Quartetto in do minore per pianoforte e archi, op. 13 (TRV 137)


Musica: Richard Strauss (1864 - 1949)
  1. Allegro
  2. Scherzo Presto - Molto meno mosso
  3. Andante
  4. Finale Vivace
Organico: pianoforte, violino, viola, violoncello
Composizione: Monaco, 1 Gennaio 1885
Prima esecuzione: Weimar, 8 Dicembre 1885
Edizione: J. Aibl, Monaco, 1886
Dedica: Al duca Georg II
Guida all'ascolto 1 (nota 1)

Il giudizio su Richard Strauss è ben lungi dall'essere definitivo: forse ci separano da lui pochi anni per il necessario distacco critico, o forse la deprecabile abitudine di giudicare le opere con un criterio di originalità ha finito per stritolare la sua musica tra i monumenti della modernità (da Schönberg a Stravinsky, da Debussy a Webern). Strauss, certo, non ha molto a che vedere con il Novecento così come lo conosciamo e certamente non sembra un musicista del XX secolo se consideriamo che Arianna a Nasso fu composta nel 1912, l'anno del Pierrot lunaire e del Sacre du printemps. Fortunatamente non c'è solo questo criterio per giudicare la sua opera (senza parlare di chi la legge alla luce della presunta adesione dell'autore al nazismo!), e se guardiamo alla totalità della produzione noteremo una straordinaria coerenza del linguaggio espressivo, del vocabolario armonico e dell'uso dell'orchestra, tutti elementi che si sono evoluti costantemente. Glenn Gould sintetizza in modo perfetto la figura del compositore e il suo ruolo nella storia della musica: «Ciò che è soprattutto esemplare nella musica di Strauss - afferma Gould in un saggio dal titolo Perorazione per Richard Strauss apparso nel 1962 e pubblicato in italiano da Adelphi nel volume L'ala del turbine intelligente - è il fatto che essa rappresenti concretamente la trascendenza di ogni dogmatismo artistico, di ogni problema di gusto, di stile e di linguaggio, di ogni frivolo e sterile cavillo cronologico. E l'opera di un uomo che arricchisce la propria epoca perché non le appartiene e che parla per ogni generazione perché non s'identifica con nessuna. È una suprema dichiarazione di individualità: la dimostrazione che l'uomo può creare una propria sintesi del tempo senza essere vincolato dai modelli che il tempo gli impone». Poter ascoltare una sua opera giovanile è dunque un'opportunità per scoprire dove e quando si forma questo linguaggio, quali ne sono le radici e vedere già in nuce le caratteristiche principali.

Il catalogo della musica da camera di Strauss (esclusi, ovviamente, i Lieder) è abbastanza esiguo e quasi tutte le pagine risalgono al periodo giovanile. All'organico del quartetto per pianoforte e archi dedicò però quattro composizioni legate a committenze occasionali nel periodo che va dall'inizio degli anni Ottanta (la Serenata in sol maggiore AV 168, e Festmarsch in re maggiore AV 178) al dicembre del 1893 (Zwei Stücke AV 182). A queste va aggiunto il Quartetto in do minore op. 13 considerato una delle opere chiave della giovinezza straussiana, in cui si intravede già quella coerenza del vocabolario che prevedeva la possibilità (già aperta da Wagner) di sfruttare le ricchezze della tonalità tardoromantica all'interno di una rigida disciplina formale. Sul piano armonico sembrano assolutamente audaci, ma la chiarezza del disegno architettonico ne rende il linguaggio comprensibile. È così che si spiega come Strauss sia diffìcilmente classificabile nelle rigide schematizzazioni; non era certo un neoclassico ma il suo romanticismo era venato da profonde tendenze razionalistìche (amava considerarsi il Mozart del Novecento).

Il Quartetto in do minore (tonalità densa di pathos e non a caso tra le preferite di Mozart) fu portato a termine il primo gennaio 1885, eseguito alla fine dello stesso anno (8 dicembre) e pubblicato nella primavera del 1886. Era dedicato al duca Georg II di Meiningen alla cui corte Strauss lavorò come Kapellmeister per qualche mese ma è probabile che il Quartetto sia stato composto in vista del Concorso del Tonkunstlerverein di Berlino, che poi vinse. Tra i maestri ideali di questo Quartetto c'è sicuramente Brahms e, in secondo luogo, Schumann, un omaggio ai classici che però appaiono già "metabolizzati" vista l'originalità della concezione e la condotta del materiale musicale. Di quegli autori Strauss ha appreso l'originale lezione sull'arte del contrappunto, specie nel trattamento della linea del basso che dà equilibrio, in modo che l'artificio non sia mai fine a se stesso; nelle opere giovanili, infatti, possiamo osservare (e ascoltare) come la tradizione si innesti sull'inevitabilità con cui tutte le note sono legate dalla prima all'ultima. In generale, il trattamento degli strumenti rivela ancora una certa imperizia per quello che sarà il maestro dell'orchestrazione: spesso gli archi sono all'unisono o all'ottava e il pianoforte diviene il punto di riferimento nello sviluppo dei temi; non si può escludere che, in questa asciuttezza dei mezzi, ci sia stata però la precisa volontà del compositore di rendere più espressive ed efficaci le sue originalissime frasi melodiche (numerose le indicazioni come con espressione, molto appassionato ecc.). Nel primo movimento Strauss ha abbandonato le sponde della tradizione: i temi hanno una pregnanza del tutto nuova e più che disegnati sembrano scolpiti in un modo assolutamente personale. C'è un vago riferimento alla forma-sonata, ma ormai si tratta solo di un pretesto perché la proliferazione di temi e di tonalità stride con l'assetto della forma tradizionale. Già all'inizio percepiamo che la storia della tonalità volgeva al termine: dovremmo essere in do minore ma per dieci battute non si fa altro che vagare per melodie tonalmente incerte, un'insicurezza amplificata dal dialogo tra gli archi e il pianoforte apparentemente persi in uno spazio privo di riferimenti. Arriva il do minore con un nuovo tema in cui c'è maggior chiarezza dal punto di vista armonico (finalmente la tonalità d'impianto) ma ritmicamente risulta sfuggente, con un basso ostinato del pianoforte in terzine opposto all'andamento della melodia in tempo semplice. Spesso le parti si invertono, ma generalmente l'idea è quella di un pianoforte che si contrappone a violino, viola e violoncello. Le terzine nella mano sinistra infittiscono un tessuto già denso ma improvvisamente tutto si ferma: inizia così il lento avvicinamento alla nuova tonalità (mi bemolle maggiore) e al successivo tema. Il percorso è tortuosissimo e il susseguirsi delle atmosfere ci porta in direzioni sempre diverse; quando sembra che lo spazio si apra finalmente su un terreno più familiare siamo rigettati nell'oscurità di armonie dense fino all'inverosimile. Il tema è di quelli caratteristici di Strauss, con una melodia che oltrepassa l'ambito dell'ottava (un intervallo ritenuto fino ad allora come le "colonne d'Ercole" della musica). Qui sono gli archi a prendere il sopravvento e il pianoforte scorre su e giù per la tastiera in arpeggi di quartine (una nuova figurazione che accelera ancor di più il ritmo). L'espressione è tesa allo spasimo grazie all'andamento unisono degli archi, un effetto ricorrente (come abbiamo visto) che aumenta l'intensità dinamica e scarnifica l'armonia. Nello Sviluppo si fanno più chiare le intenzioni di Strauss; l'armonia prende decisamente un'altra strada (fa diesis minore), e i temi dell'esposizione si susseguono e si intrecciano con false riprese; il pianoforte esplora regioni acutissime e domina i tre archi che lo accompagnano senza troppo scomporsi. Il gioco dei temi che aveva contraddistinto l'Esposizione riparte col pizzicato degli archi: nella Ripresa tutto appare immutato (stessi interventi degli strumenti, stesso gioco polifonico) eppure le armonie ci portano verso altre direzioni, tra cui spicca la tonalità di do maggiore (secondo tema), la più lontana dall'impianto, con un effetto di straordinaria luminosità rispetto alla cupezza, che in generale permea il primo movimento.

Lo Scherzo (che contrariamente all'uso è spostato in seconda posizione) è quello più vicino al modello schumanniano per l'alternanza tra l'irruenza dello Scherzo e la distensione lirica del Trio. Il senso di incalzante aumento della velocità ritmica è dato da un infittirsi del dialogo tra gli strumenti: ogni frase è interrotta sul nascere da frequenti pause, un meccanismo ben oliato che svela le precoci capacità del compositore di giocare con la dimensione ritmica oltre che con quelle armonica e melodica. Il contrasto con il Trio è assoluto e riguarda ogni aspetto musicale, dalla melodia al tipo di distribuzione degli strumenti (il pianoforte diventa l'accompagnatore degli archi che espongono il tema uno dopo l'altro). Lo Scherzo ritorna inalterato ad eccezione di una lunga coda che serve a frenare l'accelerazione senza posa di tutto il movimento.

Originalissimo l'Andante in la bemolle maggiore, in cui il lirismo raggiunte livelli parossistici. L'intero movimento ha forti reminiscenze del primo tempo, nel percorso armonico (dal minore al maggiore), nel modo in cui vengono trattati gli strumenti (pianoforte contro tutti), nelle melodie che si distendono per ampi intervalli. Il pianoforte alterna momenti di grande densità armonica (utilizzando quasi tutte e dieci le dita per fare accordi che fanno pensare ad un'orchestra) ad altri di più semplice lirismo in cui le melodie trascolorano dai tasti alle corde degli archi. Un uso costante del pedale amplifica il suono del pianoforte, rendendo indistinte alcune armonie, effetto che dispiega tutte le sue potenzialità grazie all'andamento lento del terzo movimento.

Nel Finale, che trabocca di passione ed entusiasmo, gli strumenti hanno più spazi autonomi e spesso "cantano" da soli, creando delle piccole nicchie di serenità in un movimento che per il resto è del tutto cupo e teso. La cellula primigenia è un originale combinazione di invenzione melodica e ritmica: si tratta di un attacco acefalo (privo cioè della prima parte del primo movimento) che rende ancora più aggressivo l'accordo (accentato e forte) seguito da un arpeggio discendente. Il precipitare dall'acuto al grave aumenta il senso di ineluttabilità che spinge in avanti il movimento, ed è come se ogni volta che sentiamo l'accordo, preceduto da quell'attimo di silenzio, il pezzo ripartisse da zero; si immagini che forza possa avere alla fine un meccanismo che si carica quasi ad ogni battuta! Se il primo movimento ha senza dubbio un parallelo con il terzo, il Vivace affonda le sue radici nello Scherzo e non è un caso che Strauss abbia legato proprio i due movimenti più concentrati dal punto di vista ritmico. In realtà, nell'intero Quartetto aleggia il principio della ricorrenza ciclica dei temi tanto cara agli epigoni del Romanticismo, il primo passo verso la fine delle forme chiuse in direzione del meraviglioso "magma" melodico che contraddistingue la produzione teatrale di Strauss. Come dice Glenn Gould «è l'unione di questa scrittura finemente cesellata e delle vaste complessità di questo linguaggio armonico a far sì che in Strauss gli episodi culminanti, i momenti di tensione e di calma siano, anche se meno travolgenti che in Wagner, infinitamente più rivelatori delle complesse realtà dell'arte».

Fabrizio Scipioni

Guida all'ascolto 2 (nota 2)

Il Quartetto in do minore op. 13 di Richard Strauss ripropone, come il Quartettsatz di Mahler, un rapporto strettissimo, ma non organico, con Brahms. Scritto nel 1883-4, in anni in cui cercava di affermarsi coltivando generi del repertorio strumentale brahmsiano (i Concerti, i brani per fiati come la Serenata e la Suite), può essere ricondotto una volta di più all'incontro con Hans von Bülow: Strauss fece con lui un apprendistato fondamentale per la sua futura produzione sinfonica, ma entrò anche in diretto contatto con la musica del compositore amburghese.

Il primo tempo (Allegro) è tagliato in una solida forma sonata, anche un po' scolastica, e brahmsiana proprio nel tentativo strenuo di impiegare e dare un senso tematico a tutte le figure, anche quelle di accompagnamento, derivandole quanto possibile da figure principali. C'è però un'atipica (rispetto al modello) gestualità drammatica nell'avvio: l'accordo di dominante trascolora verso quello di sol minore, ma con uno scatto cromatico torna alla dominante di do, facendo scattare una figura in terzine (indicazione "appassionato") sotto la quale continua al pianoforte una trasformazione di tema iniziale. Ancora, rimarchevoli sono la molteplicità e varietà tematica: anche il ponte modulante ha un suo proprio tema; il 2° tema ha una scrittura accordale-cantabile e una forte mobilità armonica; le sezioni conclusive si caratterizzano per un'accelerazione ottenuta con la figura di arpeggi di semicrome. Lo sviluppo, drammatico e tempestoso, si basa molto su imitazioni responsoriali e sul lavoro contrappuntistico sul primo tema, che nella ripresa viene reintrodotto mascherato sul pedale di dominante (realizzato in tremolo acuto al pianoforte). La vera novità sta poi nell'ampia coda: il 1° tema vi compare, per la prima volta, nella forma ritmicamente diminuita, che genera una pervadente nuova figura di tre semicrome; infine, la reintroduzione del minore, dopo che la ripresa aveva chiuso in maggiore, crea un ulteriore "coup de théàtre" tonale.

Lo Scherzo (Presto) in mi bemolle maggiore fa danzare piccoli incisi tematici, affidati diversamente al pianoforte o agli archi. È interessante il raggruppamento variabile di battute (prima ternario poi quaternario), modellato su quello celeberrimo dello Scherzo della Nona Sinfonia beethoveniana; cosi come lo è la conclusione in sol minore della prima parte, prima che nella seconda gli incisi si moltiplichino cambiando anche posizione ritmica. Una Coda molto modulante porta al Molto meno mosso centrale in si maggiore: distese melodie galleggiano su una figura di accompagnamento del pianoforte, ma poi i moduli intervallari di quelle melodie prendono a circolare senza quella figura. La Coda dopo la ripresa del Presto sembra dissolvere il tutto, ma una fulmineo Prestissimo su figure d'ottava discendente chiude ancora il movimento con un gesto quasi teatrale.

L'Andante successivo è nella tonalità di fa minore, ma il sipario iniziale rimane tonalmente molto ambiguo. Al solidificarsi del riferimento tonale, compare una melodia cantabile che, nel suo svolgersi dal pianoforte verso gli altri strumenti, cela il reimpiego di cellule tematiche diminuite o aumentate. Anche qui figure ritmiche più mobili (soprattutto terzine) contrassegnano l'evolversi del piano tonale-formale verso il la bemolle maggiore, insieme ad uno slittamento metrico di poche battute dal 4/4 al 3/4: basta questo espediente ad imprimere una maggiore direzionalità alla forma. La ricapitolazione, nella seconda parte del movimento, è quasi testuale, ma la conclusione è in fa maggiore invece che minore.

Il Vivace sembra ricollegarsi, nella figura iniziale (arpeggio discendente di semicrome), al movimento precedente: una simile erosione della soluzione della continuità (sacra in un lavoro dichiaratamente classico) si riscontra peraltro anche negli altri passaggi tra movimenti. La costruzione tematica è qui, una volta di più, brahmsianamente complessa: quelle che sembrano figure di percorso armonico al basso, all'inizio, diventano piccoli spunti tematici per l'imitazione intensiva; la tendenza di forma è però, poco classicamente, quella di duplicare i percorsi funzionali e tonali, proprio per ispessire il lavorìo tematico. La funzione di contrapposizione dialettica è ricoperta nel Finale da un tema contraddistinto da una sincope ritmica; tuttavia, in questa sezione si apre un tema molto disteso, agli archi, con il pianoforte che lo accompagna proprio mediante la figura sincopata. Lo sviluppo ripercorre quei materiali, e li sottopone a grosse trasformazione ritmiche, anche quando tende a diradarsi. Viceversa non c'è una chiarissima ripresa del 1° tema (i cui materiali però sono sottoposti a imitazioni in stretto), riservata al suggello Coda finale: ancora un gesto che tenta di mettere in crisi la quadratura formale, o una normalissima forma di rondò-sonata?

Alessandro Mastropietro


(1) Testo tratto dal programma di sala del Concerto dell'Accademia di Santa Cecilia,
Roma, Auditorio di via della Conciliazione, 18 Aprile 1997
(2) Testo tratto dal programma di sala del Concerto dell'Accademia Filarmonica Romana,
Roma, Teatro Olimpico, 15 maggio 2003


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Ultimo aggiornamento 23 maggio 2013