Seven Sonnets of Michelangelo, op. 22

per tenore e pianoforte

Musica: Benjamin Britten (1913 - 1976)
Testo: Michelangelo Buonarroti
  1. Sonetto XVI: Sì come nella penna - Tempo giusto
  2. Sonetto XXXI: A che più debb'io mai - Con moto appassionato
  3. Sonetto XXX: Veggio co' bei vostri occhi - Andante tranquillo
  4. Sonetto LV: Tu sa' ch'io so - Poco presto ed agitato
  5. Sonetto XXXVIII: Rendete a gli occhi miei - Allegretto quasi una serenata
  6. Sonetto XXXII: S'un casto amor - Vivace
  7. Sonetto XXIV: Spirto ben nato - Largo
Organico: tenore, pianoforte
Composizione: marzo - 30 ottobe 1940
Prima esecuzione: Londra, Wigmore Hall, 23 settembre 1942
Edizione: Boosey & Hawkes, Londra, 1943
Dedica: a Peter
Guida all'ascolto (nota 1)

I Seven Sonnets of Michelangelo appartengono al periodo trascorso da Benjamin Britten in America, all'inizio del secondo conflitto mondiale. Varie considerazioni avevano spinto il compositore ad abbandonare l'Inghilterra, assieme al suo compagno Peter Pears. Innanzitutto il mancato riconoscimento, in patria, del suo talento. Inoltre, com'è ovvio, il clima internazionale; nell'imminenza del conflitto molti fra gli intellettuali europei si determinarono ad abbandonare il vecchio continente e ad emigrare nel nuovo. Fra i primi fu certamente Wystan Hugh Auden, letterato impegnato in prima fila per la difesa delle libertà contro i pericoli delle dittature fasciste. Un rapporto di amicizia e di reciproca ammirazione legava Auden e Britten; i due artisti si erano conosciuti nel 1935 in occasione di un paio di film ai quali avevano collaborato rispettivamente come sceneggiatore e autore della colonna sonora. In seguito Britten aveva posto in musica vari cicli di liriche di Auden, nonché il brano Ballad of Heroes, dedicato ai soldati britannici che avevano combattuto nella guerra civile spagnola. Così, ammirato dall'esempio del poeta - che aveva lasciato l'Inghilterra alla ricerca di un luogo dove l'assenza di radici gli consentisse di estrinsecare completamente il suo talento - anche Britten nell'estate 1939 approdò in America, prima in Canada e poi negli USA, dove il 21 agosto poteva assistere alla prima esecuzione americana delle Variazioni su un tema di Frank Bridge, che gli avevano garantito il primo clamoroso successo europeo, a Salisburgo nel 1937. Sarebbe ripartito solamente due anni e mezzo più tardi.

Nascono, nel periodo americano, diversi lavori assai rilevanti nel catalogo di Britten; fra questi, il ciclo di liriche di Rimbaud Les illuminations, per voce acuta e orchestra, il Concerto per violino, la Sinfonia da Requiem. Il brano più significativo sotto il profilo privato, comunque, doveva essere certamente il ciclo dei Seven Sonnets of Michelangelo, terminato il 30 ottobre 1940 ed eseguito in pubblico per la prima volta alla Wigmore Hall di Londra il 23 settembre 1942, poche settimane dopo il ritorno in patria. La dedica dell'edizione a stampa non lascia dubbi sul significato privato: "To Peter". Peter era ovviamente Peter Pears, il grande tenore che Britten aveva conosciuto nel 1937 per stringere una relazione che sarebbe durata tutta la vita. Cantante di mezzi vocali non straordinari ma di grande gusto e raffinatezza, persona di cultura e curiosità intellettuale, in sostanza compagno di vita ideale per una personalità d'eccezione come quella di Britten, Pears sarebbe stato da allora in poi anche l'interprete prediletto del compositore, la voce per cui vennero scritte le parti protagonistiche di tutte o quasi le opere di Britten, di volta in volta adattate all'evoluzione dei mezzi vocali del cantante.

In questa parabola che unisce in un rapporto simbiotico autore ed interprete, i Seven Sonnets of Michelangelo costituiscono in assoluto il primo lavoro scritto da Britten espressamente per il suo compagno. Di qui la dedica e il significato privato, che è veicolato anche dalla scelta del tutto particolare dei testi poetici di Michelangelo Buonarroti. Come molti artisti rinascimentali, infatti, Michelangelo coltivava, accanto all'impegno professionale di scultore, pittore, architetto, anche l'arte poetica, con un numero singolarmente elevato di composizioni in versi che riflettono spesso le situazioni più private. Spiccano, fra i tanti versi, i numerosi sonetti amorosi, rivolti per la maggior parte al gentiluomo romano Tommaso de' Cavalieri. Tuttavia la concezione dell'amore per Michelangelo viene filtrata attraverso il neoplatonismo di uno dei suoi maestri, il filosofo Marsilio Ficino; dunque l'amore maschile non è carnale, è in realtà innanzitutto l'amore di un'anima verso un'altra anima; attraverso la bellezza della persona amata si manifesta la bellezza di Dio. In questa prospettiva occorre interpretare alcuni dei versi meno chiari dei sonetti di Michelangelo ("Quel che nel tuo bel volto bramo e 'mparo, / E mal compres' è degli umani ingegni / Chi 'l vuol veder, convien che prima mora"; sonetto LV), che peraltro devono la loro oscurità anche al linguaggio singolarmente involuto dell'artista, non altrettanto a suo agio con la penna che con lo scalpello e il pennello. Non mancano tuttavia nel testo anche allusioni e riferimenti di carattere erotico ("Se vint' e pres' i' debb'esser beato, / Maraviglia non è se nud' e solo / Resto prigion d'un Cavalier armato"; sonetto XXXI, dove "Cavalier" non è solo figura retorica, ma si riferisce a Tommaso de' Cavalieri). Aspirazione alla purezza e tentazione della carne sono insomma i due poli fra i quali si divide il Michelangelo poeta.

È dubbio che Britten potesse cogliere tutte le sfumature dei versi michelangioleschi (infatti la traduzione inglese dei sonetti premessa all'edizione a stampa dello spartito, curata da Elizabeth Mayer in collaborazione con lo stesso Pears, non è esente da qualche fraintendimento); ne coglieva però il senso complessivo, quello di un omaggio amoroso di un artista verso l'amato, in cui si sommano carnalità e spiritualità, dunque un riferimento ideale per l'omaggio "To Peter", al proprio compagno e interprete. I sette sonetti selezionati da Britten possono essere sintetizzati nel loro contenuto come segue:

  1. (Sonetto XVI). Confronto fra il poeta che utilizza lo stile che più gli si confà, e l'innamorato che trae dall'immagine dell'oggetto amato ciò che gli è simile: pianti e dolori.
  2. (Sonetto XXXI). La sofferenza per l'amato spinge l'amante a desiderare la morte; ma dalla sottomissione all'amato nasce la beatitudine.
  3. (Sonetto XXX). Completa dipendenza e immedesimazione dell'amante nell'oggetto amato.
  4. (Sonetto LV). L'amante invita l'oggetto amato a lasciar cadere le barriere; lui solo può comprenderlo.
  5. (Sonetto XXXVIII). L'amante deluso invita la natura a ridargli le sue facoltà, per poter amare un altro oggetto.
  6. (Sonetto XXXII). Descrive il nodo strettissimo fra due individui che si amano.
  7. (Sonetto XXIV). Perfezione dell'oggetto amato e rammarico della sua mortalità.

Si tratta, complessivamente, degli unici testi in lingua italiana posti in musica da Britten (per inciso, il compositore e il suo interprete portarono questi brani in tournée in Italia nel 1947; li eseguirono il 28 aprile a Roma, ospiti della stagione dell'Accademia Filarmonica Romana). Non stupisce che, nella veste musicale, Britten si rivolgesse proprio a uno stile italianista, ovvero basato sul principio della melodia accompagnata, e costruito su una linea vocale estremamente ricca di sfumature, sensibile alla semantica del testo. C'è insomma una vocazione belcantista in questo Britten italianizzante, che è temperata però dalla grande ricchezza armonica della parte pianistica, e anche dalla sapienza costruttiva, che rende coerente il contenuto di ogni singolo sonetto, e inoltre crea connessioni fra i diversi sonetti. Ricorrente è, ad esempio, lo schema che porta in ogni pagina gli iniziali spunti melodico-ritmici verso complesse peregrinazioni che trovano il loro apice poco prima della fine; come anche il ricorso a melodie scritte nel modo lidio (ovvero una scala con il quarto grado alterato in senso ascendente), che si ritrovano già nel primo sonetto (sonetto XVI, per Michelangelo).

La Fanfara che apre la pagina, con una figurazione di quattro note al pianoforte, rimane poi un elemento costante dell'accompagnamento. Altri elementi ricorrenti sono l'unisono voce-pianoforte e la discesa del pianoforte nelle zone gravi della tastiera. La sensibilità al testo è palese dalla transizione espressiva sul verso "Così, signor mie car, nel petto vostro", con il passaggio da la maggiore a do maggiore e l'intonazione in piano della voce. A questo sonetto così chiaramente affermativo ne succede un secondo (sonetto XXXI) che sembra ispirarsi a Schumann per l'inquietudine dell'accompagnamento: fra ritmi puntati e sincopi, attraversa un complesso percorso armonico che trova il suo culmine nell'ultimo verso, ripetuto poi in modo più meditativo.

La pagina più sognante della raccolta - forse anche perché particolarmente evidente è in essa il modo lidio - è la terza (sonetto XXX), caratterizzata dai lenti accordi ribattuti e dagli arabeschi del pianoforte, che si intrecciano con la linea vocale; la dinamica quasi sempre contenuta si innalza solo verso il centro della composizione, e poi, poco prima del termine, al suo apice espressivo ("Che gli occhi nostri in ciel"), che coincide con la nota più acuta della tessitura del tenore, il si naturale. "Poco presto ed agitato" è l'indicazione del quarto sonetto (Sonetto LV), dove particolarmente inquieto è il percorso armonico e tonale, che sottolinea il fraseggio affannoso della voce; l'ultima terzina del sonetto - quella più misteriosa e neoplatonica - è espressa in uno stile recitativo, che si increspa nuovamente sulle ultime battute.

Con il quinto sonetto (sonetto XXXVIII) abbiamo un "Allegretto quasi una serenata", e infatti il pianoforte, sul metro cullante di 6/8, riecheggia sonorità chitarristiche, mentre la voce, attraverso le consuete peregrinazioni, ripete sempre lo stesso schema ritmico-melodico; la serenata si spegne lentamente con l'allargamento dei valori sull'ultimo verso. Il sesto sonetto (sonetto XXXII) è uno dei più brevi, basato sull'accompagnamento frastagliato fortemente ritmato e dissonante del pianoforte, che viene in primo piano a più riprese, e sulla rapida sillabazione della voce. Ben altro spessore ha l'ultima pagina (sonetto XXIV), che si apre con una lenta e meditativa introduzione pianistica, basata sulle sonore scale ascendenti della mano sinistra contrapposte agli accordi della destra; la voce attacca poi grandiosamente senza accompagnamento; e lo schema è infatti quello dell'alternanza fra lo strumento e la voce, che subiscono però un progressivo percorso di avvicinamento, che sfocia in un postludio in pianissimo. Non è solo l'ambientazione espressiva ideale per uno dei sonetti più felici e commossi di Michelangelo, ma anche una vera simbologia sonora che riunisce in una simbiosi le due distinte personalità del pianoforte e della voce, come quelle del musicista e del cantante dedicatario e interprete della raccolta.

Arrigo Quattrocchi

Testo

1. Sonetto XVI

Sì come nella penna e nell'inchiostro
È l'alto e 'l basso e 'l mediocre stile,
E ne' marmi l'immagin ricca e vile,
Secondo che 'l sa trar l'ingegno nostro;

Così, signor mie car, nel petto vostro,
Quante l'orgoglio, è forse ogni atto umile:
Ma io sol quel c'a me proprio è e simile
Ne traggo, come fuor nel viso mostro.

Chi semina sospir, lacrime e doglie,
(L'umor dal ciel terreste, schietto e solo,
A vari semi vario si converte),

Però pianto e dolor ne miete e coglie;
Chi mira alta beltà con sì gran duolo,
Dubbie speranze, e pene acerbe e certe.

2. Sonetto XXXI

A che più debb'io mai l'intensa voglia
Sfogar con pianti o con parole meste
Se di tal sorte 'l ciel, che l'alma veste,
Tard' o per tempo, alcun mai non ne spoglia?

A che 'l cor lass' a più morir m'invoglia,
S'altri pur dee morir? Dunque per queste
Luci l'ore del fin fian men moleste;
Ch'ogn' altro ben val men ch'ogni mia doglia.

Però se 'l colpo, ch'io ne rub' e 'nvolo,
Schifar non poss'; almen, s'è destinato,
Ch entrerà 'nfra la dolcezza e 'l duolo?

Se vint' e pres' i' debb'esser beato,
Maraviglia non è se nud' e solo,
Resto prigion d'un Cavalier armato.

3. Sonetto XXX

Veggio co' bei vostri occhi un dolce lume,
Che co' miei ciechi già veder non posso;
Porto co' vostri piedi un pondo addosso,
Che de' mie zoppi non è già costume.

Volo con le vostr'ale senza piume;
Col vostr'ingegno al ciel sempre son mosso;
Dal vostr'arbitrio son pallido e rosso,
Freddo al sol, caldo alle più fredde brume.

Nel voler vostro è sol la voglia mia,
I mie' pensier nel vostro cor si fanno,
Nel vostro fiato son le mie parole.

Come luna da sè sol par ch'io sia;
Che gli occhi nostri in ciel veder non sanno
Se non quel tanto che n'accende il sole.

4. Sonetto LV

Tu sa, ch'io so, signor mie, che tu sai
Ch'i veni per goderti più da presso;
E sai ch'i' so, che tu sa' c'i' son desso:
A che più indugio a salutarci ornai?

Se vera è la speranza che mi dai,
Se vero è 'l buon desio che m'è concesso,
Rompasi il mur fra l'uno e l'altro messo;
Chè doppia forza hann' i celati guai.

S'i' amo sol di te, signor mie caro,
Quel che di te più ami, non ti sdegni;
Che l'un dell'altro spirto s'innamora,

Quel che nel tuo bel volto bramo e 'mparo,
E mal compres' è degli umani ingegni,
Chi i vuol veder, convien che prima mora.

5. Sonetto XXXVIII

Rendete agli occhi miei, o fonte o fiume,
L'onde della non vostra e salda vena.
Che più v'innalza, e cresce, e con più lena
Che non è 'l vostro natural costume.

E tu, folt'air, che 'l celeste lume
Tempri a' tristi occhi, de' sospir miei piena,
Rendigli al cor mio lasso e rasserena
Tua scura faccia al mio visivo acume.
 
Renda la terra i passi alle mie piante,
Ch'ancor l'erba germogli che gli è tolta;
E 'l suono Ecco, già sorda a' miei lamenti;

Gli sguardi agli occhi mie, tue luci sante,
Ch'io possa altra bellezza un'altra volta
Amar, po' che di me non ti contenti.

6. Sonetto XXXII

S'un casto amor, s'una pietà superna,
S'una fortuna infra dua amanti equale,
S'un'aspra sorte all'un dell'altro cale,
S'un spirto, s'un voler duo cor governa;

S'un'anima in duo corpi è fatta etterna,
Ambo levando al cielo e con pari ale;
S'amor d'un colpo e d'un dorato strale
Le viscer di duo petti arda e discerna;

S'amar l'un l'altro, e nessun se medesmo,
D'un gusto e d'un diletto, a tal mercede,
C'a un fin voglia l'uno e l'altro porre;

Se mille e mille non sarien centesmo
A tal nodo d'amore, a tanta fede;
E sol l'isdegno il può rompere e sciorre.

7. Sonetto XXIV

Spirto ben nato, in cui si specchia e vede
Nelle tue belle membra oneste e care
Quante natura e 'l ciel tra no' può' fare,
Quand'a null'altra suo bell'opra cede;

Spirto leggiadro, in cui si spera e crede
Dentro, come di fuor nel viso appare,
Amor, pietà, mercè, cose sì rare
Che ma' furn'in beltà con tanta fede;

L'amor mi prende, e la beltà mi lega;
La pietà, la mercè con dolci sguardi
Ferma speranz'al cor par che ne doni.

Qual uso o qual governo al mondo niega,
Qual crudeltà per tempo, o qual più tardi,
C'a sì bel viso morte non perdoni?

(1) Testo tratto dal programma di sala del Concerto dell'Accademia Filarmonica Romana,
Roma, Teatro Olimpico, 23 ottobre 2003

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Ultimo aggiornamento 16 febbraio 2014