due capolavori precedenti di un'ampiezza e potenza di respiro inedite non solo per Debussy, ma forse per tutta la musica europea. Il primo schizzo, Dall'alba a mezzogiorno sul mare, si svolge, rendendo giustizia al titolo, in continuo crescendo di sensazioni, quasi registrando un progressivo intensificarsi di luminosità dalle sonorità smorzate dell'introduzione fino alla smagliante apoteosi di luce della chiusa. La dovizia delle idee melodiche, che si susseguono e si alternano con flusso instancabile, il contorno definito che esse assumono fino ad acquistare il rilievo di veri e propri temi contribuiscono a caratterizzare questo primo movimento appunto in quel senso «classico» che con una certa forzatura Louis Laloy vi rilevava, rendendolo il più saldo e il più imponente, anche se forse il meno impressionante dei tre. Tutt'altro clima nei Giuochi d'onde che seguono, dove l'impianto costruttivo è quasi polverizzato dalla fluidità del divenire sonoro: la velocità con cui le idee tematiche, a volte brevissime, si susseguono incalzanti, le traslucide prospettive sonore create dalla strumentazione, di magica sottigliezza, fanno di questo pezzo uno degli esempi più straordinari di integrazione fra disegno formale e intuizione coloristica, sotto il segno di un'inventiva fantastica che non sembra conoscere soste. Caratteri, questi, che ritornano nel Dialogo del vento e del mare che conclude con le sue grandiose visioni il vasto quadro: la ricchezza dell'orchestrazione si fonde qui con l'agitato succedersi delle immagini; l'ampiezza e l'audacia della concezione travalicano la stessa suggestione descrittiva che si potrebbe esser tentati di ravvisarvi (il mare gonfio e possente, il respiro poderoso del vento), per proporci questa pagina, quanto e più delle altre due, come uno dei più sconvolgenti e profetici documenti del Novecento nascente.

Daniele Spini


(1) Testo tratto dal programma di sala del Concerto dell'Accademia di Santa Cecilia,
Roma, Auditorium Parco della Musica, 14 Novembre 2009
(2) Testo tratto dal libretto inserito nel CD allegato al n. 47 della rivista Amadeus
(3) Testo tratto dal programma di sala del Concerto del Maggio Musicale Fiorentino,
Firenze, Teatro Comunale, 29 ottobre 1980


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Ultimo aggiornamento 2 novembre 2017