Aria con 30 variazioni, in sol maggiore per clavicembalo, BWV 988

"Variazioni Goldberg"


Musica: Johann Sebastian Bach (1685 - 1750)
  1. Aria
  2. Variazione 1 - a 1 manuale
  3. Variazione 2 - a 1 manuale
  4. Variazione 3 - canone all'unisono a 1 manuale
  5. Variazione 4 - a 1 manuale
  6. Variazione 5 - a 1 ovvero 2 manuali
  7. Variazione 6 - canone alla seconda a 1 manuale
  8. Variazione 7 - a 1 ovvero 2 manuali
  9. Variazione 8 - a 2 manuali
  10. Variazione 9 - canone alla terza a 1 manuale
  11. Variazione 10 - fughetta a 1 manuale
  12. Variazione 11 - a 2 manuali
  13. Variazione 12 - canone alla quarta
  14. Variazione 13 - a 2 manuali
  15. Variazione 14 - a 2 manuali
  16. Variazione 15 - canone alla quinta in moto contrario a 1 manuale. Andante (sol minore)
  17. Variazione 16 - ouverture a 1 manuale
  18. Variazione 17 - a 2 manuali
  19. Variazione 18 - canone alla sesta a 1 manuale
  20. Variazione 19 - a 1 manuale
  21. Variazione 20 - a 2 manuali
  22. Variazione 21 - canone alla settima (sol minore)
  23. Variazione 22 - alla breve a 1 manuale
  24. Variazione 23 - a 2 manuali
  25. Variazione 24 - canone all'ottava a 1 manuale
  26. Variazione 25 - a 2 manuali (sol minore)
  27. Variazione 26 - a 2 manuali
  28. Variazione 27 - canone alla nona
  29. Variazione 28 - a 2 manuali
  30. Variazione 29 - a 1 ovvero 2 manuali
  31. Variazione 30 - quodlibet a 1 manuale
Organico: clavicembalo
Composizione: 1741
Edizione: B. Schmid, Norimberga, 1741 - 1742

Compresa nel Clavier-Übung IV, vedi anche i Canoni BWV 1087
Guida all'ascolto 1 (nota 1)

Nel 1726 si svolse a Lipsia, come avveniva sotto Pasqua da tempo quasi immemorabile, la Fiera, famosa in tutta Europa. Un musicista di quarantun'anni carico di figli che ricopriva la carica di Cantor nella Chiesa di San Tommaso con un salario appena sufficiente ad equilibrare alla meglio il bilancio familiare, si recò in Fiera per spacciarvi una graziosa Partita per clavicembalo che aveva pubblicato a sue spese. La sua iniziativa non dovette ottenere un esito economicamente insoddisfacente perché l'anno dopo il bravo Cantor si ripresentò in Fiera con una seconda Partita, e con una terza nel 1728, una quarta nel 1729, una quinta nel 1730. La sesta Partita completava nel 1731 il ciclo, e il Cantor aveva così messo al suo attivo, a quarantasei anni, la sua "opera prima" pubblicata a sue spese, mentre altri compositori del suo tempo, più famosi di lui, vendevano i loro lavori ad editori che ne garantivano la diffusione internazionale.

Il titolo dell'op. 1 di Johann Sebastian Bach - perché di lui si tratta, come il lettore ha già capito - era Clavier-Übung, cioè Esercìzio per Tastiera. Nel 1735 Bach pubblicò, questa volta presso un editore di Norimberga, la seconda parte dell'Esercizio, nel 1739 la terza e nel 1741 la quarta, contenente l'Arìa con diverse variazioni per clavicembalo con due tastiere che più tardi ebbe il titolo, apocrifo, di Variazioni Goldberg.

Non sappiamo quante copie venissero approntate per ogni tiratura dell'Esercizio per Tastiera, ma sappiamo che cento copie vendute coprivano tutti i costi e che dalla centounesima si cominciava a guadagnarci sopra. Siccome l'incisione della musica richiedeva allora un complicato processo tecnico ed era quindi assai dispendiosa, il prezzo delle pubblicazioni a piccola tiratura si manteneva piuttosto alto. Christoff Wolff ci dice che "la parte I veniva venduta a 2 talleri (lo stesso prezzo del trattato di Heinichen sul basso continuo, di 994 pagine di caratteri a stampa) e la parte III per 3 talleri, cifre che ne impedivano la diffusione al di fuori della cerchia delie persone seriamente interessate". Fra queste ultime c'era il dottissimo Padre Giovanni Battista Martini, frate minore conventuale che a Bologna riuscì ad avere, probabilmente inviategli da un confratello sassone, una copia della prima ed una della terza parte. Della diffusione della quarta parte non abbiamo notizie.

Il titolo Variazioni Goldberg è dovuto ad un aneddoto raccontato nel 1802 da Nikolaus Forkel, primo biografo di Bach. Secondo il Forkel, l'Aria con divene variazioni era stata commissionata a Bach da un nobiluomo di Dresda, Hermann Carl von Keyserlingk, che soffriva di insonnia e che allievava la noia delle notti in bianco ascoltando pezzi per clavicembalo suonati da Johann Cottlieb Goldberg, ex allievo del figlio maggiore di Bach, Wilhelm Friedemann, ed allievo di Bach nel 1742 e nel 1743. La cronologia non quadra, perché Bach compose le Variazioni nel 1741. Ma non quadra anche per altre ragioni, delucidate per noi ancora da Christoff Wolff: "[...] secondo tutti gli indizi estrinseci ed esteriori (la mancanza della dedica formale a Keyserlingk, richiesta dal protocollo settecentesco, e la tenera età di Goldberg, allora [1741] quattordicenne), indicano che le cosiddette Variazioni Goldberg non nacquero come lavoro su commissione indipendente, ma fecero parte fin dall'inizio del progetto della Clavier-Übung, di cui costituiscono un grandioso finale". Ciò non esclude, naturalmente, che Goldberg, entrato al servizio del Keyserlingk, non utilizzasse le Variazioni per distrarre il suo padrone insonne (non per farlo scivolare dolcemente nelle braccia di Morfeo). In ogni caso, una volta escluso per sgravio di coscienza il fondamento storico dell'aneddoto continueremo a chiamare con il nome tradizionale l'Arìa con diverse variazioni. Per i tedeschi, per i quali Gold-Berg significa Montagna d'oro, il titolo apocrifo diventa persino simbolico: Variazioni della Montagna d'Oro. Per noi è semplicemente più comodo del titolo originale... e ci fa anche ricordare il povero allievo di Bach, brillante clavicembalista e compositore di un certo vivace ingegno, che morì a soli ventinove anni. L'Aria che dà lo spunto alle variazioni è di trentadue battute, suddivise in due parti simmetriche e con ripetizione dì ciascuna parte. Il basso delle prime diciotto battute è identico a quello del tema nella Chaconne avec 62 variations di Händel, pubblicata ad Amsterdam nel 1732 e a Londra nel 1733. Bach conobbe sicuramente il lavoro di Händel, e probabilmente restò interessato in particolare, oltre che dal basso, dall'ultima variazione, un canone a due voci (nel canone la seconda voce ripete esattamente, a una certa distanza, ciò che è stato cantato o suonato dalla prima voce). Sul basso händeliano Bach lavorò in due modi diversi: aggiungendogli quattordici battute ne fece la base dell'Aria, e sulle prime otto note annotò sulla sua copia personale della quarta parte del Clavier-Übung quattordici canoni, scoperti soltanto nel 1975. Comporre canoni su un testo dato e creare melodie su un basso dato era, com'ancora avviene oggi nella didattica della composizione, un normalissimo esercizio di abilità. Ricorderemo per curiosità che Schumann propose alla giovanissima Clara Wieck, non ancora sua moglie, un basso, su cui la ragazzina creò una bella melodia e, partendo dalla melodia, delle variazioni assai virtuosistiche. Schumann riprese la melodia di Clara e la variò anche lui ma in modo "sapiente", introducendovi persino una fuga, nei suoi Impromptus op. 5.

Se i canoni di Bach fossero dodici saremmo nella consolidata tradizione del Settecento. Invece sono quattordici. Perché? O, meglio, c'è un perché? C'è. Per Bach il numero quattordici aveva un chiaro significato simbolico. La denominazione tedesca dei suoni inizia dal la, indicato con A. Andando di seguito, B è il si bemolle, C il do, D il re, ecc., fino alla H che corrisponde al si naturale. Attribuendo il numero 1 al la, il si bemolle avrà il 2, il do il 3, il si naturale l'8: la somma di questi quattro numeri, corrispondenti al nome BACH, dà 14. E in Bach troviamo vari impieghi simbolici di questo numero: ad esempio, egli attese per parecchi anni, prima di entrare nella prestigiosa "Società dei corrispondenti per le scienze musicali", attese cioè fino a quando potè entrarvi come quattordicesimo socio. In quella solenne occasione dovette donare alla Società il suo ritratto: posò per il pittore Elias Gottlob Haussmann, tenendo in mano un foglietto con scritto sopra uno dei quattordici canoni sul basso delle Goldberg: non il quattordicesimo, tuttavia, ma il tredicesimo (il 13 è di solito ritenuto un numero sfortunato, quello della "dozzina del diavolo": Bach se ne faceva forse un baffo?).

La variazione non è una forma ma un genere, e sebbene siano esistite alcune tipologie tradizionali di cui i compositori si servivano per dare forma all'insieme, si può affermare che ogni grande serie di variazioni è strutturata in un modo unico, irripetibile. Le trenta variazioni delle Goldberg (detto per inciso, il 30 - 10 x 3 - è il numero della pienezza e della perfezione) sono suddivise in dieci gruppi di tre (10 è il numero dei Comandamenti, 3 è il simbolo della Trinità). Nei primi nove gruppi l'ultima variazione è un canone a due voci con un basso accompagnante (che manca solo nel nono ed ultimo canone). L'accompagnamento, per così dire, addolcisce l'impatto sull'ascoltatore della rigorosa scrittura contrappuntistica, lo addolcisce e lo rende più colloquiale rispetto a quello dei quattordici canoni sul basso delle Goldberg o a quello dei canoni dell'Arte della fuga. Nelle Goldberg il primo canone (terza variazione) è all'unisono: la seconda voce ripete esattamente quello che ha appena fatto la prima, come se ne ripercorresse subito le orme, camminando ad un metro di distanza. Il secondo canone (sesta variazione) è alla seconda, come se la seconda voce rifacesse il percorso della prima ma, oltre che un metro indietro, anche spostata di un metro a lato. I successivi canoni sono alla terza, alla quarta, ecc., fino alla nona (ventisettesima variazione); ma il canone alla quinta (quindicesima variazione) è per moto contrario: come se la seconda voce, oltre che spostata a lato di cinque metri, andasse in direzione opposta a quella della prima.

Il decimo gruppo di tre variazioni ciascuno si conclude con un Quodlibet (a piacere, letteralmente; nell'Italia del Settecento il termine usato comunemente, invece di Quodlibet, era Misticanza). Nel Quodlibet Bach sovrappone al basso dell'Aria le melodie di due canzoni popolari. Che si tratti di canzoni popolari non ce lo dice lui, Bach: ce lo fa sapere il suo allievo Johann Christian Kittel, che ne cita gli incipit, rispettivamente - in tedesco, ovviamente - "Sono così a lungo restato lontano da te, ritorna, ritorna, ritorna" e "Cavoli e rape mi hanno fatto fuggire. Se mia madre avesse cucinato della carne sarei restato più a lungo". Canzoni popolari, dice il Kittel. Ma ci volle molto e molto tempo per scoprire le musiche originali, sfruttate da Bach solo parzialmente. "Cavoli e rape" è una Bergamasca - anzi, Pergamasca - emigrata dalla Lombardia nella Germania centrale e contenuta in un codice della fine del Seicento; l'altra canzone è stata alla fine ritrovata in una pubblicazione uscita a Lipsia nel 1696.

La divisione in dieci gruppi, con un ordinamento progressivo dei canoni e con il culmine del Quodlibet, scandisce l'articolazione rigorosamente geometrica della struttura. Alla divisione per gruppi di tre variazioni s'affianca però nelle Goldberg un altro tipo di divisione, una divisione in due grandi parti simmetriche. La sedicesima variazione è una vera e propria Ouverture alla francese (introduzione in movimento lento, seguita da un fugato), nettamente differenziata rispetto a tutte le altre variazioni. Siccome Bach prescrive che l'Aria venga ripetuta dopo la trentesima variazione, nella forma dell'opera si crea questa divisione dei trentadue pezzi in sedici e sedici (trentadue, lo ricordo al lettore, sono anche le battute dell'Aria):

Aria e 15 variazioni (I-XV)
15 variazioni (XVI-XXX) e Aria.

La divisione in due parti è talmente netta da consigliare a Jörg Demus, tenuto conto della durata di circa ottanta minuti delle Goldberg, di fare un intervallo dopo la quindicesima variazione, emotivamente intensissima, e di riprendere con la festosa sedicesima variazione dopo una sosta di una ventina di minuti. Si tratta di un'idea eminentemente pragmatica, che contrasta con il costume odierno e che viene quindi accettata con difficoltà (per non dire con scandalo), ma che non turba affatto, secondo me, la ricezione dell'opera e che, anzi, la favorisce.

Un'altra iniziativa pragmatica, anch'essa, oggi, dura da... digerire, fu quella di Jörg Ewald Dahler, allievo di un antesignano della "prassi autentica" come Fritz Neumeyer, che ad ogni variazione diede un titolo caratteristico, di gusto francese settecentesco. Questi i titoli delle prime tre variazioni: Les Polonaises (La Polacche), La conversation galante (La conversazione galante), Les Deux Bergers (I due pastori). Non vado oltre perché non sono autorizzato a pubblicare l'intero set di titoli, ed anche perché non vorrei sconcertare chi ritiene che il pregio maggiore del testo artistico risieda nella sua incontaminata autenticità. Mi permetto tuttavia di far osservare che, se è pur vero che nei titoli apocrifi c'è molto di Bach alla Couperin e anche un po' di Bach alla Grieg, è vero altresì che il Dahler non è un dilettante ma un filologo, uno studioso tutt'altro che incline a mercificare l'arte. I suoi titoli sono da intendere come segnali verso chi reagisce alla musica, invece che per dottrina, per sensibilità e per gusto, e mirano a facilitare e favorire la comprensione delle Goldberg indirizzando concretamente l'immaginazione dell'ascoltatore.

In realtà, sia l'iniziativa di Demus che l'iniziativa di Dahler che, per altro verso, l'iniziativa di un interprete rigoroso come Alfred Brendel, che intitola una per una le 33 Variazioni su un valzer di Diabelli di Beethoven, colgono un problema fondamentale dell'odierno concertismo: come si possono presentare al pubblico, in concreto, lavori che erano stati pensati per l'esecuzione da camera? Come si possono unire le mille o le millecinquecento persone nell'ascolto di opere pensate per un pubblico di due, tre, o al massimo dieci ascoltatori? Si tratta di un problema che sta alla base del concertismo solistico, che durante il secolo passato era stato progressivamente messo in ombra e che sta oggi riemergendo. Liszt aveva scritto nel 1855 che se Schumann avesse dato alla sua opera 15 il titolo Bagatelle, invece di Scene infantili, avrebbe reso più ardua la comprensione del suo lavoro. E, Liszt, il concertismo non solo l'aveva praticato: lo aveva anche inventato.

L'aneddoto che diede origine al titolo apocrifo Variazioni di Goldberg si trova, come ho già detto, nella biografìa di Bach che Nikolaus Forkel pubblicò nel 1802. Nello stesso anno usciva una nuova edizione delle Goldberg che andava a sostituire la prima, ormai introvabile. Questa edizione era nota a Hoffmann che, o parafrasando una sua esperienza o facendo ricorso alla sua lussureggiante bizzarra fantasia, introdusse l'Aria con diverse variazioni nel racconto Sofferenze musicali del maestro di cappella johannes Kreisler. In una brillante serata mondana con molti invitati viene chiesto a Kreisler di far sentire le Goldberg (non ancora denominate così). Egli, sa bene a che cosa si andrà incontro e vorrebbe dunque evitare lo scandalo, ma alla fine si lascia consigliare dai molti bicchieri di punch che ha bevuto ed accetta l'invito, sibilando fra i denti "ascoltate, e crepate di noia". Infatti, a poco a poco il pubblico se la squaglia, e alla trentesima variazione Kreisler si ritrova da solo, davanti al bicchiere del punch e ad una musica che provoca in lui un'ubriacatura maggiore di quella dell'alcol: "Le note prendevano vita, scintillavano, saltellavano attorno a me, un fuoco elettrico passava dall'estremità delle mie dita ai tasti".

A parte questa, forse fantastica e forse no, per tutto l'Ottocento non abbiamo notizie certe di altre esecuzioni complete. Sembra che Liszt eseguisse una parte delle variazioni. Nel 1883 Joseph Rheinberger trascrisse le Goldberg per due pianoforti, distribuendo il tessuto originale fra i due strumenti ed aggiungendo raddoppi e contrappunti. L'effetto era curioso: stereofonico, accordale, molto - come dire? - avvolgente. Non abbiamo notizia di esecuzioni pubbliche della versione Rheinberger, che solo trent'anni più tardi fu ripresa e ritoccata da Reger, ma che anche in questa forma non ebbe fortuna. Un'esecuzione parziale, su un clavicembalo con due tastiere, venne proposta a Londra nel 1897 da Alfred Hipkins. Agli inizi dei Novecento le Goldberg entrarono nel repertorio concertistico del pianoforte con José Vianna da Motta e con Ferruccio Busoni, che le ristrutturarono sia abolendo i ritornelli che alcune variazioni (la versione di Busoni, pubblicata, è del massimo interesse documentario). Vari altri pianisti ripresero le Goldberg, ma le prime esecuzioni integrali di cui si abbia notizia sono, negli anni Venti e Trenta, quelle di Harold Samuel, di Rosalyn Tureck e di Claudio Arrau al pianoforte e di Wanda Landowska al clavicembalo moderno.

Nel 1950, bicentenario della morte di Bach, veniva però posto con forza il problema dello strumento originale, il clavicembalo con due tastiere, di cui il clavicembalo della Landowska era una modernizzazione filologicamente inattendibile. Bach indica, in ciascuna delle variazioni, se debba essere impiegata una sola tastiera o se ne debbano essere impiegate due. Il trasferimento delle Goìdberg al pianoforte comportava non lievi problemi di tecnica, tuttavia risolvibili, ed insolubili problemi di timbrica. L'esecuzione al pianoforte, che era sicuramente non-autentica, venne però "salvata" dalla genialità di Glenn Gould, autore nel 1955 di una celeberrima registrazione discografica, e dalla tetragona resistenza di Alexis Weissenberg, che negli anni sessanta accettò il rischio di non essere à la page e di subire i rabbuffi dei critici più severi.

Dopo una ventina d'anni si fece tuttavia strada la convinzione che l'impiego del clavicembalo con due manuali garantiva sì l'autenticità filologica, ma non l'autenticità sociologica, perché l'esecuzione per un numeroso pubblico era del tutto al di fuori delle prospettive e delle intenzioni di Bach. Inautentico per inautentico, il pianoforte, con la sua massa di suono molto maggiore e con la sua tradizione concertistica, era dunque più efficace in una grande sala. E da circa trent'anni le esecuzioni pubbliche al pianoforte sono ridiventate usuali, mentre le esecuzioni al clavicembalo avvengono quasi esclusivamente in sede discografica.

In qualche disco si trovano, oltre alle Goldberg, anche i quattordici canoni. Yurji Takahashi registrò le Goldberg al pianoforte e i canoni con il sintetizzatore. In disco si trovano le Goldberg eseguite al clavicembalo da Celine Frisch, i canoni eseguiti da un Sestetto d'archi e le due canzoni popolari della trentesima variazione eseguite da una cantante, accompagnata da un piccolo complesso strumentale. Delle Goldberg esistono infine in disco, a ulteriore dimostrazione della diffusione che hanno raggiunto, esecuzioni all'organo, esecuzioni in trascrizione per Trio d'archi ed esecuzioni della versione Rheinberger-Reger per due pianoforti. Nelle esecuzioni pubbliche sta tuttavia emergendo il problema a cui prima accennavo: quanti ascoltatori riescono a distinguere auditivamente le variazioni ordinarie e le variazioni a canone? E, di conseguenza, quanti riescono a capire l'articolazione della forma oggetto di evidente e gelosa cura da parte di Bach?

Piero Rattalino

Guida all'ascolto 2 (nota 2)

Le Variazioni Goldberg, uno dei massimi monumenti della letteratura tastieristica, furono pubblicate nel 1742, quando Bach aveva il titolo di compositore della corte reale di Polonia ed elettorale di Sassonia. Fino ad allora Bach aveva dimostrato poco interesse per questa forma (aveva scritto soltanto un'altra raccolta del genere, una serie di pezzi poco impegnativi "alla maniera italiana"), e il fatto che nonostante ciò egli si sia impegnato nella costruzione di un edificio di grandiosità senza precedenti non può che suscitare molta curiosità intorno alle origini dell'opera. Questa curiosità dovrà però rimanere insoddisfatta poiché tutti i dati ancora esistenti ai tempi di Bach sono stati poi occultati dai suoi biografi romantici, affascinati da una leggenda che, malgrado la sua pittoresca inverosimiglianza, è difficile confutare.

A chi non la conoscesse diremo in breve che secondo la tradizione l'opera sarebbe stata commissionata da un tal conte Keyserling, ambasciatore di Russia presso la corte di Sassonia, il quale aveva alle proprie dipendenze come musicista di palazzo uno dei migliori allievi di Bach, Johann Gottlieb Goldberg. Keyserling, che pare soffrisse spesso di insonnia, chiese al maestro di scrivere qualche riposante brano per tastiera che Goldberg potesse suonargli per conciliargli il sonno. Se la cura ebbe buon effetto, è lecito nutrire qualche dubbio sulla qualità dell'interpretazione che il giovane Goldberg doveva dare a questa partitura incisiva e stuzzicante. E anche se non ci facciamo la minima illusione sull'indifferenza da vero professionista con cui Bach considerava le restrizioni imposte alla sua libertà artistica, è difficile credere che i quaranta luigi d'oro offertigli da Keyserling siano stati l'unico motivo del suo interesse per una forma altrimenti sgradita.

Anche da una conoscenza appena superficiale - un primo ascolto o una rapida scorsa al testo musicale - salterà subito all'occhio la sconcertante incongruenza fra la grandiosità delle variazioni e la modestia della sarabanda che ne forma lo spunto. E anzi, si parla tanto spesso dello sgomento suscitato dall'impianto formale della composizione nei non iniziati, smarriti fra i rami lussureggianti dell'albero genealogico dell'aria, che sarà forse utile esaminare più da vicino la radice per determinarne (con la debita delicatezza, naturalmente) le facoltà generative.

Da un'aria per variazioni siamo usi esigere almeno uno dei seguenti due requisiti: un tema con una curva melodica che invochi letteralmente l'abbellimento, oppure una base armonica che, ridotta allo stato fondamentale, appaia gravida di promesse e atta ad uno sfruttamento intensivo. Del primo procedimento si conoscono numerosi esempi dal Rinascimento ai nostri giorni, ma la sua massima fioritura nasce dall'idea rococò del tema con variazioni; del secondo metodo, che, stimolando l'elaborazione lineare, suggerisce una certa analogia con il basso ostinato della passacaglia, sono un memorabile esempio le Trentadue Variazioni in do minore di Beethoven. La stragrande maggioranza dei contributi di rilievo a questa forma non ammette tuttavia una collocazione precisa nell'una o nell'altra di queste due grandi categorie, le quali del resto descrivono piuttosto i poli estremi della premessa operativa dell'idea di variazione, al cui interno è la fusione di tali qualità che costituisce il vero banco di prova per le facoltà inventive del musicista. Un esempio classico, da manuale, sono le Variazioni sull'"Eroica" di Beethoven, in cui le due formule, prima usate separatamente, confluiscono infine in una fuga dove il motivo melodico funge da controsoggetto al tema del basso delle variazioni.

Nelle Variazioni Goldberg viene usata come passacaglia la sarabanda del Quaderno di Anna Magdalena Bach. O meglio, soltanto la linea del basso è riprodotta nelle variazioni, dove viene peraltro elaborata con una flessibilità ritmica sufficiente a soddisfare le contingenze armoniche di strutture contrappuntistiche tanto diverse quanto possono esserlo un canone su ogni grado della scala diatonica, due fughette e perfino un quodlibet (forma ottenuta dalla sovrapposizione di melodie popolari dell'epoca). Le necessarie alterazioni non attenuano in alcun modo l'attrazione gravitazionale esercitata da questo basso magistralmente proporzionato sulla moltitudine di figurazioni melodiche che di volta in volta lo abbelliscono: anzi, nella sua maestosità, esso lega fra di loro le variazioni con la sicurezza sovrana della propria inevitabilità. La sua struttura è in sé talmente salda e completa da apparire poco adatta alla funzione di basso di ciaccona, soprattutto per la ripetitività del suo motivo cadenzante. Esso non evoca minimamente quell'anelito a un completamento che è implicito nella prima esposizione, tradizionalmente concisa, di un motivo di ciaccona; anzi, si estende spensieratamente su un territorio armonico così ampio che, ad eccezione delle tre variazioni in minore (la quindicesima, la ventunesima e la venticinquesima), in cui viene subordinato alle esigenze cromatiche di quella tonalità, i suoi rampolli non hanno alcuna necessità di esplorarne, di realizzarne e accentuarne gli elementi costruttivi.

Data la costanza della base armonica, sarebbe logico pensare che lo scopo principale delle variazioni fosse quello di illuminare le sfaccettature tematiche nell'ambito melodico del tema dell'aria. Ma ciò non avviene, perché la sostanza tematica, un soprano docile ma ricco di abbellimenti, possiede un'omogeneità intrinseca che non lascia nulla in eredità alla sua discendenza e che, per quanto riguarda la ripresentazione tematica, viene completamente dimenticata nel corso delle trenta variazioni. Si tratta insomma di una piccola aria curiosamente autonoma, che si direbbe cerchi di evitare qualsiasi atteggiamento genitoriale, di ostentare una placida indifferenza per la sua progenie, di non manifestare alcuna curiosità per la propria ragion d'essere. La prova migliore di questa noncuranza è il precipitoso esplodere della prima variazione; che interrompe di colpo la calma precedente. Una simile aggressività non è certo il comportamento che ci si aspetta dalle variazioni introduttive, le quali manifestano di solito una fanciullesca docilità verso il tema che le precede imitandone l'andamento e conducendosi con la modesta consapevolezza della propria funzione attuale ma con un deciso ottimismo quanto alle prospettive future. Nella seconda variazione troviamo il primo esempio della confluenza di queste qualità parallele: ecco lo strano miscuglio di mite compostezza e piglio autorevole che contraddistingue l'io virile delle Variazioni Goldberg.

Forse, con l'attribuire alla composizione musicale caratteristiche che rispecchiano soltanto l'approccio analitico dell'esecutore, mi sono involontariamente avventurato in un gioco pericoloso. Si tratta di una pratica cui è particolarmente facile indulgere nella musica di Bach, che non contiene indicazioni né di tempo né dinamiche; dovrò quindi evitare con cura che l'entusiasmo di una convinzione interpretativa si presenti come l'inalterabile assolutezza della volontà dell'autore. Inoltre, come ha saggiamente osservato Bernard Shaw, fra i compiti del critico non rientra l'analisi grammaticale.

Con la terza variazione hanno inizio i canoni, che da ora in poi ricorreranno una volta ogni tre brani dell'opera. Ralph Kirkpatrick ha efficacemente raffigurato le variazioni con una similitudine architettonica: «Delimitate alle estremità da due pilastri, uno dei quali è formato dall'aria e dalle prime due variazioni, l'altro dalle due penultime variazioni e dal quodlibet, le variazioni sono raggruppate come elementi di un complesso colonnato; ogni gruppo è composto di un canone e di un elaborato arabesco a due manuali, racchiudenti a loro volta un'altra variazione a carattere indipendente».

Nei canoni l'imitazione letterale compare soltanto nelle due voci superiori, mentre la parte di accompagnamento, presente ovunque tranne che nell'ultimo canone alla nona, ha quasi sempre piena libertà di trasformare il tema del basso in un complemento opportunamente acquiescente.

A volte ciò si traduce in un dualismo voluto di preminenza tematica: il caso estremo è quello della diciottesima variazione, dove le voci del canone si trovano a dover sostenere la parte della passacaglia, capricciosamente abbandonata dal basso.

Un contrappunto meno anomalo si nota nella risoluzione dei due canoni in sol minore (il quindicesimo e il ventunesimo), in cui la terza voce entra nel complesso tematico del canone, riproponendo il suo segmento in una versione ricca di figurazioni e dando luogo a un dialogo di bellezza incomparabile.

Ma questa ricercatezza contrappuntistica non s'incontra soltanto nelle variazioni canoniche: in parecchie variazioni "a carattere indipendente" minuscole cellule tematiche vengono sviluppate sino a creare complesse trame lineari. Esempi tipici sono la conclusione fugale dell'ouverture alla francese (sedicesima), la variazione alla breve (ventiduesima) e la quarta variazione, in cui sotto una brusca rusticità si cela un elegante labirinto di stretti. In realtà questo oculato sfruttamento di mezzi volutamente limitati supplisce in Bach all'identificazione tematica fra le variazioni. Poiché la melodia dell'aria, come già detto, si sottrae a qualunque rapporto col resto dell'opera, ogni singola variazione consuma voracemente il potenziale della propria cellula tematica, presentando così un aspetto assolutamente soggettivo dell'idea di variazione. Quest'integrazione fa sì che, con la dubbia eccezione della ventottesima e della ventinovesima variazione, non vi sia nemmeno un esempio di collaborazione o di estensione tematica fra due variazioni consecutive.

Nel tessuto a due voci degli "arabeschi" l'importanza data all'esibizione virtuosistica limita l'impegno contrappuntistico a pratiche non troppo elaborate, come l'inversione della risposta conseguente.

La terza variazione in sol minore (venticinquesima ndr) occupa una posizione chiave. Dopo un generoso e caleidoscopico tableau formato da ventiquattro quadretti che illustrano, con sfumature meticolosamente calibrate, l'indomabile elasticità di quello che è stato definito «l'io delle Goldberg», ci viene concesso di raccogliere e cristallizzare tutte quelle impressioni di profondità, delicatezza e virtuosismo, indugiando al tempo stesso pensosi nella languida atmosfera di una pagina di umore quasi chopiniano. L'apparizione di questa stanca e malinconica cantilena è un capolavoro di intuito psicologico.

Con rinnovato vigore irrompono, a questo punto, le variazioni dalla ventiseiesima alla ventinovesima, seguite da quell'esuberante dimostrazione di deutsche Freundlichkeit [gentilezza tedesca] che è il quodlibet. Quindi, quasi fosse incapace di trattenere un sorriso compiaciuto davanti ai progressi della sua progenie, ecco la sarabanda originale che, da bravo genitore, torna per bearsi nella luce riflessa di un'aria col da capo.

Una siffatta conclusione del grande ciclo non ha nulla di casuale, e il ritorno dell'aria non è un semplice gesto di benevolo commiato, ma adombra un'idea di perpetuità che rivela la natura essenzialmente incorporea delle Variazioni Goldberg e simboleggia il loro rifiuto di quell'impulso generativo.

Ed è proprio il riconoscere la loro sdegnosa indifferenza per il rapporto organico fra la parte e il tutto a farci sospettare per la prima volta la vera natura del particolarissimo vincolo che le unisce.

La nostra analisi tecnica ci ha rivelato che non c'è compatibilità fra l'aria e la sua progenie, e che il basso vitale, per la sua stessa perfezione lineare e le sue implicazioni armoniche, blocca la propria crescita e impedisce il consueto sviluppo in forma di passacaglia verso un punto culminante. Sempre per via analitica abbiamo osservato che il contenuto tematico dell'aria rivela inclinazioni altrettanto esclusive, che in ogni variazione l'elaborazione della melodia obbedisce a regole proprie e che non vi sono quindi piattaforme di variazioni successive basate su princìpi strutturali simili, quali sono quelli che danno una coerenza architettonica alle variazioni di Beethoven e di Brahms. E tuttavia, senza ricorrere all'analisi, abbiamo sentito la presenza, alla base di tutto, di un'intelligenza coordinatrice, che abbiamo definita «io». Siamo quindi costretti a rivedere i nostri criteri di giudizio, tutt'altro che idonei a sindacare su quell'unione di musica e metafisica che è il campo della trascendenza tecnica.

Non ritengo arbitrario soffermarmi su considerazioni che vanno oltre il fatto musicale, anche se ci troviamo davanti a quella che è forse la più splendida elaborazione mai realizzata su un tema di basso: penso infatti che la fondamentale ambizione di quest'opera per ciò che riguarda la variazione non vada cercata in una costruzione organica ma in una comunità di sentimento. In essa il tema non è terminale ma radiale, le variazioni percorrono non una retta ma una circonferenza, un'orbita di cui la passacaglia ricorrente costituisce il punto focale.

È una musica, in breve, che non conosce né inizio né fine, una musica senza un vero punto culminante e senza una vera risoluzione: una musica che è come gli amanti di Baudelaire, «mollement balancés sur l'aile / du tourbillon intelligent». Essa ha quindi un'unità che le viene dalla percezione intuitiva, un'unità che nasce dal mestiere e dalla rigorosità, che è ammorbidita dalla sicurezza di una maestria consumata e che qui si rivela a noi, come avviene tanto raramente in arte, nella visione di un disegno inconscio che esulta su una vetta di potenza creatrice.

Gleen Gould


(1) Testo tratto dal programma di sala del Concerto dell'Accademia di Santa Cecilia,
Roma, Auditorium Parco della Musica, 25 marzo 2008
(2) Testo tratto dal programma di sala del Concerto dell'Accademia Filarmonica Romana,
Roma, Teatro Olimpico, 15 gennaio 1998


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Ultimo aggiornamento 2 gennaio 2015