Sinfonia n. 10 in mi minore, op. 93


Musica: Dmitri Shostakovich (1906 - 1975)
  1. Moderato
  2. Allegro
  3. Allegretto
  4. Andante - Allegro
Organico: 3 flauti (2 e 3 anche ottavino), 3 oboi (3 anche corno inglese), 3 clarinetti (3 anche clarinetto piccolo), 3 fagotti (3 anche controfagotto), 4 corni, 3 trombe, 3 tromboni, basso tuba, timpani, triangolo, tamburello, tamburo, grancassa, piatti, tam-tam, xilofono, archi
Composizione: Mosca 25 Ottobre 1953
Prima esecuzione: Leningrado, Sala grande della Filarmonica, 17 Dicembre 1953
Guida all'ascolto 1 (nota 1)

Shostakovic scrisse la Decima Sinfonia nella seconda metà del 1953; la prima esecuzione avvenne il 17 dicembre con la Filarmonica di Leningrado diretta da Evgenij Mravinskij, e destò subito una vasta eco, tanto che l'Unione dei compositori sovietici indisse nel marzo dell'anno seguente un incontro di tre giorni per discutere il contenuto della partitura; da più parti vennero criticati l'astrazione della musica di Shostakovic, e il suo carattere pessimistico, caratteristiche lontane dalle rigide direttive dell'estetica di regime, che imponeva una musica ottimistica, celebrativa e di facile accessibilità. Tuttavia le maglie di queste direttive si andavano progressivamente allentando. Josif Stalin era morto il 5 marzo del 1953 (lo stesso giorno moriva anche Prokof'ev) e indubbiamente la scomparsa del dittatore diede luogo a un risveglio di libertà e di autonomia nel campo delle arti. Non è errato inserire la Decima di Shostakovic nel solco di questo risveglio; non a caso il compositore, quarantasettenne, aveva alle spalle già nove partiture sinfoniche, ma non si applicava a una nuova Sinfonia da otto anni. Se la Quarta Sinfonia, nel 1936, gli aveva procurato gli attacchi più violenti della "Pravda", Shostakovic aveva saputo in seguito riguadagnarsi la fiducia del partito, e aveva offerto, con le Sinfonie degli anni di guerra, delle partiture leggibili in chiave patriottica. Ma ancora nel 1948 erano giunte nuove accuse di "distorsioni formalistiche e tendenze antidemocratiche contro il popolo sovietico". Non stupisce che negli anni seguenti il compositore ricercasse una maggiore accessibilità nel suo linguaggio, e si dedicasse a numerose colonne sonore cinematografiche.

La Decima è dunque la prima partitura del dopo-Stalin, e in quanto tale è stata spesso letta come una denuncia della personalità del dittatore. Non a caso nel volume Testimonianza di Solomon Volkov, che raccoglie alcune memorie del compositore, si afferma che la Sinfonia "è imperniata su Stalin e sul periodo staliniano", e che il secondo movimento è un ritratto musicale di Stalin; non sono mancate inoltre analisi per le quali alla figura di Slalin sarebbe legato questo o quel tema, negli altri movimenti. Eppure - al di là del fatto che il volume di Volkov è da sempre al centro di una violenta e non ingiustificata polemica sulla sua attendibilità - la complessità di questa partitura non si presta a chiavi di lettura così automatiche e semplicistiche. Il rapporto con la morte di Stalin esiste certamente, ma va ricercato altrove: nella nuova libertà creativa e nel taglio fortemente introspettivo della partitura, non scevro, come si vedrà, da riferimenti autobiografici. Non stupisce che, al suo apparire in Occidente, la Decima venisse considerata come il ritorno di Shostakovic a uno stile pienamente personale e autonomo.

Proprio per questi suoi caratteri la Decima è una delle partiture che più chiaramente indicano il debito di Shostakovic verso alcuni principi costitutivi del sinfonismo di Mahler: la fedeltà alla forma classica, ma la sostanziale reinterpretazione di essa grazie alla presenza di un percorso evolutivo, intimistico e pessimistico, nonché nutrito da elementi di provenienza eterogenea. Tali caratteri sono indubbiamente presenti nella Decima, che si articola nei quattro movimenti di prammatica, ciascuno dei quali riceve però una definizione solo in apparenza vicina alla tradizione.

Il Moderato che apre la partitura è, dunque, un movimento di vastissime dimensioni (oltre 22 minuti di musica) che segue la forma sonata; possiamo distinguere in esso un primo tema esposto da violoncelli e contrabbassi, una lunga melodia sinuosa; poi una seconda idea introdotta dal clarinetto, e una terza esposta dal flauto; eppure non è certo nella dialettica tematica la logica del movimento, che risiede piuttosto nel continuo percorso di tensione-distensione, di climax-anticlimax, un percorso, quindi, prima di tutto emozionale, che fonda la propria forza sull'intreccio e sulla sovrapposizione di linee, sui contrasti e sugli agglomerati dei timbri, sull'insistenza allucinatoria dei ritmi; il massimo della tensione si accumula nella sezione dello sviluppo, e Shostakovic opta poi per una riesposizione abbreviata del materiale, per stemperare la tensione; e infatti questo primo tempo si spegne progressivamente nel nulla, terminando nel mormorio sinuoso dei bassi, unito al brusìo dei timpani e al suono aspro dell'ottavino.

Al grande affresco del tempo iniziale si contrappone la brevità icastica del secondo, Allegro, uno Scherzo su un tema di marcia incalzante e grottesco, basato su incisività ritmica e violenza fonica, sottolineati anche da un consistente apporto delle percussioni. Il riferimento a Stalin non giova alla comprensione del tempo, ne banalizza anzi la portata drammatica e l'impatto emotivo. L'Allegretto che funge da terzo tempo è una sorta di intermezzo, in cui il tema sinuoso dei bassi che apriva la Sinfonia è trasformato in un valzer; archi e fiati si alternano nell'esposizione del tema, che viene poi superato da misteriosi richiami del corno e soprattutto da un episodio aperto dai flauti, in cui il compositore cita il proprio nome, secondo un "motto" musicale che circola liberamente anche in altre partiture, quali il Concerto n. 1 per violino e orchestra, il Concerto n. 1 per violoncello e l'Ottavo Quartetto. Il motto in questione - la spiegazione è d'obbligo - si ispira all'uso simbolico della notazione anglosassone, per cui le note vengono definite, anziché con i nomi di Guido d'Arezzo, con le lettere dell'alfabeto, a partire dal la. Di qui l'impiego che Bach fece del proprio nome come crittogramma (B-A-C-H, ovvero si bemolle-la-do-si naturale) e, sulla scorta di Bach, l'impiego che Shostakovic fece del proprio nome: D[imitri] SCH[ostakovic], ovvero D-eS-C-H, re-mi bemolle-do-si.

Il mormorio di violoncelli e contrabbassi che apre il Finale sembra riaffermare la profonda unità concettuale della Sinfonia; e in effetti l'Andante che introduce questo ultimo tempo si basa su lunghe e malinconiche melopee intonate a turno dai legni sul sostegno degli archi; l'introduzione sfocia però in un Allegro che è stato piuttosto discusso, e giudicato contraddittorio rispetto all'impostazione prevalentemente drammatica della partitura. Il tema scattante dei violini che apre quest'ultima sezione può apparire ottimistico, e smentire quanto si è svolto fino a questo momento; eppure l'ottimismo è inficiato dall'incisività ritmica come dalla graffiante scelta dei timbri. Shostakovic non manca di citare temi già apparsi nei tempi precedenti, sia l'aggressività dello Scherzo, sia il tema DSCH, che vengono a conflitto e vedono poi prevalere nella coda il "motto" autobiografico; ma il trionfalismo di questa conclusione è in realtà solo illusorio, reso dubbio già dai procedimenti dilatori che lo precedono e dalla sua effettiva brevità rispetto all'arco costruttivo della Sinfonia; anche in questo procedimento Shostakovic si richiama al sinfonismo di Mahler, aggiornandone però la portata esistenziale proprio nell'offrire alla sensibilità dell'ascoltatore moderno dubbi interpretativi piuttosto che inequivoche certezze.

Arrigo Quattrocchi

Guida all'ascolto n. 2 (nota 2 )

La Sinfonia n. 10 in mi minore op. 93 fu cominciata a Mosca nel luglio del 1953 e completata a Komarovo il 25 ottobre seguente. Circa otto anni separano questa sinfonia dalla precedente, e tale stacco cronologico si riflette anche nel mutato clima sonoro dell'opera. A differenza della Nona, infatti, la Decima presenta un linguaggio tormentato, ricco di chiaroscuri, di allusioni, di amara ironia.

Il primo tempo, il più ampio ed elaborato dell'intera composizione, è un Moderato dallo svolgimento sinfonico serrato e drammatico. Il tema iniziale, cupamente ondeggiante, enunciato dai contrabbassi, costituisce una specie di idea fissa contenente in embrione lo sviluppo di tutta la sinfonia. Altri temi dell'opera, di vaste proporzioni, appaiono infatti derivati da questo primo tema, che spesso riappare comunque, nel corso della sinfonia, nella forma originaria. Principio fondamentale dell'intero lavoro è il contrasto, cui concorrono, contrapponendosi di continuo, gli strumenti singoli e le varie famiglie strumentali. La sonorità raggiunge talvolta gradi parossistici. Il culmine della violenza è attinto nel secondo movimento, Allegro, brevissimo e demoniaco, reso incalzante da un ritmo frenetico dal principio alla fine, con effetti strumentali laceranti. Sia questo che il seguente Allegretto sono in forma di rondò e entrambi sono basati su una sequenza di note che ha il valore di una sigla personale dell'autore, tanto da essere ribadita nel movimento finale sinfonia, che ha carattere affermativo e brillante.

La Decima Sinfonia venne eseguita la prima volta il 17 dicembre 1953 dall'Orchestra Filarmonica di Leningrado diretta da Evgenij Mravinskij.

Guida all'ascolto 3 (nota 3)

Se alla prima condanna del '36 contro il «formalismo», le astrusità linguistiche e l'anticonformismo della sua musica, Sciostakovic aveva opposto un breve silenzio, tosto interrotto da quella «risposta pratica» costituita dalla «Quinta Sinfonia» (opera che di proposito si rifà al sinfonismo tardo-romantico, senza però rinunciare agli specifici caratteri stilistici chiariti innanzi), il secondo attacco di Zdanov (1948) contro le inutili novità linguistiche e l'individualismo opposto al carattere popolare ed alle emozioni collettive, fa tacere il compositore russo per molti anni, occupandolo in lavori per Io più oleografici, ricchi di banale folclorismo e di ridondanze celebrative, quali il «Canto delle foreste». Ma soprattutto Sciostakovic abbandona quel campo sinfonico frequentato, fino al termine del secondo conflitto mondiale, in ragione d'una sinfonia ogni biennio, dalla tragica «Quarta» alla «Nona», opera serena, dalla struttura quasi neoclassica.

L'allora commissario per le questioni ideologiche e culturali, Andrei Zdanov, condannava i musicisti che continuavano a perseguire «un formalismo estraneo all'arte sovietica, il rigetto dell'eredità classica sotto la maschera di uno sforzo verso la novità, il rigetto del carattere popolare della musica, il rifiuto di servire il popolo a beneficio di emozioni strettamente individuali di un gruppo ristretto, di una élite di esteti». In tale accusa venivano coinvolti i massimi compositori sovietici, anzitutto Prokofief e Sciostakovic nonché Kabalevski e Kaciaturian, tutti accusati di ricorrere ad un linguaggio musicale complicato, pieno di dissonanze che giungevano all'atonalismo incomprensibile alla grande massa degli ascoltatori, nemico della melodia, estraneo alle fonti del patrimonio popolare, privo di caratteri nazionali ed invece corrotto dal decadentismo della musica borghese occidentale: in ciò, dunque, musica messa al servizio di contenuti negativi. Era una prospettiva chiaramente riconducibile alle tesi staliniane esposte dal dittatore due anni più tardi: ove il parallelo tra lingua parlata e lingua musicale comportava nel compositore l'osservanza d'un linguaggio tonale, basato sugli schemi classicistici della musica ottocentesca e sostanziato d'un folclore che, per realizzare un immediato richiamo nazionalistico, doveva esser pianificato, edulcorato e stilizzato, perciò allontanato dalla moderna attenzione verso il canto popolare attuata da un Bartók od un Janacek. La musica e le arti erano valide, insomma, in quanto responsabilizzate nella loro oggettiva funzione sociale: ed erano pur quelli gli anni della difficile ricostruzione post-bellica, della guerra fredda, del «culto della personalità». Se indicazione specifica c'era, essa riguardava soltanto la musica descrittiva o quella «a programma», ove il poema sinfonico, la cantata patriottica, l'opera ed il balletto erano generi disponibili e consentiti, quanto a contenuti: ma generi, è chiaro, ormai quasi tutti anacronistici, nella vicenda musicale ed estetica del nostro secolo.

Sotto un siffatto «ukase», la musica ovviamente decade, riducendosi a manifestazione opportunistica (nelle cantate di Sciostakovic) od a congedi evasivi, venati di stanca esteriorità, come nella «Settima» ed ultima Sinfonia di Prokofief. Come già nel '36 aveva tralasciato il genere teatrale, così ora Sciostakovic abbandona quello sinfonico; e nel rifiuto al «culto della personalità » si dedica piuttosto ad un campo poco praticato, quello della musica da camera («IV» e «V Quartetto»), ove il linguaggio muove dagli schemi formali del quartettismo classico per giungere ad inquietanti tensioni armoniche, a stravolte dimensioni liriche. Poi, all'avvento del cosiddetto «disgelo» conseguito alla scomparsa di Stalin, Sciostakovic ritorna subito al prediletto campo sinfonico, ma con un atteggiamento meno vivo, con risultati forse meno stimolanti che nel '37, con la «Quinta Sinfonia». Quell'opera, a suo stesso dire, aveva come centro «un uomo con tutte le sue esperienze» ed era infatti lavoro ricco di tensioni ma anche di slanci ottimistici; ora la «Decima», pur composta di slancio tra la primavera e l'estate del 1953, appena scomparso Prokofief, è opera sostanzialmente serena ma senza letizia, che avverte la problematicità di una scelta tonale, che esprime anzi la dura costanza, l'ardua fedeltà di tale scelta: ritroviamo lo Sciostakovic amante dei conflitti drammatici, contrario al destino che tenta di soggiogare l'uomo, ma calato in una cifra pensosa, quasi preoccupata. Come dire che la concezione è, nella resa delle opposizioni, ancora romantica; ma è certo che qui Sciostakovic, riprendendo la vecchia e consentanea struttura della Sinfonia, appare consapevole dell'impossibile ritorno ad una qualche animosa avanguardia, nel senso di condizione umana tanto più inquieta quanto più attiva: allontanata ormai la tentazione di descrivere in qualche modo il disordine esistenziale, ora tende alla proiezione dell'Io, raggiunto non più con l'entusiasmo bensì con la logica dell'esperienza, con la ricreazione della memoria di cui aveva parlato Gorki, quindi stigmatizzando ogni prima amato pretesto «visionario». Ecco che la discorsività tende a stasi di contemplazione, di grigio lirismo, alla predominanza di una situazione d'attesa, di tempo lungo, che disarticola le immagini musicali e le dispone in un'atmosfera meditativa e pensierosa, che par riflettere, col trauma vissuto in prima persona dal compositore, anche l'esperienza comune da cui il mondo sovietico stava uscendo dopo Stalin.

Nella «Decima» Sciostakovic vorrebbe servirsi ancora di tutti i suoi vecchi registri (la lacerazione drammatica, il piglio grottesco, la frase eloquentemente melodica e suadente, lo scatto selvaggio e dissacratorio), un po' come Verdi faceva negli anni '40 quando proponeva alle sue opere atteggiamenti perentori, a senso unico, dotati della massima funzionalità didascalica. Ma ciò che ora infirma il dato realistico di partenza è proprio l'attenzione minuziosa alla microstruttura tematica, la fin ricercata raffinatezza strumentale e contrappuntistica, l'indugio talvolta disarmante. Ove l'esito non può che esser transitorio, cioè di attesa di un'altra stagione creativa, quella della musica a programma che infatti ritornerà nella «Sinfonia n. 11», ispirata alla rivoluzione russa del 1905. Nondimeno, salva ancora questa imponente «Decima» la struttura sostanzialmente ciclica, se l'inciso del «Moderato» iniziale ritorna nel terzo e quarto movimento.

Il tema cupo sorge dai violoncelli e contrabbassi per assurgere poi ad espansiva pienezza di discorso, mentre il secondo motivo, affidato al timbro penetrante del clarinetto, è terso ed elegiaco, con sconfinamenti mistici non lontani da certi climi brahms-brukneriani, soprattutto nel breve corale di ottoni. Il terzo tema stabilisce un andamento più instabile, reso nervoso e palpitante dal timbro gentile del flauto. Tutto questo materiale è condotto, nella vasta sezione dello «sviluppo», ad un clima altamente drammatizzato, accentuato da tensioni ritmiche irregolari e da fin ossessive scansioni liriche, ove si nota ancora la deliberata concezione di un sinfonismo riverberato di echi tardo-romantici (tra Ciaikovski, Sibelius e fin Nielsen): sorta di consuntivo del passato ma calato in una dimensione moderna ed europea quanto ad armonia e contenuti espressivi. L'andamento di tragico valzer cede infine alla vasta divagazione iniziale, con un intendimento ricapitolativo non lontano dagli ultimi Adagi di Mahler.

Violento e selvaggio è l'«Allegro» in si bemolle minore, dai tratti rudi e corruschi, sorta di Scherzo demoniaco pervaso di allucinazioni sinistre ma anche grottesche, come nel cicaleccio di fiati ed archi sottolineato da buffi incisi della tuba. Il vorticoso moto perpetuo sfocia quindi in una poderosa marcia per ottoni, contrappuntata da ironiche frasi dei legni. Il terzo tempo, «Allegretto», è passo leggiadro ma anche sornione, se l'andamento di danza è tutto decorato da arguti interventi di clarinetti e flauti. L'eloquenza degli archi (sul tema costruito su re - mi bemolle - do - si, in tedesco D - Es - C - H, note che corrispondono alle iniziali del nome e cognome del musicista: D - S - C -H) provoca un'estenuazione del motivo iniziale; e nella rarefazione sonora il corno ha voce di profezia, a chiarire ancora una volta un riposto programma segreto, come di vicenda di pensiero: ma in questa sua riflessione (insistita in tutta l'opera) il musicista leva certamente il sostanziale autobiografismo a vicenda umana ed in ciò ritrova, magari in modo più arcigno e sfiduciato che nella «Quinta», il contatto con l'umanità, il discorso universale. Ne è prova proprio questo appello del corno, che ritorna distanziato su residui marziali e fantasmagorici che sono dimensioni di memoria, di colloquio tra sé ed il mondo. Quando riappare infine il primo tema, è chiarito che il grottesco costituisce l'esatto rovescio di medaglia dell'elusa drammaticità di fondo: proprio da tali dislivelli, da questo gioco di elusioni e mascherature, esce certo conclusivo tono da leggenda, ma anche un che d'intimamente desolato, di cupamente misterioso.

Il Finale inizia con un «Andante» cui l'oboe conferisce clima georgico, tutto riverberato naturalisticamente: ma l'atto liberatorio di meditazioni e cupezze precedenti non avviene compiutamente in questo ambito descrittivo, pur sollecitato anche dalla trepida voce del fagotto. Il clima quasi da poema sinfonico viene, quasi artatamente, ricondotto alla banalità convenzionale di un «Allegro» gioioso e brillante: ove è chiaro che il musicista, anziché (come in passato) togliersi la maschera, qui anzi se la mette. Ed inventa un vero Finale rutilante, mettendoci ogni attributo tradizionale, dagli elementi folcloristici ai ritmi di danza e di marcia, ma secondo un discorso prevedibile, pur mascherato con maestria. C'è così il tourbillon dei violini a cui risponde un inciso buffo dei bassi; c'è la serenità melodica, abile ma anche banale; c'è il colpo di scena eloquente ma non abbastanza risarcito dall'ironia. Un ottimismo quasi voluto da una regìa, che non cancella le precedenti zone pensose, se oltretutto spezzoni tematici ritornano ora in una dimensione retorica ma non certo eroica. Il che, in un ambito ancora volutamente idealistico, individualistico e tardo-ottocentesco, significa, proprio nell'apparente trionfo conclusivo, nell'abilità d'impiego di sicuri materiali ed effetti, sostanziale contraffazione dell'unico movente sincero della «Decima»: quello della solitudine pensosa e fin perplessa. E che quest'opera sia un congedo lo dimostra, già s'accennava, la svolta a programma del successivo sinfonismo sciostakoviano.

Sergio Martinotti


(1) Testo tratto dal programma di sala del Concerto dell'Accademia di Santa Cecilia,
Roma, Auditorio di via della Conciliazione, 28 Aprile 2002
(2) Testo tratto dal Repertorio di musica sinfonica a cura di Piero Santi, Giunti Gruppo Editoriale, Firenze, 2001
(3) Testo tratto dal programma di sala del Concerto del Maggio Musicale Fiorentino,
Firenze, Teatro Comunale, 16 novembre 1974


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Ultimo aggiornamento 31 ottobre 2019