Concerto brandeburghese n. 4 in sol maggiore, BWV 1049

Musica: Johann Sebastian Bach (1685 - 1750)
  1. Allegro
  2. Andante (mi minore)
  3. Presto

Organico: violino principale, 2 flauti a becco, 2 violini, viola, violoncello, violone, continuo
Composizione: 1719 - 1720
Edizione: Peters, Lispia, 1850
Dedica: margravio Christian Ludwig von Brandenburg

Guida all'ascolto 1 (nota 1)

La denominazione Concerti Brandeburghesi non è originale ma risale a Philipp Spitta, l'autorevole autore di una monumentale biografia bachiana apparsa in due volumi a Lipsia nel 1873 e nel 1880. Egli intitolò la raccolta facendo riferimento alla qualifica del destinatario, Christian Ludwig margravio di Brandeburgo (1677-1734), fratello minore di Federico I - scomparso nel 1713 - e pertanto zio del nuovo sovrano Federico Guglielmo I. Bach lo aveva incontrato a Berlino nel corso dei due viaggi da lui compiuti nella capitale prussiana nell'autunno del 1718 e nella primavera del 1719 relativamente all'acquisto - per conto del principe Leopold - di un nuovo clavicembalo da destinare all'orchestra di Köthen, in occasione dei quali il margravio avrebbe invitato il musicista ad inviargli alcune sue composizioni. In realtà, nella lunga e rispettosa lettera di dedica che accompagnava la raccolta, scritta in lingua francese e datata 24 marzo 1721, Bach qualificava questi lavori semplicemente come Concerts avec plusieurs instruments, definizione che sembra richiamarsi ad analoghe raccolte polistrumentali contemporanee di tipo francese.

Il titolo scelto da Spitta risulta essere ancora più "improprio" in considerazione del fatto che quasi sicuramente questi concerti non furono mai eseguiti dai musici che formavano l'orchestra del margravio, allestita all'indomani dello scioglimento della cappella berlinese voluto da Federico Guglielmo I, bensì da quelli del Collegium musicum di Köthen. È probabile, infatti, che Bach abbia deciso di riscrivere "in bella copia" i sei concerti da offrire a Christian Ludwig, scegliendoli da un corpus di composizioni preesistenti, originariamente concepite per i musici di Köthen o addirittura predisposte per la corte di Weimar (il problema della cronologia dei Brandeburghesi è uno dei capitoli più tormentati della critica bachiana ed è ancora lungi da una sua piena risoluzione). In tal modo Bach esaudiva l'invito rivoltogli dal margravio all'epoca dei loro incontri berlinesi, ma nello stesso tempo si proponeva a Christian Ludwig come suo nuovo eventuale Kapellmeister. L'autocandidatura si intravvede piuttosto chiaramente tra le ossequiose espressioni di rito che concludono la dedica: «...Monsignore, io supplico molto umilmente Vostra Altezza Reale, di avere la bontà di continuare a elargire le Sue buone grazie verso di me, e di essere persuaso che nulla mi sta tanto a cuore, quanto di poter essere adoperato in occasioni d'Ella e del suo servizio più degne, io che sono con fervore senza pari, Monsignore, di Vostra Altezza Reale l'umilissimo e obbedientissimo Servitore...». L'augurio espresso dal musicista era dettato principalmente dal raffreddamento dei suoi rapporti - in passato così amichevoli - con il principe Leopold, nonché dall'invitante prospettiva di potersi inserire nello stimolante ambiente culturale berlinese. La raccolta costituiva dunque un saggio dimostrativo della straordinaria ricchezza di mezzi musicali che Bach poteva offrire al suo potenziale mecenate; ma nello stesso tempo rappresentava anche un'immagine radicalmente nuova dell'arte concertante, aperta ad inaspettati orizzonti tecnico-espressivi in cui le tradizionali categorie del concerto solistico e del concerto grosso - sovrapponendosi continuamente tra loro - si annullavano l'un l'altra. Il margravio non rispose all'invito e Bach, benché restio a lasciare il posto di Kapellmeister per quello di Kantor, nel 1723 si trasferiva alla Thomasschule di Lipsia.

Il Quarto Concerto Brandeburghese, secondo il quadro cronologico proposto da Heinrich Besseler, risale al 1719 ed è il penultimo della serie in ordine di tempo prima del Quinto. Al ripieno orchestrale Bach contrappone un concertino formato da un violino, al quale sono affidati impegnativi interventi solistici che a stento si ritrovano nei suoi concerti per questo strumento, e due flauti con funzioni prettamente concertanti. In vero, il termine esatto usato da Bach per quest'ultimi, Flauti d'Echo, è assai insolito e non è stato adoperato da nessun altro compositore: l'espressione indicherebbe o una coppia di flauti dolci, così denominati in seguito ai frequenti passaggi "in eco" presenti nelle loro parti; oppure, più probabilmente, due flageolets, piccoli flauti a becco intonati un'ottava sopra, i quali - tra l'altro - avevano suscitato l'interesse del margravio.

Il Concerto, rielaborato successivamente a Lipsia per clavicembalo, due flauti, archi e continuo (BWV 1057), si apre con un Allegro insolitamente esteso - 427 misure - ma simmetricamente costruito su una struttura formale concentrica del tipo A-B-C-B'-A. Nell'ampio ed articolato ritornello iniziale (A), ripetuto testualmente a conclusione del movimento, il materiale tematico è esposto principalmente dagli strumenti solisti, mentre l'orchestra si limita ora a scandire le battute con semplici accordi, ora ad unirsi al concertino rafforzandone la sonorità. Nelle sezioni successive (B e B') aumenta il ruolo solistico del violino, culminante nell'esteso passaggio di biscrome (C) posto al centro del brano, quasi che il vertice dell'impegno virtuosistico coincidesse con quello formale in un'immaginaria struttura a piramide. Le solide geometrie sulle quali si basa l'intero movimento si stemperano però nella morbidezza sonora della coppia di flauti e nel carattere disteso ed avvolgente dell'invenzione tematica, sottolineato dalla giocosità di un ritmo ternario piuttosto insolito per il primo tempo di un concerto.

L'Andante (mi minore) è l'unico movimento lento fra tutti i Brandeburghesi a non prevedere una riduzione dell'organico strumentale: i solisti - qui usati come gruppo unitario - e il ripieno dialogano tra loro o si sovrappongono secondo i modi tipici del concerto grosso nell'elaborazione di un nucleo motivico di sospirate crome legate a due a due, in un fascinoso gioco di effetti d'eco e di contrasti del piano dinamico. La coralità dell'insieme strumentale si interrompe solo in un paio d'occasioni, per dare spazio a due espressivi interventi solistici del primo flauto, a metà circa del brano e poco prima della cadenza conclusiva frigia alla dominante maggiore (si).

Nel Finale (Presto), così come nel Secondo Brandeburghese, i principi dello stile fugato si uniscono a quelli concertanti, sebbene in questo caso la condotta delle voci risulti essere più tesa ed articolata. Le entrate a canone del tema, il cui incipit riecheggia quello del Brandeburghese n. 2, sono proposte dal Tutti lungo un arco modulante che dal tono d'impianto (sol) tocca il relativo minore (mi) e la sottodominante (do). Gli interventi dei solisti si pongono a metà strada tra il divertimento contrappuntistico e l'intermezzo concertante, e ancora una volta affidano al violino l'episodio di maggior impegno virtuosistico, consistente in accordi spezzati, agili volatine di semicrome e tremoli vigorosi. In questo movimento, il Tutti collabora "da protagonista" allo sviluppo dell'eloquio musicale ed acquisisce così un peso maggiore rispetto al semplice ruolo di accompagnamento svolto nel primo tempo, seguendo un percorso inverso a quello del Secondo Brandeburghese, dove i soli, meno visibili in apertura del concerto, si impongono più decisamente all'orchestra soltanto nel finale. Si ristabilisce così un più proporzionato rapporto dinamico tra solisti e ripieno che contribuisce ad arricchire quel sofisticato e delicato complesso di equilibri sul quale è complessivamente costruita, pur nell'individualità dei singoli concerti, l'intera raccolta dei Brandeburghesi.

Carlo Carnevali

Guida all'ascolto 2 (nota 2)

I 6 concerti per diversi strumenti scritti da Bach a Köthen nel 1721 sono chiamati Concerti brandeburghesi perché dedicati «A Son Altesse Royalle Cretienne Louis, Marggraf de Brandenbourg ecc.». Questo principe, che viveva ora a Berlino ora nelle sue terre, era grande amatore di musica e le sue considerevoli rendite gli permettevano di mantenere a proprie spese una buona orchestra. Egli fece la conoscenza di Bach durante un viaggio in cui il maestro accompagnava il principe di Köthen (al cui servizio Bach fu dal 1717 al 1723) e gli domandò di inviargli delle composizioni. Sintomatiche dell'umiltà del grande musicista di fronte agli uomini e di fronte a Dio, sono le frasi che si leggono nella dedica, scritta in un curioso francese arcaico: Bach, cioè, prega il Principe di accogliere i concerti benignamente e «de ne vouloir pas juger leur imperfection à la rigueur du gout fin et delicat, que tout le monde sçait qu'Elle a pour les pièces musicales...»; e si ritiene felice di poter rinnovare nel principe «quelque plaisir aux petits talents que le Ciel m'a donnés pour la Musique».

Nati sul vigoroso tronco del concerto grosso italiano, soprattutto vivaldiano, questi concerti ne sono come la estrema ramificazione, nel senso che quella configurazione di strumenti contrapposti, concertanti («concertino») da una parte e grosso dell'orchestra («ripieno» o «tutti») dall'altra, si amplia e si arricchisce soprattutto per il largo posto concesso ai fiati e per la varietà di atteggiamenti che in forma il dualismo solisti-orchestra. Talvolta, anzi, si nota senz'altro il trapasso al tipo di concerto «a solo», come nel Quarto ove predomina il violino (tanto da essere annoverato tra i concerti per violino solo), o nel Quinto in cui, forse per la prima volta nella storia del clavicembalo, questo strumento assurge a un ruolo solistico soprattutto con la sua spettacolare cadenza.

Il Quarto concerto brandeburghese prescrive «violino principale, due flauti d'echo, due violini, una viola in ripieno, violoncello e continuo». E' riferibile al tipico concerto grosso, in cui il «concertino» è formato dal violino e da due flauti, con il violino che nei tempi estremi assume un ruolo di schietto virtuosismo. In un secondo momento Bach trascrisse la parte del violino solista per clavicembalo (come doveva fare del resto con tutti i suoi concerti violinistici). Meno alato del Quinto, questo concerto è forse più ricco di atteggiamenti concertanti e si svolge in solide concatenazioni secondo un rigoroso equilibrio polifonico. L'ultimo tempo «sta in primissimo rango tra i consimili lavori di Bach», dice lo Spitta, «per lo slancio, la potenza delle idee, la ricchezza degli sviluppi, l'affascinante padronanza della più completa tecnica, la brillantezza e la grazia».

Giorgio Graziosi


(1)  Testo tratto dal programma di sala del Concerto dell'Accademia di Santa Cecilia,
Roma, Auditorio di via della Conciliazione, 18 febbraio 2000
(2)  Testo tratto dal programma di sala del Concerto dell'Accademia Filarmonica Romana,
Roma, Teatro Eliseo, 17 marzo 1960


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Ultimo aggiornamento 23 novembre 2013