Carmen

Opéra-comique in quattro atti

Musica: Georges Bizet (1838-1875)
Libretto: Henri Meilhac e Ludovic Halévy da Prosper Mérimée

Personaggi: Organico: 2 flauti (anche ottavini), 2 oboi (2 anche corno inglese), 2 clarinetti, 2 fagotti, 4 corni, 2 pistons (cornette a pistoni), 3 tromboni , timpani, grancassa, piatti, tamburo, triangolo, tamburello, nacchere, 2 arpe, archi
Da suonare internamente: 2 trombe, 3 tromboni
Composizione: 1873 - 1874
Prima rappresentazione: Parigi, Opéra-Comique, 3 marzo 1875
Edizione: Choudens, Parigi, 1875
Sinossi

In Spagna verso il 1820

Atto primo
PlAZZA DI SlVIGLIA, DAVANTI ALLA MANIFATTURA TABACCHI
Moralès, capo dei dragoni, osserva l'andirivieni dei passanti, Giunge, dal suo paese di campagna, Micaëla alla ricerca del brigadiere Don José che però non è ancora arrivato; la giovane quindi si allontana. Una grande animazione accompagna la comparsa sulla piazza delle ragazze che escono dalla manifattura per la pausa. Carmen, un'ardente e sfrontata sigaraia corteggiata da tutti, getta un fiore a Don José; il giovane, pur ostentando indifferenza resta turbato dal suo gesto. L'arrivo della fidanzata Micaëla, che viene a recargli il saluto della madre lontana, sembra distoglierlo dal pensiero di Carmen. Ma, partita la ragazza, scoppia nella Manifattura una lite provocata dalla sigaraia che, tratta in arresto, viene consegnata a Don José. Carmen, rimasta sola con il bel brigadiere, mette in opera tutte le sue arti di seduzione affinchè egli la faccia fuggire; Don José dapprima resiste, ma poi la slega. Poco dopo, mentre la sta conducendo in prigione, si fa gettare a terra e lascia che Carmen fugga confondendosi tra la folla.

Atto secondo
OSTERIA DI LILLAS-PASTIA
Carmen balla e canta, con alcune compagne, alla presenza del capitano Zuniga e di altri ufficiali. Entra, fra le acclamazioni generali, il torero Escamillo, che vuole brindare con gli amici; rivolge qualche frase galante a Carmen, ma il pensiero della donna è rivolto solo a José, e quando gli amici contrabbandieri la invitano a unirsi a loro la donna rifiuta. Innamorata di Don José, Carmen attende che il brigadiere esca dalla prigione nella quale è stato rinchiuso per averla fatta fuggire. Giunge finalmente José, ma s'ode una tromba suonare la ritirata e il brigadiere si accinge a far ritorno in caserma. Grande è allora il dispetto di Carmen, che copre di scherno l'uomo. Tornato il capitano Zuniga, il brigadiere sta per battersi con lui, ma sopraggiungono i contrabbandieri che li separano e conducono via Zuniga. Don José, dopo breve esitazione, accetta di seguire Carmen sulle montagne e di farsi contrabbandiere per amor suo.

Atto terzo
LUOGO SELVAGGIO E REMOTO SUI MONTI, QUARTIER GENERALE DEI CONTRABBANDIERI
È notte: al chiarore dei fuochi di bivacco Don José pensa con rimorso alla vecchia madre alla quale ha celato il nuovo corso della sua vita. Carmen si è già stancata di lui e pensa al torero Escamillo come nuovo amante. Mentre chiede alle carte il suo destino, la donna ha oscuri presentimenti di morte ai quali però, come dominata dall'ineluttabilità del destino, non sa né vuole opporsi. Don José, che la ama ancora disperatamente, si scontra con Escamillo che è salito sulle montagne per vedere Carmen: i due stanno battendosi con i coltelli quando Carmen giunge a dividerli. Intanto Micaëla, che si è nascosta fra le gole dei monti, supplica il fidanzato di seguirla, perché sua madre sta morendo e chiede di lui. Don José, minacciando Carmen che lo sfida con atteggiamento provocante ed ironico, segue Micaëla, straziato dal dolore e dalla gelosia.

Atto quarto
PIAZZA DI SIVIGLIA IN PROSSIMITÀ DELL'ARENA
La folla acclama Escamillo che, accompagnato da Carmen, si reca alla corrida. Frasquita e Mercedes mettono in guardia l'amica contro Don José che hanno visto aggirarsi vicino all'Arena. Carmen però non teme l'antico amante e, rimasta sola con lui, gli getta in faccia tutto il suo disprezzo. Invano il giovane, sconvolto dalla gelosia, la supplica di tornare con lui e di amarlo ancora. Carmen è irremovibile e lancia ai suoi piedi l'anello di fidanzamento. Don José, accecato dal dolore e per impedire che Carmen raggiunga il torero, si getta come impazzito su di lei pugnalandola. Escamillo, circondato dalla folla, appare sui gradini dell'Arena mentre Don José, chiamando Camen disperatamente, cade singhiozzando sul corpo della donna che ha appena ucciso.

Brani celebri
Atto primo
Atto secondo
Atto terzo
Atto quarto

Guida all'ascolto (nota 1)

Quando la sera del 23 ottobre 1875 il pubblico viennese decretò il trionfo della Carmen, lavando l'onta dell'insuccesso che era toccato all'opera alla prima parigina del 3 marzo precedente, il destino del suo autore si era già compiuto. Georges Bizet non ebbe modo di assistere alla resurrezione del suo capolavoro. Era morto il 3 giugno, mentre le repliche erano ancora in corso, vittima, probabilmente, delle ricorrenti tonsilliti che gli avevano procurato affezioni reumatiche con conseguenze cardiache. Probabilmente, dato che le testimonianze sono contraddittorie e si è anche parlato di suicidio dovuto a varie cause, non ultima l'esito dell'opera maggiore. Esito che, se non fu causa diretta, certo non giovò alla salute fisica, già minata, dell'autore, per non dire di quella psichica. Vero è che a consolare le sue ultime ore dovette venire proprio il contratto per Vienna, che Bizet firmò il giorno prima di morire e che dimostrava un interesse per l'opera che andava al di là delle trame meschine che avevano portato alla sua caduta. Le quali furono molteplici. A fronte, infatti, della scandalizzata reazione di una parte del pubblico per il soggetto "troppo scabroso", dell'incredibile miopia di una critica sorda ad ogni innovazione musicale e drammaturgica, c'erano stati altri fattori: beghe per la scelta degli interpreti, sostanziale disinteresse dei due librettisti Meilhac e Halévy (per i quali, per dirla con Winton Dean, Carmen "era uno spettacolo di importanza secondaria" che metteva per giunta a rischio la loro reputazione di autori drammatici) e, last but not least, l'ambiguo atteggiamento del direttore dell'Opéra-Comique, Camille Du Locle, difensore sì della nuova musica e di quella di Bizet, ma poco convinto del libretto e terrorizzato da un insuccesso, che sommatosi a quelli precedenti della sua gestione, avrebbe portato, come difatti avvenne, alle sue dimissioni. Come dire che l'insuccesso nacque, prima che alla ribalta, dietro le quinte, ad onta degli sforzi di molti e dell'entusiasmo della protagonista, Celestine Galli-Marié, l'unica forse pienamente convinta e in totale consonanza con le intenzioni del compositore.

Se l'entusiasmo imprescindibile dell'interprete non bastò a salvare la prima, fu però decisivo per il seguito della fortuna in molti paesi europei, Italia compresa, dove la Galli-Marié fece conoscere Carmen a Napoli nel 1879 e poi in diverse altre città. E fu ancora lei a segnare, dopo una lunga battaglia condotta in prima persona, la ripresa parigina che avvenne solo nel 1883, quando l'opera era ormai popolarissima in tutta Europa e perfino a New York.

All'epoca in cui compose Carmen il trentasettenne Bizet aveva al suo attivo una travagliatissima storia di autore drammatico fatta di numerosi tentativi nelle più svariate direzioni che avevano toccato l'operetta, l'opera buffa in stile e lingua italiana, l'opéra-comique, le musiche di scena e anche il grand-opéra (genere al quale appartiene, ad esempio, l'Ivan IV). Ben pochi di questi tentativi, che si estesero perfino (col Noè) al completamento di lavori altrui, giunsero a maturazione. Il tutto, tra opere completate ma variamente riviste, abbozzate, lavori distrutti o perduti, costituisce un puzzle quasi inestricabile per biografi ed editori. Anche i contenuti drammaturgici differiscono al massimo, andando dall'ambientazione borghese a quella medioevale, dalle turcherie all'esotismo di maniera. Le poche opere rappresentate, quando - raramente - avevano riscosso un qualche esito, lo avevano avuto tutt'al più di quelli che si definiscono "di stima". Nemmeno La jolie fitte de Perth, che alla sua prima, nel dicembre del 1867, conobbe una buona accoglienza da parte di pubblico e critica, resse oltre la prima stagione. Non stupisce che, nelle ricorrenti crisi depressive, Bizet finisse qualche volta per pensare di dedicarsi alla musica sinfonica o alla carriera di pianista per la quale, giovanissimo, aveva avuto autorevoli incoraggiamenti. Ma il suo destino era comunque il teatro e il dramma, e proprio alla soglia della composizione di Carmen la consapevolezza intima della propria autentica vocazione e delle proprie scelte raggiunse il suo culmine. Poche opere sono state scritte con altrettanta convinzione e determinazione e in poche opere si può godere a fondo, in ogni singolo passo, della "felicità" che presiedette alla sua creazione. Che questo sia avvenuto per un autore il quale aveva distrutto, rinnegato, abbandonato moltissimi lavori precedenti e che questo abbia segnato, invece che l'inizio di una luminosa maturità, la fine di un genio di tanta generosità inventiva è uno dei destini più amari nella storia del teatro musicale. Con Carmen, si può ben dire, Bizet incontrò il suo personaggio, la sua vicenda, il suo destino di artista e di uomo.

Di una nuova commissione per Bizet si era cominciato a parlare dopo la prima di Djamileh, avvenuta al Théàtre dell'Opéra-comique il 22 maggio 1872. Ad onta dell'insuccesso che era toccato a questo lavoro, più ambizioso che riuscito, esso aveva convinto compositori del calibro di Massenet e Saint-Saëns e soprattutto aveva convinto Du Locle sul fatto che proprio Bizet era colui dal quale poteva aspettarsi il tanto invocato rinnovamento del genere abusato dell'opéra-comique, troppo spesso ancora debitore dello stile facile e corrivo di Auber e dei suoi imitatori. Una delle ragioni della caduta di Djamileh era stata la debolezza del libretto di Louis Gallet e questa volta Du Locle volle premunirsi incaricando una coppia illustre, quella costituita da Henri Meilhac e Ludovic Halévy. I due autori, giunti al teatro per differenti strade, avevano colto insieme successi clamorosi, soprattutto nella collaborazione con Hoffenbach, e godevano a Parigi di una reputazione certo superiore a quella di Bizet. C'è da dire anche che Ludovic Halévy era divenuto parente di Bizet da quando questi aveva sposato la cugina Geneviève (figlia del compositore Fromental Halévy, autore della celebre Juive): una circostanza che, se dovette aiutare nella prima fase della committenza e del lavoro, non fu, come si è visto, di grande aiuto al momento della prima.

Alle origini del lavoro vi è la celebre novella di Prosper Mérimée, avvocato, archeologo, storico, poeta, autore di romanzi storici e fantastici, accademico e, nell'ultima parte della vita, senatore e uomo politico. Mérimée, nato nel 1803 e morto nel 1870, giusto alla vigilia della caduta di quel secondo impero del quale era stato uno degli uomini di spicco, come scrittore dette il meglio di sé in una serie di novelle o di romanzi brevi che, se da un lato approfondiscono alcuni filoni romantici anticipando temi ed atmosfere del decadentismo, dall'altro ne fanno un antesignano del realismo e del naturalismo. Di questo eclettico personaggio la novella Carmen (1845) è il lavoro probabilmente più riuscito, certo quello più popolare, anche prima della fortuna decretatagli dall'opera di Bizet.

Fornito di una discreta cultura letteraria, Bizet aveva una certa dimestichezza con Mérimée. Nel diario che tenne nel 1860, durante il viaggio di ritorno dall'Italia, dove aveva soggiornato come vincitore del famoso Prix de Rome, parla infatti dell'impressione che gli aveva fatto un racconto dello scrittore. Ora fu proprio Bizet, dopo che si erano discussi vari argomenti, ad indicare Carmen come fonte per la nuova opera. Il soggetto, audace per un racconto, dovette sembrare fin troppo scabroso per la scena. Occorreva inoltre, da un lato arricchire i personaggi (di fatto nel racconto tutti marginali, salvo i due protagonisti), dall'altro collocare i vari episodi in una cornice drammaturgica convincente. La narrazione di Mérimée, infatti, parte da un antefatto in cui si finge che lo stesso scrittore incontri Don José bandito e poi la gitana che lo deruba del suo orologio d'oro. Passano alcuni mesi e lo scrittore torna a Cordova dove può apprendere gli sviluppi della storia ormai consumatasi. Li apprende facendo visita in carcere a Don José che è alla vigilia di essere giustiziato. Abbiamo dunque una doppia finzione: un io narrante (Mérimée) che trascrive le confessioni, sempre in prima persona, del condannato. Questo pretesto, ottimo per la narrazione, non poteva naturalmente essere utilizzato nella finzione scenica. Gli altri cambiamenti riguardano in primo luogo la figura del protagonista, Don José, presentato nel romanzo come un militare di animo semplice, travolto dalla passione per una donna fatale e libera da ogni vincolo che lo spinge a trasformarsi in brigante e assassino, non della sola Carmen. La figura di Don José ha dunque nel racconto un rilievo e una forza certo assente nel libretto, che punta piuttosto sulla sua debolezza sentimentale. Per far ciò i due librettisti aggiunsero il personaggio di Micaëla che in qualche modo fornisce una preistoria alla passione di Don José e crea un contraltare alla figura veemente di Carmen. Nel libretto si dette anche maggior rilievo al torero Lucas, che divenne Escamillo. Per Lucas, Carmen ha solo un capriccio passeggero che non influisce nelle sue scelte finali. Per Mérimée infatti Carmen muore e accetta di morire solo per rivendicare la propria libertà e la scena conclusiva si svolge, non nella plaza de toros come sarà nel libretto, ma in una gola solitaria, dove Don José scongiura Carmen di cambiare vita e di seguirlo. La gitana, tuttavia, può accettare la morte, ma non altri vincoli: libera è nata e libera morrà. Mérimée ha come tema di fondo la descrizione di un mondo, quello dei nomadi (denominati nei vari luoghi Zingari, Bohémiens, Gitanos, Gypsies, Zigeuner), che sfuggono ad ogni regola (non a caso, dopo la conclusione della vicenda aggiunge un capitolo, del tutto avulso dalla narrazione, sui loro costumi) e, anticipando Maupassant e Zola, insiste sulla fatalità della passione per la donna. Quest'ultimo tema è evidenziato sul frontespizio del racconto dove figura la citazione di un epigramma dell'Antologia Palatina: "Ogni donna è un malanno: non ha che due buoni momenti: quando la porti al talamo, quando la porti al tumulo". Nel libretto il tema della passione fatale e travolgente è mantenuto, ma la passione di Carmen per Escamillo sposta alquanto il nodo: dall'amore per la libertà alla volubilità dei sentimenti femminili. Ciò detto, ad onta delle facili accuse mosse al testo definitivo, non vi è dubbio che da una novella assai asciutta ed essenziale, i due librettisti estrassero un impianto drammaturgico di tutto rispetto e di sicura presa teatrale. Ciò avvenne anche per la determinazione di Bizet che resistette con vigore ai tentativi di edulcorare il soggetto. Certamente alcuni difetti rimasero e sono evidenti ad una lettura del testo. Così la figura di Micaëla può apparire poco credibile e fin troppo esangue e quella di Don José, almeno nei primi atti, alquanto incolore. Ma nell'insieme la resa teatrale è solida e la musica si incaricò di dare vita anche ai personaggi dai contorni meno netti. Le stesse concessioni alla couleur locale e ai diversivi (coro dei bambini, coro dei contrabbandieri) furono sobrie e sempre funzionali alla realizzazione musicale. Che non è pregio da poco, dato l'abuso che di questi riempitivi faceva il teatro francese e farà ancor di più il teatro verista.

A comporre l'opera Bizet iniziò probabilmente già nei primi mesi del 1873, ma poi si interruppe, sia per problemi interni del teatro, sia per la proposta di comporre un'altra opera di ambientazione spagnola, derivata dalla storia del Cid. Questo lavoro, intitolato Don Rodrigue e in cinque atti, sarebbe dovuto andare in scena all'Opéra, massimo tempio della musica francese, con interprete il celebre baritono Jean-Baptiste Fauré. Bizet stese la partitura, almeno per linee vocali, ma poi, anche per l'incendio e il trasferimento del teatro, non se ne fece niente e Don Rodrigue finì nel fitto cimitero delle opere incomplete e (quasi del tutto) perdute di Bizet. Dopo questa parentesi il compositore, che forse non aveva mai cessato del tutto di lavorarci, tornò con grande lena a Carmen che fu completata nell'agosto del 1874 e orchestrata rapidamente.

Secondo una prassi corrente nei teatri francesi, molti cambiamenti intervennero durante le prove, compreso un certo numero di tagli tesi a snellire la partitura, ma anche a dar maggiore essenzialità ad alcune scene. È indubbio che molti di questi interventi (che costituiscono una specie di dannazione per gli editori) non furono, come pure si è affermato, voluti da pressioni esterne, ma derivarono dall'intenzione dell'autore di rendere l'opera più funzionale. Le differenze tra l'autografo e lo spartito edito nel 1875 hanno creato numerosi problemi. Altri sono intervenuti nel corso della storia dell'opera soprattutto a causa dei parlati. Carmen appartiene al genere dell'opéra-comique ed era dunque, nella sua versione originale, fatta di numeri musicali e di dialoghi parlati, oltre ad un certo numero di melodrames. Come per tante opere francesi di questo genere (Medée di Cherubini o Manon di Massenet, tanto per fare due celebri esempi ante e post) portandoli all'estero occorreva per lo più musicare dei recitativi di raccordo. Se infatti i parlati potevano essere accettati in Germania (dove esisteva il genere analogo del Singspiel) la tradizione di altri paesi, come Italia e Inghilterra, imponeva l'opera interamente musicata. Bizet si era dunque proposto di comporre in proprio dei Recitativi di raccordo in vista della ripresa viennese. La morte glielo impedì e il compito fu assolto dal suo fraterno amico Ernest Guiraud. Il quale, al di là dell'opportunità ormai comunemente accettata di ripristinare i dialoghi, fece un discreto lavoro. Meno accettabili furono altri interventi di Guiraud, che passarono tuttavia in tutti gli spartiti prima delle revisioni critiche. In questa veste, assai più vicina al grand-opéra che all'opéra-comique, non solo l'opera si dette a Vienna, ma girò anche il mondo e fu data in Italia fin quasi ai giorni nostri. Assai più devastanti altri inserti (anch'essi in linea con la tradizione del grand-opéra), come quello di un balletto nel Quarto Atto con numeri tratti dall'Arlesienne.

Inserita nella tradizione dell'opéra-comique, ormai - come si è accennato - logora, Carmen ne sconvolge non tanto e non solo le forme, ma lo spirito, aprendo le porte allo sviluppo di tutto un settore del teatro musicale che porterà al cosiddetto verismo, ma anche ad alcune tra le più importanti espressioni del teatro borghese di fine secolo e delle scuole nazionali. Da questo punto di vista Bizet porta a maturazione non la lezione dei suoi maestri come Gounod (la cui ombra e la cui influenza lo avevano tormentato e frenato per anni), ma quella di Verdi, nei cui confronti, pur mantenendo apparentemente alcuni pregiudizi tipici della cultura francese, si esprime con assoluta chiarezza in un articolo apparso nel 1867 sulla "Revue Nationale et Etrangère" (un articolo che avrebbe dovuto aprirgli la strada del critico musicale, ma che rimase l'unico accettato e pubblicato): "Quando una natura appassionata, violenta, persino rozza come quella di Verdi arricchisce la nostra arte di un'opera vigorosamente vitale e impastata di oro, fango e bile, non andiamo a dirgli freddamente: ma caro signore, questo manca di gusto, non è signorile. Signorile! Michelangelo, Omero, Dante, Shakespeare, Beethoven, Cervantes e Rabelais sono forse signorili?"

Questa dichiarazione sembra il manifesto di Carmen e della sua sfida. E quanto la sfida fosse profonda basterebbe a dimostrarlo l'accoglienza che ricevette dalla critica coeva. Un rapido excursus nello sciocchezzaio che si sollevò sulla stampa può a suo modo essere illuminante. A parte l'accusa di volgarità, spicca la mancanza di melodia. Che un'opera traboccante di melodie oggi scolpite nell'immaginario auditivo universale potesse essere accusata di povertà melodica può sembrare stupefacente per chi non si mette nei modesti panni di quei critici. La melodia che quei signori si aspettavano era nulla più che quella elegante, sinuosa, incline al coté sentimentale, che aveva fatto la fortuna di certe pagine di Gounod. Un tipo di melodia che certamente non manca nella Carmen. Essa risplende nel Duetto tra Micaëla e Don José, nel lunare entr'acte che precede l'Atto Terzo e nell'Aria di Micaëla. Come dire che per lo più connota l'amore, per così dire "puro" di Don José. Ma Carmen è anche altro. È la sensualità ardente e sfrenata della sua protagonista, è una vicenda di sangue e di morte. È insomma la forza della passione che tutto travolge. Per di più in un contesto dalla forte accentuazione popolare o, se vogliamo, picaresca. Per questo occorreva inventarsi melodie di tutt'altro tipo, cosa che Bizet fece, sorprendendo le fini orecchie dei critici. Per dirla con uno di quegli scandalizzati signori i temi mancavano di "elevatezza". Si fa qui dunque strada l'accusa di volgarità che perseguitava Verdi e avrebbe perseguitato molti compositori successivi, dai veristi a Mahler. Ovviamente non mancò chi comprese perfettamente il senso dell'operazione compiuta, come il poeta Théodore de Banville, che scrisse che Bizet, in luogo dei fantocci dell'opéra-comique aveva mostrato "uomini e donne in carne ed ossa". Come dire che Bizet realizzava, con qualche lustro di antìcipo, quello che sarebbe stato il manifesto del teatro musicale della fine del secolo. A questo scopo non contribuì soltanto l'uso dei ritmi spagnoli, come quelli dell'habanera o della seguidilla, ma anche l'adozione di temi più cantabili al limite del popolaresco, come quello della chanson del Toreador, perfettamente funzionale a evidenziare la figura e il ruolo del personaggio. Non mancano, ovviamente tocchi di colore, come quelli chez Lìllas Pastia, che connotano i contrabbandieri oppure aprono la corrida e contrappunteranno il drammatico e scoperto Duetto finale. Il tutto svolto con una smagliante tavolozza orchestrale che usa con estrema sapienza i flati e le percussioni, siano esse le nacchere, che quelle più tradizionali. E l'orchestra non di rado esplicita quello che la voce appena accenna o che la vicenda preannuncia. Così nella mirabile scena delle carte proprio l'orchestra sembra scavare l'abisso del futuro di morte che viene divinato. Come dire che quello che sconvolse i primi ascoltatori e affascinò subito le platee di tutto il mondo fu la ricchezza dei risvolti, la completezza dell'espressione, che va dall'amore più nobile all'espressione dei sentimenti non dirò meno nobili, ma certo più elementari o anche sinistri. Da questo punto di vista la congiunzione dei due mondi è realizzata proprio dalla figura e dalla musica che riguarda Don José, qualche volta accusato di essere troppo poco ruvido o energico. In realtà a me sembra che questo sia il tratto in assoluto più geniale della partitura. Carmen non è la storia di una donna, anomala quanto si vuole (almeno per i canoni del teatro musicale dell'epoca): è prima di tutto la storia di un giovane di buoni sentimenti e del suo scontro con un mondo diverso che lo travolge e lo porta alla rovina. Chi cade, di fatto non è Carmen, la cui morte è libera scelta, ma è Don José, che ha perduto il passato ed è stato incapace di appropriarsi del futuro. La sua vocalità spazia dunque da quella che lo vede ricordare il vecchio mondo del paese natale, della madre, fino alla violenza angosciata del finale, portata quasi sopra le righe del pentagramma. Il raccordo è nella sua meravigliosa Aria "La fleur que tu m'avais jetée". Alla melodia sinuosa non si potrà negare eleganza ed elevatezza, ma il veleno contenuto nel suo profumo di morte è espresso dalla forma, sfuggente al pari dell'armonia. Il tutto è miracolosamente annunciato dal breve dialogo precedente con Carmen (di fatto l'Aria non è a sé stante, ma è una sezione del Duetto) e da otto battute in cui il penentrante gioco dei legni porta, con il tema conduttore dell'opera, alla tonalità di re bemolle. In questa dicotomia vive e si danna Don José, un tenore di conio nuovissimo, come lo è la vocalità di Carmen, inaudita sui palcoscenici del teatro musicale prima del suo avvento. Da questo punto di vista e, aggiungendoci la cantabilità espansa e immediata di Escamillo, anche quella, tutta morbidezza, di Micaëla, Carmen si iscrive perfettamente nella tradizione italiana e francese che affida il messaggio più immediato ed espressivo alla voce. Il ruolo dell'orchestra, quando non fa da supporto o, come si è notato, non approfondisce i connotati psicologici del testo cantato, è quello di creare lo spazio sonoro. Che è di una ampiezza anch'essa inusitata. Si pensi alle intangibili lontananze di certi momenti, come quelli che introducono il Terzo Atto, o, per converso, la quasi brutale immediatezza di certe Marce e di certi effetti ritmico-percussivi. Da questo punto di vista la varietà dei momenti prettamente sinfonici (il Preludio e i tre entr'actes) è ammirevole. Come pure il raccordo che, tra voci e orchestra, crea il sapiente uso dei temi ricorrenti. Che non è wagneriano, ma limitato a pochi essenzialissimi ritorni ed echi e alla presenza, anch'essa originalissima, di un unico tema conduttore fondamentale. È il tema, si può dire, della morte, del fato o via discorrendo, ma per il quale forse qualunque denominazione è riduttiva. Esso compare nel Preludio, ma non nel suo interno, bensì sapientemente distaccato dall'"allegro giocoso", e diviso con due pause, sia da esso sia dal successivo attacco dell'introduzione. È dunque completamente a sé stante. Al contrario compare, in toto o in brevi incisi, nei momenti in cui intravede il destino dei due protagonisti (ad esempio, come si è visto, nell'avvio dell'Aria del fiore, o nella scena delle carte), per lo più affidato a singoli strumenti fino al Quarto Atto, quando invece riesplode in piena orchestra. Non si tratta dunque di un procedimento wagneriano. Anche qui, se mai si vorrà trovare qualche antecedente, occorrerà pensare al Verdi del Ballo in maschera. Col quale Carmen mantiene qualche punto di contatto anche per la sapiente ironia disseminata qua e là ad impedire che una vicenda tanto veemente potesse divenire troppo cruda (come avverrà in tanti drammi da essa derivati). Ironia ed eleganza, quest'ultimo un tratto che sfuggì - lo si è notato sopra - ai contemporanei, ma che affascina l'orecchio moderno aduso a tanti strapazzi e a tante violenze sonore. È questo, forse, il miracolo ultimo di Carmen, quello di segnare un raccordo sapientissimo ed unico tra un passato che non è solo e non tanto l'opéra-comique, ma semmai l'intera tradizione francese da Rameau in poi, e che guarda, immune da ogni scoria, nel fondo degli abissi che l'opera e tutta la musica successiva tenteranno di sondare nel futuro. "Oro, fango, fiele e sangue" era l'impasto che Bizet chiedeva al dramma musicale. L'alchimia che portò alla loro fusione fa del suo autore e del suo capolavoro uno dei momenti supremi del teatro di tutti i tempi.

Bruno Cagli


(1) Testo tratto dal programma di sala del Concerto dell'Accademia di Santa Cecilia,
Roma, Auditorium Parco della Musica, 5 marzo 2005

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Ultimo aggiornamento 6 agosto 2013