Don Juan (Don Giovanni), op. 20

Poema sonoro per grande orchestra

Musica: Richard Strauss (1864 - 1949)
  1. Allegro molto con brio
  2. Molto vivace
Organico: 3 flauti (3 anche ottavino), 2 oboi, corno inglese, 2 clarinetti, 2 fagotti, controfagotto, 4 corni, 3 trombe, 3 tromboni, bassotuba, timpani, triangolo, piatti, campanelli, 2 arpe, archi
Composizione: 30 Settembre 1888
Prima esecuzione: Weimar, Hoftheater, 11 Novembre 1889
Edizione: J. Aibl, Monaco, 1890
Dedica: Ludwig Thuille
Guida all'ascolto 1 (nota 1)

Richard Strauss nacque nel 1864. Figlio di un eccellente suonatore di corno dell'orchestra di Monaco, ostinatamente conservatore e antiwagneriano (a Monaco i battibecchi tra il formidabile cornista e il più formidabile genio divennero proverbiali), fece il suo giovanile tirocinio di compositore e direttore d'orchestra al fianco di Hans von Bülow e di Brahms (nientemeno), militò, dunque, per qualche anno tra i musicisti definiti allora tradizionalisti e accademici, cioè nemici di Liszt e di Wagner (Brahms, naturalmente, era sopra le parti). Nel 1882 a Bayreuth il vecchio Strauss, che era primo corno nell'orchestra del Parsifal, indicò a dito il 'demonio' al giovane figlio. Il quale, invece, quattro, cinque anni dopo diventò wagneriano. Il Don Giovanni non è la prima manifestazione della conversione (la precedono Aus Italien e la prima versione del Macbeth), ma è la prima esplosione di un talento innovativo che allora in Germania non aveva che gli stesse a pari. Tutti i mezzi elaborati e raggiunti dal nuovo stile sinfonico tedesco (tematismo drammatico, ricchezza strumentale, polifonia, colore) si presentano qui con un'evidenza, una concentrazione, una maturità senza precedenti: e Strauss aveva solo ventiquattro anni! Al primo ascolto del Don Giovanni (ammesso che ci possa essere oggi per qualcuno di noi un primo ascolto di uno dei pilastri di tutto il repertorio sinfonico) - al primo ascolto, dicevo, - sembra che l'inarrestabile produttività delle invenzioni si crei qui la propria forma musicale, liberamente improvvisando. Effettivamente una delle impressioni immediate che si ha dal Don Giovanni di Strauss è che i temi musicali, tutti netti, inconfondibili, superbamente espressivi, si inseguano l'un l'altro per una specie di iperbolica ostentazione del genio. Non c'è dubbio che il giovane Strauss, lavorando su un tema coltissimo (il mito di Don Giovanni) e sui due sentimenti principali della sua personalità, l'idealismo eroico e l'erotismo, si sia abbandonato alla straordinaria tensione produttiva quasi scoprendo per la prima volta se stesso. Sì, il giovinetto classicista aveva già scritto musica strumentale più che rispettabile (è raro che un talento così sicuro e solido tardi a manifestarsi), ma per noi, e forse pensava così anche lui, il "vero" Strauss, quello che conosciamo e ammiriamo, s'inizia col Don Giovanni. Ma egli, scoprendo se stesso, nel tumulto fantastico e passionale, avvertì anche (per la tradizione familiare, per la sua cultura, per l'istinto superiore) l'esigenza estetica della forma, che era, e rimase, solida. Infatti questa musica nasconde nel suo generoso entusiasmo, che ci trasporta e ci spinge al godimento attimo per attimo, un'architettura pensata e sicura (è quasi una forma-sonata, come il primo tempo di una Sinfonia, con contrapposizione tematica, sviluppo, ricapitolazione, coda: solo che tutto, anche il numero dei temi e il loro modo di apparire, è un po' più nutrito e insieme più rapido del consueto).

Il Don Giovanni si avvia col procedimento, singolare e tipico di Strauss, di un tema tumultuoso e spavaldo che si slancia per invadere lo spazio sonoro. In un attimo l'eroe seduttore è davanti a noi, il trasferimento dell'immagine in musica è immediato e perfetto. Da qui più che un ascolto analitico-formale (utile solo con la partitura davanti agli occhi) giova l'ascolto narrativo e drammatico, per episodi. Alla presentazione del bel cavaliere (il gesto aristocratico, la luce ridente e beffarda dello sguardo, la corsa sfrontata per il mondo) seguono due incontri d'amore, due vere "scene", nelle quali ascoltiamo due diversi temi, dolci e languidi, di carattere femminile: anzi, la seconda scena è propriamente un notturno di incantevole tenerezza (il canto malinconico dell'oboe sostenuto dall'impasto scuro e vellutato dell'orchestra). Ma Don Giovanni si stacca da ogni vincolo, egli non vuole un amore, ma tutto l'amore del mondo. Nella splendente luce solare egli canta il suo entusiasmo vitale (il celeberrimo tema dei corni, il tema che tutti ricordiamo). Il desiderio di vita e di felicità si espande, si fa insaziabile, e la necessità lo annienta. Strauss ha appreso da Schopenhauer che il desiderio è dolore e che la vitalità individuale è inganno e allucinazione. La magnifica favola del seduttore trionfante si conclude con una desolala visione di disillusione e di morte. Su un oscuro e insistito fremito degli archi la vita si dissolve nel silenzio.

Franco Serpa

Guida all'ascolto 2 (nota 2)

L'8 settembre 1949, al termine dell'esecuzione del Don Giovanni di Richard Strauss, Arturo Toscanini non si volse a ringraziare il pubblico della Scala degli applausi come sempre entusiastici che avevano accolto la sua interpretazione, ma rimase a capo chino, come in meditazione: si era appena diffusa la notizia della morte di Strauss, avvenuta poche ore prima. Il caso aveva voluto che la prima «commemorazione» della scomparsa del musicista avvenisse con le note della composizione che sessant'anni prima lo aveva veduto affermarsi di prepotenza come uno dei nuovi protagonisti della musica europea, aprendogli le porte di un successo che avrebbe avuto ben pochi termini di paragone in tutta la prima metà del Novecento, nonostante le polemiche scatenate per ragioni di segno contrario dai conservatori dapprima, e dai progressisti in seguito. Con Don Giovanni, composto fra il 1887 e il 1888, ed eseguito per la prima volta sotto la sua stessa direzione al Teatro di Corte di Weimar l'11 novembre 1889, Strauss aveva avviato la serie dei sette Poemi sinfonici (o, come il compositore stesso preferiva, «Poemi sonori», Tondichtungen) che per circa dieci anni avrebbero assorbito quasi tutte le sue energie creative, insieme con la stesura originaria di Guntram, la prima delle sue opere teatrali: dopo Don Giovanni sarebbero venuti Morte e trasfigurazione (1888-89), Macbeth (1890, ma già realizzato in una prima versione nell'86), Till Eulenspiegel (1895), Così parlò Zaratustra (1896), Don Chisciotte (1897), Una vita d'eroe (1898). Quindi, dopo un certo rallentamento dell'attività compositiva, coincidente con gli impegni direttoriali a Berlino, e colmato quasi esclusivamente da una notevole produzione liederistica, si sarebbe aperta l'epoca delle grandi opere teatrali: le recidive sinfoniche sarebbero state scarse, e non sempre tali da ritrovare la felicità dei capolavori della gioventù.

Il ciclo dei grandi Poemi sinfonici straussiani, dunque, si offre all'attenzione come un'esperienza profondamente unitaria e ben definita anche cronologicamente. Basta un'occhiata ai titoli di queste opere per cogliere immediatamente la convinzione estetica che vi sta dietro: ossia quella che l'atto compositivo sia anzitutto fatto poetico, in termini non troppo diversi da quelli della creazione letteraria, poesia per sonos anziché per verba. In una lettera a Hans von Bülow, giusto nell'agosto 1888, Strauss scriveva: «Il solo modo con il quale mi sembra possibile che si abbia ancora un'autonoma evoluzione della nostra musica strumentale è quello di prendere come punto di partenza il Beethoven del Coriolano, dell'Egmont, della Leonora n. 3, di Les Adieux; il Beethoven, insomma, dell'ultima maniera, tutte opere che non avrebbero mai veduto la luce, secondo me, senza una premessa poetica. Se dunque si vuol creare un'opera artistica unitaria per sfondo e costruzione complessiva, e se si vuole che essa agisca in senso plastico sull'ascoltatore, bisogna che ciò che l'autore intende dire appaia anche plasticamente agli occhi del suo spirito. Ciò è possibile quando esista lo stimolo di un'idea poetica, indipendentemente dal fatto che essa sia o meno aggiunta all'opera come programma». Poco più tardi, nel gennaio '89: «La nostra arte è espressione, e un'opera musicale che sia priva di un vero contenuto poetico da esprimere (un contenuto, naturalmente, tale da non potersi in reità rappresentare altro che con i suoni, ma che possa essere suggerito con le parole; solo suggerito, però) a mio parere è tutto, fuorché musica». Concetti abbastanza chiari (a parte la perlomeno curiosa attribuzione delle tre Ouvertures di Beethoven alla sua ultima maniera): l'idea poetica è assunta come «stimolo», il programma è qualcosa che le parole possono suggerire (e soltanto suggerire). Qualcosa di non troppo dissimile da quell'idea del «programma interiore» di cui parla Gustav Mahler in una lettera del 1896, a proposito della sua Prima sinfonia; non per caso più o meno coeva del Don Giovanni straussiano: Mahler la presentò al pubblico esattamente nove giorni dopo che Strauss aveva diretto a Weimar il suo Poema sinfonico.

Tanto dissimili fra di loro, queste due opere - nate significativamente all'indomani della conclusione definitiva della storia della Sinfonia di derivazione classica, sancita stupendamente e irrimediabilmente dalla Quarta di Brahms (1885) - appaiono oggi accomunate da una medesima posizione storica nei riguardi della crisi della forma: in un momento in cui la musica strumentale non riusciva più a riconoscersi nelle leggi di una creazione assoluta, né sapeva rinsaldare un vocabolario armonico e un impianto tonale già avviati verso la dissoluzione dalle esperienze wagneriane, Mahler e Strauss cercavano ambedue la via che garantisse ulteriore vitalità a un sinfonismo fattosi sempre più turgido, capace e al tempo stesso bisognoso di nuovi orizzonti espressivi. La strada scelta con mille fatiche e incertezze da Mahler era destinata a portare oltre, o perlomeno a proiettarsi come un gigantesco interrogativo su tutte la prima parte del nuovo secolo; quella di Strauss, aperta con giovanile baldanza dai primi poemi sinfonici, avrebbe presto esaurito il suo slancio travolgente per lasciare il campo all'esplicita dipendenza dalla parola e dall'azione in un gruppo di opere tali da imporsi fra i massimi capolavori del teatro musicale di tutti i tempi. Ma in quel momento e in quella cultura, il sinfonismo della giovinezza di Strauss riuscì come forse nessun'altra espressione artistica a incarnare in sé, nel bene e nel male, l'«attualità», lo spirito di un'epoca; e ciò con l'attendibilità artistica e l'autorevolezza che gli garantivano la fortissima vocazione creativa del giovane compositore (che nonostante le professioni estetiche dianze riportate fu, come pochi, anzitutto musicista) e il precocissimo magistero tecnico che di quella vocazione era immediato riflesso, tanto nell'elaborazione compositiva quanto nel dominio di un linguaggio orchestrale di inedito e spettacoloso virtuosismo. La felicità e la perfetta sicurezza con cui tale magistero si presenta nel Don Giovanni, opera di un musicista appena ventiquattrenne, non appaiono meno precoci per esser giustificate dal significativo apprendistato compiuto in precedenza con notevoli risultati proprio nel campo di quelle forme classiche che così presto Strauss avrebbe abbandonato, con la Sinfonia in fa minore dell'84, tanto ammirata perfino da Brahms, e con notevoli composizioni cameristiche come le Sonate per violoncello e pianoforte ('83) e per violino e pianoforte ('88); mentre tramite indispensabile fra la «musica assoluta» degli esordi e la «musica a programma» di questa prima intensissima stagione erano state Dall'Italia, la «Fantasia sinfonica» che nell'86 era stata un po' la prova generale del Poema sinfonico straussiano, e la prima versione di Macbeth.

Forte di così robuste esperienze, e nel pieno di un vigoroso fervore compositivo, naturalmente rivolto verso l'orchestra per lo speciale turgore delle intuizioni fantastiche (e perché Strauss, ancora giovanissimo, si era come Mahler orientato verso la direzione d'orchestra), il musicista scrisse la sua prima grande partitura sinfonica scegliendo un tema che come pochi altri era suscettibile di accogliere ed esprimere le istanze di un esuberante vitalismo: l'eros, l'istinto elementare del possesso e della sopravvivenza. Il mito eterno di Don Giovanni non viene qui assunto nei termini universali ed eticamente ambigui del grande capolavoro di Mozart, bensì in quelli semplificati e immediati che Strauss volle cogliere, non senza magari forzare un poco il senso autentico della fonte, nel poema Don Juan (e Don Juan, non Don Giovanni è il titolo originale del Poema sinfonico) di Nikolas Lenau (1802-1850): a meglio chiarire il proprio intendimento, Strauss riportò sulla partitura tre citazioni dal poema di Lenau, relative la prima all'inesausta ansia di piacere del protagonista, la seconda al desiderio sempre nuovo e sempre diverso di fronte a ogni donna, la terza alla «calma dopo la tempesta», quando ogni desiderio prende apparenza di morte. Tutto ciò trova traduzione musicale in un impianto formale libero, vagamente ricollegabile alla Sonata e al Rondò; lo percorre un'invenzione tematica straordinariamente fertile, unita alle arditezze di un'armonia tipicamente post wagneriana, e affidata a un ordito strumentale smagliante e di eccezionale ricchezza. Motivi, armonia, timbro, ogni parametro della costruzione assume un immediato valore gestuale (giusta quell'esigenza di evidenza «plastica» di cui parlava Strauss): dal primo tema, figura musicale del protagonista che apre Don Giovanni con slancio irresistibile, a tutti i motivi secondari che via via si succedono a disegnare i diversi aspetti dell'ideale femminile, a quello, veramente indimenticabile, che i corni, introducendo l'episodio conclusivo del Poema, stagliano contro il teso tremolo degli archi. Alla vigilia della prima esecuzione, Strauss scriveva compiaciuto al padre, riferendo di una prova appena terminata: «L'orchestra è rimasta ansante e senza fiato, ma ha fatto un lavoro di prim'ordine. Uno splendido divertimento: dopo il Don Giovanni un corno, fradicio di sudore e senza fiato, ha sospirato: "Dio santo, che cosa abbiamo fatto di male perché ci fosse mandato questo flagello?" (il flagello sono io) "Non sarà facile liberarci tanto presto di lui". Abbiamo riso da smascellarci». Di fatto, le rutilanti prospettive sonore del Don Giovanni richiedono a orchestra e direttore impavido virtuosismo; né questo è l'ultimo dei motivi della sua perenne presa sul pubblico. Ma al di là di ciò, Don Giovanni esige d'essere ammirato con l'assoluta evidenza dei veri capolavori, documento superbo di una splendida giovinezza d'artista; e proprio per il suo essere la prima grande pagina di una grande esperienza sembra, rispetto alle successive prove di Strauss, proporsi come un'ideale epigrafe, ripetendo le parole di Lenau: «Avanti, dunque, verso nuovi trionfi, finché nei polsi robusti batta gioventù».

Daniele Spini


(1) Testo tratto dal programma di sala del Concerto dell'Accademia di Santa Cecilia,
Roma, Auditorium Parco della Musica, 17 gennaio 2004
(2) Testo tratto dal programma di sala del Concerto del Maggio Musicale Fiorentino,
Firenze, Teatro Comunale, 27 giugno 1981


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Ultimo aggiornamento 3 febbraio 2021