Diario intimo di una difficile vicenda artistica, i quartetti per archi di Sostakovic esprimono un particolare universo, senza la conoscenza del quale non si può intendere a pieno le scelte, lo stile, la personalità di questo musicista. All'insieme dei quattro strumenti, infatti, egli affida non soltanto alcune regioni segrete dell'animo, ma anche molte delle idee compositive più raffinate. E se è vero che questi caratteri espressivi e formali circolano così nel repertorio cameristico come in quello sinfonico - dove non mancano pagine di sapore lirico, o anche esoterico - la dimensione del quartetto ha certamente sollecitato l'autore a sperimentare quei linguaggi della moderna musica occidentale che più lo attraggono, con una scrittura preziosa che attinge a volte esiti memorabili.
I quartetti di Sostakovic, quindici come le sinfonie, sono dunque un territorio a sé. È in età adulta, a partire dal 1938, che il musicista vi si dedica; ha già alle spalle opere, balletti, cinque sinfonie, lavori vocali e strumentali da camera, musiche per teatro e cinema: è insomma un compositore maturo e tra i più eclettici. Però l'interesse per la forma quartettistica sarà crescente, negli ultimi decenni di attività, rispetto agli altri settori creativi: anche rispetto alle sinfonie, se si pensa che dalla metà degli anni Cinquanta il musicista russo concepisce ben dieci quartetti e "soltanto" cinque sinfonie. E anche dalla qualità dei risultati, è evidente che il quartetto diventa rifugio e veicolo favorito dell'espressione di se stesso, della propria interiore, sottile tragedia di artista in problematico equilibrio col mondo del potere, con l'ottusità delle gerarchie, con le inesorabili necessità della Storia; così come la sinfonia - pur ospitando il tratto soggettivo, lirico, talora autobiografico - appare la sede prediletta del sentimento collettivo, della tragedia di moltitudini, dell'affresco talvolta retorico.
Per lo spessore del pensiero musicale e l'intensità dei contenuti, quindi, il versante quartettistico dell'arte di Sostakovic fronteggia con piena autonomia di connotati il suo catalogo sinfonico, sopravanzandolo a volte sul terreno dell'eleganza stilistica e della dovizia ispirativa. È lì che l'anima del compositore può meditare in compagnia delle presenze più vicine: molti lavori cameristici sono infatti dedicati ad amici e a persone care, quasi come appunti di un diario.
È Sergej Sirinskij, il violoncellista del Quartetto Beethoven, il dedicatario del Quartetto in fa diesis maggiore n. 14: e dalle lettere del suo diminutivo (Serëža) sono tratte le corrispondenti note musicali che delineano il motivo principale dell'ultimo movimento, secondo una procedura non rara in Sostakovic. D'altra parte, quasi tutta la sua produzione quartettistica - fanno eccezione il primo e l'ultimo lavoro - è legata all'attività del Quartetto Beethoven, destinatario delle prime assolute. Anzi, quattro opere sono dedicate a ciascuno dei componenti, e altre due all'intero complesso.
Datato al 1973, il Quartetto n. 14 vede dunque la luce in quegli ultimi anni nei quali il compositore, nonostante l'organismo sia fiaccato dalle malattie, riesce ancora a ottenere relativamente molto dalle proprie capacità. E, proprio riguardo a una prova - in casa dell'autore - di questo lavoro ormai concluso, è eloquente la testimonianza dello scrittore contemporaneo Cingiz Ajtmatov: «[...] In lui si andavano risvegliando certe forze di spietata severità con se stesso e con gli altri [...] Esigeva una maggiore maestria, una maggiore accuratezza, un maggiore trasporto. A uno disse perfino che soffiava troppo rumorosamente mentre muoveva l'archetto. [...] Poi decisero di suonare ancora una volta il Quartetto n. 14. Io ascoltavo ed ero estasiato. Ed eccotelo Sostakovic. Gentile, buono, timido. Ma è una belva sul lavoro».
Su un pedale di tonica affidato alla viola, l'Allegretto esordisce sommessamente consegnando un tema senza pretese al violoncello, che dell'intera partitura è lo strumento dominante. Questo motivo iniziale, nella sua semplicità, evita ogni accento magniloquente o doloroso; ma, a poco a poco, emergono doti multiformi di inquieta mutabilità, di ritmica energia, di indole danzante.
Il violoncello continua a condurre il dialogo, ormai raccolto dagli altri strumenti, e dopo una lunga elaborazione introduce solisticamente, con un'appassionata cadenza, la seconda idea, che poi acquisisce un profilo più duttile e penetrante. Il movimento si avvia a concludere sul confronto tra le due idee principali, e verso la fine delinea un episodio che definisce le traiettorie liriche più sinuose, mentre per suo conto il tema iniziale si avvolge di tinte levigate e serene.
Singolarmente suggestivo è l'Adagio che,
introdotto dal primo violino, è quindi intessuto su un
duetto di struggente intensità tra questo e il violoncello.
Diversamente da tante architetture di anni precedenti, con la loro
densa polifonia, questa pagina respira su linee quanto mai rarefatte,
delegando a qualche scarna cellula tematica la
responsabilità di indicare la disposizione del discorso, e
volge poi direttamente all'Allegretto
finale. Qui la musica sembra crescere su se stessa, muovendo da motivi
appena accennati; quest'atomizzazione dei materiali, con riferimenti
tematici ridotti a semplici allusioni in un andamento che sembra
incalzare quasi sul nulla, crea un'atmosfera lunare che si risolve in
un Adagio conclusivo. Il violoncello riprende le fila, suggellandole
con un canto che si spegne in un clima d'impalpabile raccoglimento.