Tito Manlio, RV 738

Dramma musicale in tre atti

Musica: Antonio Vivaldi (1678 - 1741)
Libretto: Matteo Noris

Ruoli: Organico: flautino, 2 flauti grossi, 2 oboi, 2 fagotti, 2 corni, 2 trombe, timpani, viola d'amore, archi, basso continuo
Composizione: 1719
Prima rappresentazione: Mantova, Teatro Arciducale, 22 gennaio 1719
Edizione: inedito
Sinossi

ATTO PRIMO
Tempio con altare
Il console Tito Manlio sconfessa solennemente l'alleanza con i Latini, ribellatisi contro Roma perché questa non intende concedere al popolo confederato l'espressione di un console. Tito invia il figlio Manlio a spiare i movimenti nel campo nemico, ingiungendogli di tenersi lontano da qualsiasi confronto armato. Servilia intanto, latina ma promessa sposa di Manlio, sconta la situazione conflittuale in cui gli eventi politici l'hanno fatta precipitare e respinge l'amato.

Appartamenti
Il cavaliere latino Lucio è determinato a rinnegare la patria per amore di Vitellia, figlia di Tito. La ragazza tuttavia gli preferisce il latino Geminio, per il quale affida un messaggio al servitore Lindo. Il console, intanto, nella sua intransigenza è pronto a esporre la figlia al pubblico ludibrio e a condannarla a morte, se questa non confesserà la ragione della colpevole simpatia per i Latini.

Campo dei Latini
Lindo recapita l'appello di Vitellia a Geminio: questi, fedele alla causa del suo popolo, non intende tuttavia portar soccorso all'amata a Roma. Quando al campo compare anche Manlio, Geminio lo sfida a duello; l'interposizione di Servilia, sorella del guerriero latino e amante di Manlio, parrebbe scongiurare lo scontro, ma l'animosità di Geminio finisce per prevalere e i due guerrieri si affrontano in armi.

ATTO SECONDO
Sala nel Palazzo consolare
A Roma Tito, venuto a conoscenza dell'amore di Vitellia per Geminio e del desiderio di quest'ultimo di onorare le istituzioni romane, acconsente alle nozze. Sopraggiunge però Manlio, che annuncia di avere ucciso in duello il latino, di cui fa portare le spoglie. Vitellia e Servilia sono prostrate dal dolore. Tito accusa il figlio di aver contravvenuto agli ordini suoi e del Senato.

Cortile
Vitellia si appresta a rendere omaggio al corpo dell'amato. Vitellia tenta di guadagnare l'appoggio di Servilia nel piano di vendetta contro Manlio; questi intanto difende il proprio operato, ottenendo la solidarietà di Lucio.

Salone
Benché tormentato dall'alto dilemma, Tito decide di condannare a morte il figlio. A nulla giova l'intercessione di Decio, che a nome dell'esercito chiede di risparmiare la vita di Manlio. Altrettanto intransigente contro l'eroe si dimostra Vitellia, mentre Lucio confida di poter salvare l'amico.

ATTO TERZO
Prigione
Servilia visita Manlio, che attende in prigione l'esecuzione della sentenza capitale, ma ne viene respinta.

Appartamenti
Ha luogo l'ultimo incontro tra padre e figlio. L'atteggiamento di Manlio, ossequioso verso Tito e le istituzioni romane, genera un moto di compassione nel console, che tuttavia non revoca la condanna. Manlio chiede clemenza per Servilia: Tito promette di prenderla lui stesso in moglie dopo la morte del figlio. Servilia, presa dallo sconforto, invoca la morte.

Strada fuori di Roma con veduta del Tevere
Manlio, condotto a morte, prende straziato congedo da Vitellia e Servilia. Improvvisamente irrompe Decio alla testa delle truppe per restituire all'eroe la libertà. Tito è costretto a rassegnarsi al colpo di mano dell'esercito. Le doppie nozze tra Manlio e Servilia, Lucio e Vitellia sanciranno la ritrovata concordia tra Romani e Latini.

Struttura musicale

Atto I:
Scena I:
Scena II:
Scena III:
Scena IV:
Scena V:
Scena VI:
Scena VII:
Scena VIII:
Scena IX:
Scena X:
Scena XI:
Scena XII:
Scena XIII:

Atto II:
Scena I:
Scena II:
Scena III:
Scena IV:
Scena V:
Scena VI:
Scena VII:
Scena VIII:
Scena IX:
Scena X:
Scena XI:
Scena XII:
Scena XIII:

Atto III:
Scena I:
Scena II:
Scena III:
Scena IV:
Scena V:
Scena VI:
Scena VII:
Scena VIII:
Scena IX:

Guida all'ascolto (nota 1)

ATTO PRIMO

Il dramma per musica Tito Manlio, scritto da Matteo Noris per il granduca di Toscana Ferdinando de' Medici, andò in scena per la prima volta nel 1696 nella villa di Pratolino con musica del bresciano Carlo Francesco Pollarolo, vicemaestro di cappella nella Basilica di S. Marco e operista prolifico per un intero quarantennio tra Sei e Settecento. Il titolo rappresenta il maggior successo del compositore: già l'anno successivo approdava alle scene prestigiose del veneziano S. Giovanni Grisostomo, ed entro otto anni dalla «prima» era stato ripreso in buona parte dello Stivale (a Venezia, Ferrara, Livorno, Napoli, Genova, Verona e Torino). Indipendentemente dalla musica di Pollarolo, il libretto di Noris aveva intanto iniziato, com'era consueto, una vita autonoma. Riproposto in una dozzina di intonazioni diverse, sarà messo in musica per l'ultima volta da Niccolò Jommelli nel 1746, a cinquantanni dalla «prima» medicea. Vivaldi lo intonò un quarto di secolo dopo Pollarolo, per la stagione di carnevale 1719 del Teatro arciducale di Mantova, da lui stesso allestita nella veste di «maestro di cappella di camera» del principe Filippo, langravio di Assia-Darmstadt e governatore plenipotenziario dello stato di Mantova per conto della corona imperiale. Al servizio di questo munifico patrono della musica, il «Prete rosso» trascorse per propria ammissione («In Mantova sono stato tre anni al servìgio del piissimo principe Darmstadt») il triennio 1718-20, trampolino di lancio per la popolarità del Vivaldi operista al di fuori della Serenissima e dell'Italia stessa: dal 1719 infatti arie di Vivaldi compaiono sistematicamente nelle opere date in una sede prestigiosa dell'opera italiana Oltralpe quale Amburgo. Sulle scene arciducali Vivaldi propose la ripresa dell'Armida al campo d'Egitto e le «prime» del Teuzzone, del Tito Manlio, e della Candace o siano li veri amici. Il Tito Manlio, in particolare, fu allestito per festeggiare le nozze - nella realtà poi non più celebrate - tra il principe Filippo e la principessa Eleonora di Guastalla, dedicataria dell'opera. Il compositore intervenne pesantemente su un libretto tanto datato, adattandolo alle convenzioni drammaturgiche correnti. S'intervenne in particolare sulla dotazione delle arie e sul cast; in particolare un personaggio comico, il servo Lindo, guadagnò un rilievo scenico e musicale inedito, gratificato da ben quattro arie scritte ex novo. Nel carnevale 1720, l'opera andò in scena in forma di pasticcio al Teatro della Pace di Roma: il contributo di Vivaldi (resta da stabilire se presente di persona o meno) si limita all'atto III (RV Anh. 56), mentre i primi due vennero composti rispettivamente da Gaetano Boni e Giovanni Giorgi.

Il veneziano Matteo Noris (attivo dal 1666, morto a Treviso il 6 ottobre 1714) è un esponente di spicco della vita operistica in Laguna nella seconda metà del Seicento. Estesa dalla Zenobia del 1666 alla Semiramide o La regina creduta re del 1704, la sua produzione, che terminò con due drammi isolati nel secondo decennio del Settecento (l'ultimo, Le passioni per troppo amore, fu intonato da Johann David Heinichen nel 1713), coprì con oltre cinquanta titoli mezzo secolo di opera veneziana, attirando l'attenzione, anche postuma, dei più importanti compositori del genere: gli Ziani, Sartorio, Pollarolo, Perti, Alessandro Scarlatti e Händel. Vivaldi s'imbattè tre volte nella drammaturgia di Noris, col Nerone fatto Cesare (un pasticcio messo in scena al Teatro di Sant'Angelo nel 1715), il Tito Manlio, e infine L'inganno trionfante in amore (in scena sempre al Sant'Angelo nell'autunno 1725 e oggi perduto). L'attività di Noris si svolse prevalentemente a Venezia nel circuito dei teatri posseduti dalla famiglia Grimani (il San Giovanni e Paolo e il San Giovanni Grisostomo), che gli assicurarono una certa celebrità dagli anni Ottanta del Seicento. Al sodalizio con Pollarolo è legato il temporaneo allontanamento dalle scene veneziane, in seguito allo scandalo provocato dall'allestimento nel 1686 del Demone amante, ovvero Giugurta, giudicato blasfemo dalla censura, ma anche il ritorno a Venezia, col Tito Manlio, al San Giovanni Grisostomo nel 1697. Composto per i Medici in quegli anni di esilio dalla Laguna, proprio il Tito Manlio rappresenta dunque una chiave di volta nella produzione di Noris, aprendo la strada all'ultimo tratto della sua carriera.

I drammi di Noris oscillano tra l'invenzione romanzesca ispirata al teatro spagnolo del siglo de oro (Bassiano, ovvero Il maggior impossibile, Il re infante) e la proposta di exempla tratti dalla storia romana antica (Attilio Regolo, Catone uticense). A quest'ultimo fondo memoriale, che sarà sviluppato e portato al successo su scala europea da Zeno e Metastasio, appartiene appunto il Tito Manlio. Soggetto di grande successo (sarebbe stato ripreso nel 1742, l'anno dopo la morte di Vivaldi, dal librettista Gaetano Roccaforte per la musica da Gennaro Manna), mette in scena un episodio della Roma repubblicana, narrato da Livio nel suo capolavoro storiografico (Ab urbe condita VIII,7). Come di consueto, il fondamento storico viene adattato alle «convenienze teatrali», attraverso un intervento, ammesso senza reticenze dall'Argomento anteposto al libretto, orientato prevedibilmente in due direzioni: da un lato la complicazione dell'intreccio attraverso una fioritura di legami amorosi incrociati tra Romani e Latini; dall'altro il cambio di segno della leggenda antica, con un lieto fine che scongiura l'esecuzione capitale del primo uomo. La romanità proposta dal Tito Manlio, incarnata innanzitutto dal personaggio eponimo, propone un antiquato eroismo stentoreo, sdegnoso, arcigno: un'inflessibilità a tratti inumana, di casa peraltro sulle scene barocche veneziane e ancora vigente nei drammi di Stampiglia, Salvi, Zeno e fino al primo Catone in Utica metastasiano, ma che il Settecento arcade si affretterà ben presto a mitigare, proprio attraverso la penna del Metastasio, sostituendole una più cordiale e ragionevole modulazione sentimentale. Si tratta insomma di «un'immagine convenzionale della romanità, fatta di comportamenti schematici e stereotipati, di violenza e ferocia e di un eroismo verbale altisonante» (Silvia Tatti). L'asprezza della vicenda - traboccante in un dramma fondato su continue repulse, sconfessioni, rinnegamenti, conflitti fisici e verbali - raggiunge nel dissidio tra il console e il figlio Manlio, fedelissimo allo spirito della patria ma non alla lettera della sua autorità, il culmine intollerabile, che reclama il riscatto ex machina della vittima innocente. Il dramma, ambienta una serie di situazioni drammatiche di evidente efficacia sullo sfondo di una ricca varietà di mutazioni scenografiche (tre per atto). Senz'altro meno pregevole e raffinato è il dettato poetico (solo in parte riconducibile alla penna di Noris), di chiaro (ma talvolta dubbio) gusto barocco.

L'esposizione del dramma ha luogo nell'inquietante ambientazione notturna del tempio delle divinità infere (Tempio consacrato agli dei infernali, recitava la didascalia completa della «prima» messinscena del libretto nel 1696), in ossequio a un gusto che si riproporrà con la scena della prigione all'inizio dell'atto III: una suggestione «orrida» che contribuisce, insieme alla grandiosità di una scena di massa popolata da mute comparse, a conferire gravità alla situazione, topica nel dramma per musica, del giuramento. Con efficace attacco in medias res prende immediatamente la parola il protagonista al quale la musica presta un'ampia gamma di varietà espressive del canto solistico (dal recitativo semplice, all'accompagnato, all'aria), completata dall'inserzione di un arioso cantato dagli altri personaggi in scena. Il tono dell'opera è stabilito sin dall'attacco dalla severità di Tito, inflessibile verso gli ex alleati, inflessibile nel dare al figlio quell'ordine che costituisce la ragion d'essere dell'intero dramma. Dal permanere di questa conflittualità insolubile deriva l'inquietudine che devasta Manlio e Servilia (l'occasione è una topica, lacerante separazione tra gli amanti), rappresentata da quest'ultima, sospesa tra sofferenza e speranza, nell'aria patetica che chiude la sequenza. Prima che la scena muti, saranno state esposte chiaramente le tensioni che attraversano la costellazione dei personaggi, frutto di un complesso equilibrio politico-sentimentale.

Tito è chiamato a far fronte all'attacco formidabile alla sua autorità di console: quello portato dall'interno stesso della sua famiglia. La sequenza in particolare è dedicata a Vitellia, ed è ambientata, con saggia alternanza rispetto alle due situazioni che la circondano (la grandiosità del tempio dell'apertura e l'accampamento militare della chiusura d'atto) nella scena «corta» degli appartamenti in cui la figlia di Tito è stata confinata dal padre (un interno consono al carattere privato dei rapporti messi in scena). Attorno a Vitellia si sviluppa una rete intricata di affetti: le velleità sentimentali del filoromano Lucio, che vagheggia l'ingenua prospettiva di una caccia amorosa dall'esito felice; la passione di Vitellia per il latino Geminio, chiamato in proprio soccorso con la complicità del servo Lindo, anch'egli latino; la problematica paternità di Tito, subordinata dal severo console al culto di una romanità inflessibile. La reazione di Tito al rifiuto della figlia di sottostare al giuramento contro i Latini è infatti feroce: la ragazza è minacciata di pubblica ignominia e della morte stessa. A togliere ogni dubbio sulla serietà della minaccia, prima di concludere la scena con un'aria di furore perfettamente adeguata al personaggio il console fa portare in scena delle pesanti catene che possano impressionare con violenza iconica anche lo spettatore più distratto. Non impressionano tuttavia Vitellia, che corona di diritto la sequenza a lei consacrata rivendicando il ruolo pacificatore - e dunque dalla valenza civile e pubblica - che il suo amore per Geminio potrebbe rivestire per entrambi i popoli.

Nella prima scena all'aperto dell'opera l'azione si trasferisce fuori Roma (avviene soltanto in questa sequenza nell'intero dramma), presso l'accampamento nemico dei Latini. L'eroe Geminio stabilisce immediatamente, con una breve aria bellicosa, il tono marziale della sequenza, incentrata sui personaggi maschili e conclusa da quella sfida a duello che costituisce l'evento chiave del dramma. L'eroismo intransigente (e di fatto autodistruttivo) di Tito si propaga dall'eroe eponimo (assente in queste scene) agli altri guerrieri, che prendono le armi, sordi alle molte ragioni che da più parte consiglierebbero moderazione: la richiesta di soccorso di Vitellia, l'interposizione di Servilia, l'ordine di Tito. Sorprendentemente tuttavia gli interventi canori non rispecchiano questo «spirto guerrier» dominante, ad eccezione dell'aria di Geminio (fugace apparizione la sua, per ragioni drammatiche: all'apertura dell'atto II sarà già morto). Con gustosa varietà si alternano infatti l'aria buffa «di confusione» di Lindo, l'aria amorosa di Servilia e quella eroica, e tuttavia spoglia di caratteri marziali, con cui il primo uomo Manlio si aggiudica la chiusa dell'atto.

ATTO SECONDO

Tripartito come gli altri atti dell'opera, il II, agito nel palazzo del console, si apre con una scena corta che affronta la questione capitale del dramma. Manlio infatti, reduce dall'accampamento latino, annuncia d'aver disobbedito al padre console e alla legge di Roma, uccidendo in duello Geminio. L'equilibrio tra affetti privati e pubblico interesse salta dunque inopinatamente proprio quando stava prendendo forma una ricomposizione delle tensioni in campo, propiziata dall'intervento di Lucio, sfortunato eterno spasimante. Venuto a conoscenza dell'amore tra Vitellia e Gerninio, e dell'intenzione di quest'ultimo di riconoscere l'autorità di Roma, Tito aveva dato il proprio avallo a delle nozze che avrebbero schiuso prospettive di pace per i due popoli; a sua volta, anche Servilia andava assaporando la promessa di un destino felice al fianco di Manlio: un idillio effimero consegnato alla delicata aria a due con cui Vitellia e Servilia inneggiano concordi alla comune felicità.

Nel cortile del palazzo e in assenza di Tito gli altri personaggi espongono le diverse reazioni nei confronti dell'operato di Manlio e delle conseguenze che si preparano. L'intero cast si schiera dalla parte dell'eroe, con l'eccezione notevolissima della sorella Vitellia, mutatasi improvvisamente in una furia votata alla vendetta dell'amante ucciso, con tanto di aria d'ira di prammatica. Emerge qui la costruzione modesta dei personaggi di Noris, stereotipati nelle loro reazioni, ispirate a meccanismi rigidi e poco realistici (il discorso vale per l'odio cieco di Vitellia, ma anche per la violenta impulsività di Manlio e l'intransigenza cieca di Tito). Altrettanto discutibile nell'organizzazione del libretto - che, lo ricordiamo, venne significativamente manomesso rispetto alla veste originaria - l'intervento di Lindo, che sciorina una convenzionale aria misogina nel momento in cui Vitellia confessa i suoi propositi di vendetta verso il fratello. Uno dei culmini emotivi dell'opera viene così improvvisamente schiantato dall'intervento del servo, che lo stravolge mediante una rilettura in chiave comica: una parodica aria infernale in versi sdruccioli, preparata da una professione di solidarietà col «povero Manlio», «strapazzato» da due «femmine». Il tono tragico è ristabilito dal dialogo eroico tra Manlio e Lucio, che comporta il doppio esito di una concitata aria dal tema lugubre (Manlio immagina se stesso come fantasma persecutore di Roma) e di un'aria di guerra con tromba obbligata, che conclude spettacolarmente la sequenza.

La terza sequenza dell'atto, ambientato nella cornice solenne del salone del palazzo consolare, rappresenta la fondamentale peripezia del dramma. Tito condanna a morte Manlio, provocando la reazione degli altri personaggi. Nonostante l'esitazione che lo macera in un lungo monologo punteggiato di didascalie che evidenziano accortamente il tormento interiore del personaggio, Tito fa prevalere la ragion di Stato sugli affetti familiari: l'umanità del console viene ancora una volta messa a tacere, e l'icona di un Tito furioso viene affidata, complice il sostegno di Vitellia, a un'aria breve e violentissima. Comincia intanto a prendere consistenza l'opposizione alla linea del console, per il momento limitata a velate e ancor vaghe minacce, da parte di Decio e di Lucio. A quest'ultimo spetta il compito di chiudere l'atto con un'ottimistica aria di paragone, che propone la metafora marina del raggiungimento del porto in mezzo a una tempesta. Si noti come la pregevole scena della firma della condanna da parte di un Tito quanto mai esitante e incerto (si tratta in origine della scena dodicesima, qui numerata come decima a causa del taglio di due scene) rappresenta il modello puntuale di un celebre luogo della Clemenza di Tito del Metastasio (1734), in cui il drammaturgo più giovane segue da presso il modello di Noris, affinandone straordinariamente il dettato poetico, ma soprattutto capovolgendone l'esito e dunque il portato ideologico: l'imperatore Tito del dramma metastasiano sceglie di non condannare l'amico Sesto, smentendo l'esempio del console Tito (citato esplicitamente come esempio di fedeltà alle leggi della patria), in nome di una concezione illuminata del potere, che contempla appunto una «clemenza» del tutto ignota al nostro Tito. Non a caso, proprio quel testo metastasiano piacerà molto agli illuministi, Voltaire in testa.

ATTO TERZO

Il luogo lugubre e desolato in cui Manlio attende l'esecuzione della condanna rappresenta la cornice, resa ancor più evocativa delle tenebre notturne, del congedo del primo uomo dall'amata: una situazione topica e struggentissima nel dramma per musica del Settecento. Per la scena di prigione gli «architetti teatrali» avevano al loro attivo una ricca tradizione che culminerà nella celebre opera di Piranesi. Il compositore premette all'azione (presumibilmente all'ultimo momento, poiché il libretto a stampa non registra questa inserzione) un suggestivo arioso per Manlio, ambientata sullo sfondo del Concerto funebre RV 579: appena due endecasillabi, pronunciati presumibilmente dall'eroe appena prima di cadere addormentato. In preda al sonno lo troverà Servilia, che si prodiga in un'aria di straordinaria suggestione «notturna», con strumento obbligato. Topico è anche l'atteggiamento dell'eroe, che allontana l'amata, per risparmiare a lei e a se stesso la recrudescenza di un'angoscia già cospicua, attraverso un diverbio scandito da particolareggiate didascalie d'azione e culminante nell'unico duetto dell'opera.

La penultima sequenza del dramma trasferisce l'azione dal luogo della pena a quello del potere: la scena corta degli appartamenti riporta al centro l'eroe eponimo, che sin dalla prima scena conferma con un'aria dal dinamismo feroce la propria vocazione, mai smentita, alla severità più tetragona: «son tutto crudeltà», è la chiusa della fondamentale prima strofa dell'aria. Tanta premessa illumina l'esito della scena successiva, una delle situazioni più toccanti del repertorio melodrammatico: l'incontro tra un figlio in procinto di essere giustiziato e il padre che l'ha condannato a morte. Incontro in cui l'atteggiamento dimesso del primo riesce a creare una breccia nella durezza di cuore del secondo (da opera a opera il figlio potrà baciare o abbracciare il padre, anche prostrandoglisi di fronte in ginocchio). Situazione del tutto analoga ritornerà, con l'incontro tra Arbace e Artabano, nel dramma metastasiano che godette del maggior numero di intonazioni musicali: l'Artaserse (1730). Corollario poco felice a questo apice di commozione sentimentale è la decisione di Tito di sposare Servilia in vece del figlio (il passo di recitativo corrispondente non è registrato in questa versione, ma la circostanza viene menzionata nella scena successiva). La determinazione del padre è accolta favorevolmente da Manlio, che dal suo canto promette all'amata un platonico amore postumo, ma getta prevedibilmente nello sconforto Servilia, che in una seconda, splendida aria notturna con flautino obbligato (belle sono già le due strofe di ottonari del testo) giunge a invocare la morte.

Dopo tanto tenebroso attardarsi tra templi di dèi inferni, prigioni e cupi luoghi del potere, una scena naturalistica en plein air fa da sfondo allo scioglimento, ovvero al lieto fine del dramma. Roma è sempre presente grazie al fiume che ne costituisce il simbolo, ma la suggestione visiva si fa meno opprimente, più libera. Manlio si avvia eroicamente al patibolo, in un mesto corteo la cui dislocazione è accompagnata da una sinfonia funebre; le sue belle parole, pronunciate in tanto frangente, riescono persino a muovere a compassione, non senza fatica peraltro, la furibonda Vitellia, che arriva ad aspirare a condividere la sorte del fratello. L'atteggiamento irremovibile di Tito e la patriottica rassegnazione di Manlio impediscono tuttavia una soluzione «interna» del conflitto: lo scioglimento necessiterà di un intervento ex machina, nella persona di Decio, che appoggiato dalle truppe avoca all'esercito il diritto di decidere del destino di Manlio, eroe appartenente a Roma ancor prima che figlio di Tito. Alla gestualità, di grande evidenza visiva, dell'incoronazione d'alloro Manlio reagisce regalandoci l'ultima aria dell'opera quell'aria di guerra che finora era mancata all'arco del primo uomo, marziale più che nel testo nella musica di Vivaldi, che le assicura l'amplificazione dell'organico completo di trombe e oboi. Tito non potrà che opporre una timida e inefficace resistenza verbale (in recitativo semplice), ma dovrà capitolare anch'egli e acconsentire a doppie nozze di enorme valenza politica: sanciranno infatti la ritrovata concordia tra i due popoli, nel simbolico intreccio botanico dell'alloro e dell'ulivo.

Raffaele Mellace


(1) Testo tratto dal numero speciale AMS 086-87 della rivista Amadeus


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Ultimo aggiornamento 23 gennaio 2017