Etudes symphoniques per pianoforte, op. 13

su un tema di Ignaz Ferdinand von Fricken

Musica: Robert Schumann (1810 - 1856)
  1. Tema - Andante (do diesis minore)
  2. Variazione I - Un poco più vivo (do diesis minore)
  3. Variazione II - Marcato il canto, espressivo (do diesis minore)
  4. Studio III - Vivace (mi maggiore)
  5. Variazione III - (do diesis minore)
  6. Variazione IV - Scherzando (mi maggiore)
  7. Variazione V - Agitato (do diesis minore)
  8. Variazione VI - Allegro molto (mi maggiore)
  9. Variazione VII - (do minore)
  10. Studio IX - Presto possibile (do diesis minore)
  11. Variazione VIII - Sempre con energia (do diesis minore)
  12. Variazione IX - Con espressione (sol diesis minore)
  13. Finale - Allegro brillante (re bemolle maggiore)
Organico: pianoforte
Composizione: 1834 - 1852
Prima esecuzione: Lipsia, Börsensaal, 13 agosto 1837
Edizione: Breitkopf & Härtel, Lipsia, 1881
Dedica: William Sterndale Bennet
Guida all'ascolto 1 (nota 1)

Studi sinfonici, studi sinfonici per pianoforte solo. Siamo talmente avvezzi al titolo di Schumann che non facciamo più caso al paradosso in esso contenuto. In verità vi fece caso Schumann stesso quando, nel 1852, ripubblicò la sua op. 13, ritoccata, con il titolo Studi informa di variazioni. E Studi sinfonici non era stato del resto il primo titolo: il primo fu Variazioni patetiche, il secondo Fantasie e finale, il terzo Studi di carattere orchestrale. Schumann, nel 1837, optò per Studi sinfonici, versione abbreviata di Studi di carattere orchestrale, perché l'ampliamento delle possibilità coloristiche, provocato dall'adozione generalizzata delle barre e placche metalliche di tensione e della copertura del martelletto in feltro (invece che in pelle), portava il pianoforte a rivaleggiare con l'orchestra. Negli Studi sinfonici Schumann adottò in larga misura disposizioni dell'evento sonoro tipiche dell'orchestra, e poi dell'organo (Studio n. 8), ed infine... del pianoforte (Studio n. 11): il nuovo pianoforte, in altre parole, poteva fare ciò che faceva l'orchestra, ma poteva anche andar oltre l'orchestra, scoprendo un nuovo territorio di sovrapposizioni di sonorità limpide e di macchie sonore indistinte, tanto che lo Studio n. 11 viene visto da qualcuno come lontana premonizione di Ondine di Ravel. Per ottenere ciò diventava essenziale la tonalità, cioè l'uso di tutti i tasti neri con una particolare posizione della mano che favorisce il controllo capillare della discesa del tasto. Schumann, non-pianista, si affiancava così ai pianisti Chopin e Liszt, che in quegli anni stavano sviluppando una tecnica del suono pianistico novativa, anzi, rivoluzionaria.

Gli Studi sinfonici, lo abbiamo già detto implicitamente, sono in forma di variazioni. Variazioni su un tema che non è di Schumann ma di un dilettante, il barone von Fricken, padre della fidanzata di quel momento, prima che sbocciasse il grande amore, Clara Wieck. Il barone, che suonava il flauto, aveva mandato nel 1834 a Schumann un suo tema con variazioni, sollecitando un parere. Schumann se la cavò, diplomaticamente, dicendo che il tema lo aveva interessato al punto da fargli pensare di scrivere a sua volta delle variazioni. La gestazione dell'opera fu però lunga e tormentata. Schumann scrisse dapprima le Variazioni patetiche, poi le trasformò nelle Fantasie e finale, assegnò loro il numero d'opera 9 e le ritenne pronte per la stampa. Quindi cambiò idea, mise da parte le Fantasie e finale togliendo loro anche il numero d'opus che passò al Carnaval. Nel 1837 Schumann riprese in mano le Fantasie e finale, modificò radicalmente la struttura del tema, tolse cinque variazioni, ne aggiunse altre, spostò l'ordine di qualche pezzo, cambiò per due volte il titolo e assegnò il numero d'opera 13. Il risultato è un paradosso non solo a causa del titolo, ma anche perché la struttura delle variazioni/studi non corrisponde più per intero alla struttura del tema, modificata.

Il finale delle Fantasie e finale non era costruito sul tema del barone von Fricken, che vi veniva soltanto citato, ma su due temi tratti da un melodramma di Heinrich Marschner, Der Templar und die Jüdin (1829). Il primo di questi due temi, che metteva in musica le parole «Rallegrati, fiera Inghilterra», nel 1837 cascò come il cacio sui maccheroni perché suggerì a Schumann la dedica degli Studi sinfonici. Nel 1836 era infatti giunto a Lipsia un giovanissimo musicista inglese, il ventenne William Sterndale Bennett, compositore e pianista. Schumann lo ammirò molto, ne recensì con favore le composizioni nella rivista di cui era proprietario e direttore, e gli dedicò gli Studi sinfonici, trovando il modo di combinare uno di quei giochi criptografici che lo divertivano moltissimo. Di che cosa doveva rallegrarsi la fiera Inghilterra? Di aver trovato nel Bennett un suo musicista di statura europea, il primo dopo Purcell. Certo, per capirlo bisognava conoscere l'opera di Marschner e collegare il finale degli Studi Sinfonici con il dedicatario. Ma Schumann inventò in vita sua altri enigmi anche più complicati di questo.

Piero Rattalino

Guida all'ascolto 2 (nota 2)

Gli Studi sinfonici op. 13, invece, si collocano nella fase centrale del periodo della grande fioritura pianistica di Schumann.

Come tutti i lavori di quel periodo - da Papillons a Davidsbündlertänze, dal Carnaval alla Fantasia - e come moltissimi suoi lavori in genere, anche gli Studi sinfonici, nonostante la loro forma più astratta di Tema con variazioni, incrociano in modo indissolubile la loro storia e i loro significati con le tormentate vicende della vita di Schumann, anche se poi, attraverso varie versioni nel corso degli anni, i segni di questi incroci si sono fatti meno palesi.

Innanzitutto il tema su cui si basano gli Studi è opera del barone Ignaz Ferdinand von Fricken, musicista dilettante e padre adottivo di quella Ernestine von Fricken con cui Schumann si era fidanzato nel 1834; Ernestine era stata anche uno dei motivi ispiratori del Carnaval - basato principalmente sulle quattro note, tutte presenti anche nel cognome Schumann, nascoste nel nome del paese in cui risiedevano i Fricken, Asch - diventandone ovviamente uno dei personaggi con il nome di Estrella, prima di essere bruscamente scalzata dal cuore e dall'immaginazione di Schumann, già all'inizio del 1835, dalla piccola Clara Wieck: «sei il mio amore di sempre. Doveva venire Ernestine affinché noi ci potessimo riunire».

Gli Studi ebbero varie versioni; fin dalla prima redazione, compiuta tra il 1834 e il gennaio del 1835, Schumann fu incerto sul titolo da assegnare al nuovo lavoro, passando da Variations pathétiques a Etüden im Orchestercharakter von Florestan und Eusebius fino a Fantaisies et Finale sur un thème de M. le Baron de Fricken. Ciascuno di questi titoli contiene degli elementi che individuano un tratto del brano (la forma tra studio e variazione, il carattere orchestrale della scrittura, l'andamento fantastico culminante in un ampio finale), ma nel secondo appare - altro rimando al complesso mondo interiore schumanniano - anche quella attribuzione dell'opera a Florestano ed Eusebio (i due personaggi immaginari che rappresentavano nella mente di Schumann le istanze opposte della sua personalità) che avrebbe poi abbandonato questa composizione per passare a Davidsbündlertänze.

Questa prima versione comprendeva dodici brani, dei quali solo il Tema, il Finale e cinque variazioni (1, 2, 4, 5, 10) rimasero - pur se con alcune modifiche - nella prima edizione, pubblicata nel 1837 a Vienna con il titolo francese di Etudes symphoniques. Le cinque variazioni non utilizzate, sostituite da sei nuovi brani, furono pubblicate postume da Brahms nel 1873; oggi gli interpreti generalmente ripropongono queste cinque variazioni, non inserendole però sempre nello stesso punto del brano, poiché non esiste - come ha scritto Wolfgang Boetticher, curatore dell'edizione critica degli Studi sinfonici - «un indizio filologico che possa sostenere la sequenza ottimale in cui i cinque pezzi postumi dovrebbero apparire in rapporto ai rimanenti studi».

Nella seconda edizione (Lipsia, 1852) l'opera prese il nuovo titolo di Etudes en forme de variations e perciò lo Studio n. 3 e lo Studio n. 9, che non erano esattamente delle variazioni e quindi contraddicevano il titolo, furono eliminati, anche se oggi vengono anche loro generalmente eseguiti.

La dolorosa e statica bellezza del semplice tema comincia ad animarsi già nella Prima Variazione (Un poco più vivo), mentre già dalla Seconda Variazione, al di sotto di un canto intenso e appassionato, la scrittura pianistica si fa sempre più densa e complessa per alleggerirsi poi all'improvviso nel luminoso virtuosismo del Terzo Studio; la figura discendente del tema viene ripresa a canone nei secchi accordi della Terza Variazione che sfocia direttamente nella Quarta (Scherzando), anch'essa costruita su accordi che introducono però un'atmosfera più leggera, contraddetta ancora una volta dall'esplosione virtuosistica della Quinta Variazione (Agitato). Questa alternanza, talvolta perfino violenta, di atmosfere diverse continua anche nelle Variazioni seguenti, con lo slancio virtuosistico e appassionato della Sesta Variazione, del Nono Studio e dell'Ottava Variazione e le parentesi intensissime della Settima e, soprattutto della Nona Variazione, vertice sommo di intensità espressiva, raffinatezza di scrittura, ricerca timbrica. Spentasi in lontananza l'eco di quest'ultima, straordinaria Variazione, esplode con un contrasto tanto più amplificato il Finale (Allegro brillante), un ampio e sonoro rondò di quasi duecento battute che utilizza materiale tematico tratto dall'opera Der Tempier und die ]üdin di Heinrich August Marschner (1795-1861) e in particolare della romanza «Du stolzes England, Freuedich» (Risorgi, fiera Inghilterra); si tratta di un ulteriore omaggio di Schumann al suo amico inglese dedicatario dell'opera, il compositore William Sterndale Bennett.

Carlo Cavalletti

Guida all'ascolto 3 (nota 3)

Nel 1852, più o meno contemporaneamente alla composizione da parte di Liszt della Sonata in si minore che gli sarebbe stata dedicata, Robert Schumann poneva mano alla revisione dei suoi Studi sinfonici, per pubblicarli, quello stesso anno, presso l'editore lipsiense Schubert & Co. Adesso il titolo suonava Études en forme de variations: e come «variazioni» erano indicati i dodici pezzi che facevano seguito al tema. Ma nel 1834, quando Schumann ne aveva intrapreso la composizione, l'opera sembrava doversi intitolare Etüden im Orchestercharakter von Florestan und Eusebius. E la prima edizione, pubblicata a Vienna presso Haslinger nel '37 recava invece il titolo di Douze études symphoniques: ciascun pezzo era come Etude prima, seconda eccetera. La vicenda delle diverse titolazioni degli Studi sinfonici forse è banale soltanto in apparenza. Nel suo complesso fornisce indicazioni utili per la lettura dell'opera. Visti in successione, i tre diversi titoli possono inoltre suggerirci il desiderio, da parte di Schumann, di rendere via via più chiara la dimensione formale del lavoro, rendendola sempre più esplicita e meno letteraria.

Lo Schumann che nel 1834 pone mano agli Studi è un musicista di ventiquattro anni, che da poco tempo ha capito quale sia la sua vocazione vera, e l'ha abbracciata con dedizione assoluta. Nel quadro di una adesione entusiastica ai fatti della cultura e dell'arte in generale, bevuti quasi con il latte materno dal figlio del colto libraio-editore di Zwickau, la musica a poco a poco è venuta prendendo sempre maggior peso. Finalmente, dopo aver sentito Paganini, nel luglio del '30 era giunta la decisione: il giovane che già ha dato brillanti prove di pianista e promettenti saggi compositivi, si getta anima e corpo nella musica. In ottobre abita già a Lipsia: allievo e ospite pagante di Friedrich Wieck. Passano due anni, durante i quali Schumann tenta di prepararsi alla carriera del virtuoso, forse per essere un Paganini del pianoforte. Il sogno sfuma brutalmente nel '32, quando lo strambo meccanismo che il giovane ha inventato per rinforzare il quarto dito gli rovina senza rimendio una mano.

D'ora innanzi Schumann sarà soltanto compositore. Non per questo sfuma il suo interesse per il pianoforte, che come succede al novanta per cento dei compositori di musica strumentale dell'Ottocento resterà il veicolo preferito di sperimentazioni e confessioni: anche se senza mai giungere al rapporto quasi fisico fra compositore-interprete e strumento che abbiamo visto esplodere in Liszt. Per dieci anni Schumann limita anzi esclusivamente al pianoforte la sua esperienza di compositore. I primi ventitre numeri d'opus del suo catalogo contrassegneranno altrettante composizioni per pianoforte, dalle Variazioni Abegg op. 1 ai quattro Nachtstücke, del '39. Poi ci sarà un provvisorio ma quasi totale tramonto della tastiera, e la rovente parentesi liederistica del 1840; quindi, a poco a poco, il recupero della grande forma classica con l'esplorazione della musica da camera.

E di un recupero della forma classica è chiaro che Schumann, giunto agli ultimi dieci-quindici anni della sua vita di compositore, sentisse più o meno a ragione il bisogno. Gran parte dell'avventura creativa del decennio del pianoforte si era svolta all'insegna della creazione di cicli di pezzi brevi, spesso di chiara ispirazione letteraria almeno nei titoli, saldato insieme, nel caleidoscopico susseguirsi di proposte espressive diversissime, dai nessi più o meno nascosti creati dall'impiego del principio della variazione: una tendenza rappresentata al meglio dal Carnaval op. 9, del 1834-35. Avanti a ciò, reiterati ma non sempre riusciti o felicissimi tentativi di cimentarsi con la forma illustre della Sonata: una, rimasta incompiuta, nel '31-32, un'altra, poi numerata come «Quarta», nel '33-37, sempre incompiuta; la cosiddetta «Prima», nel '33-35, la «Seconda» fra il '35 e il '38, la «Terza», dallo stravagante titolo di Concerto senza orchestra, fra '35 e '36. A mezza strada, per così dire, fra l'ossequio aperto alla forma classica delle Sonate, e la libertà fantastica dei cicli come Carnaval o i Phantasiestücke o i Davidsbündlertänze, gli Studi sinfonici: scritti ripetendo la robusta articolazione classica del «tema con variazioni», ma realizzati, sul piano compositivo, con una profondità di intervento e di trasformazione del materiale motivico originario tale da dar vita a un più rigoroso e vigorosamente formato «carnevale» di maschere.

Perché la variazione, in Schumann, non è soltanto eredità dell'ultimo Beethoven, applicazione dello scavo contrappuntistico al dato di partenza, elaborazione di ogni minimo segmento offerto dal motivo originario, ma anche traduzione musicale di quello sdoppiamento di sé, di quel celarsi dell'identico dietro l'altro da sé, e viceversa, che era la più vistosa testa di ponte gettata sulla sua personalità di musicista da quella vocazione letteraria che era stata fortissima nella sua formazione, e che ora si trovava a convivere assai utilmente con quella musicale all'ombra del mito romantico dell'unità delle arti. Uno dei tanti scambi fra arte e vita, e fra l'una o l'altra e il pensiero, che sono il connotato costante della sensibilità di Schumann: per tutta la sua vita, ma in questi anni giovanili con speciale importanza. Giusto nell'aprile di quello stesso 1834 che vide l'avvio del lavoro agli Studi sinfonici, usciva il primo numero di quella «Neue Zeitschrift für Musik» di cui Schumann, fondatore, redattore e animatore avrebbe fatto strumento di polemica critica e anche terreno di esercitazione letteraria, senza alcuna soluzione di continuità fra l'una e l'altra espressione. Le sue riflessioni estetiche e critiche si offrivano al lettore sotto la forma di narrazione dei dibattiti fra Florestano, Eusebio e il Maestro Raro: che altri non erano che i diversi sdoppiamenti dello stesso Schumann, ora ardente e impetuoso (Florestano), ora mite ed elegiaco (Eusebio); ma anche, all'occorrenza, equilibrato e savio (Maestro Raro). E intorno, mille personaggi, a loro volta trasfigurazioni di protagonisti della vita privata di Schumann o dei suoi interessi: da Chiarina (la figlia di Wieck, futura moglie di Schumann), a Felix meritis, e cioè Mendelssohn. Un Carnaval in prosa anziché in musica, con l'inevitabile contrapposizione di fratelli di David e Filistei.

Negli anni intorno al 1834-35, fra i personaggi del cerchio magico di Schumann troviamo anche Estrella, donde il nome del tredicesimo episodio di Carnaval. Presto Clara-Chiarine le sarebbe subentrata: ma allora l'amore di Schumann era ancora tutto per Ernestine von Fricken, questo il vero nome della fanciulla, figlia di un buon dilettante di musica. Proprio di un tema suggeritogli dal barone von Fricken Schumann si servì per costruire l'edificio delle sue dodici Variazioni (diciassette, quando vi si aggiungano le cinque pure composte da Schumann ma espunte al momento della pubblicazione, e che, edite postume, sono spessissimo reintegrate dagli interpreti nel contesto degli Studi sinfonici. I quali, come abbiamo veduto, nella prima intenzione di Schumann dovevano recare un titolo che scopertamente richiamava il mondo fantastico di Carnaval e delle prose critico-letterarie di Schumann: Studi in carattere orchestrale di Florestano ed Eusebio. Al momento della pubblicazione, nel 1837, Schumann era già abbastanza innanzi sulla via di quel recupero formalistico che lo avrebbe portato a scrivere musica da camera relativamente «normale» quanto a schemi compositivi e priva di titolazioni fantasiose. Tolse quindi il riferimento a Florestano ed Eusebio - con tutte le implicazioni extramusicali del caso, e anche con la sua notevole cifra esoterica - serbando invece quello al carattere «sinfonico» del lavoro; per «sinfonico» intendendosi, con tutta probabilità, l'impianto poderoso dell'elaborazione, in tutto degna della grande forma orchestrale.

Ne rimase salvo, inoltre, il carattere di «studio», nel senso paganiniano-lisztiano (ex chopiniano): ossia non tanto di una esercitazione meccanica, o peggio didattica, ma in quello di un consapevole confronto con la materia, con gli ostacoli pratici dell'esecuzione, da risolvere con la bravura della mano ma anche con la volontà dello spirito. E ancora l'ultima versione del titolo, quella dell'edizione definitiva, nel 1852, conservava questa intenzione: ma ormai dichiarando apertamente, anche nella denominazione dei dodici pezzi, la loro natura di variazioni: come se solo adesso, al limite dell'esperienza esistenziale, Schumann potesse porre in primo piano la vera identità formale del suo lavoro: fin allora nascosta, quasi il Maestro Raro non avesse ancora il coraggio di rivelarsi dietro Florestano ed Eusebio dapprima, dietro Paganini e Chopin poco più tardi (e tanto vale ricordare, a questo punto, che non solo i due «doppi» di Schumann, ma anche Paganini e Chopin, compaiono esplicitamente fra i titoli delle maschere-variazioni-sdoppiamenti di Carnaval...).

In altre parole, il ciclo degli Studi sinfonici può essere letto: a) come successione di miniature l'una trasformantesi nell'altra in una sorta di gioco di specchi all'infinito, in una dimensione poetico-letteraria alla maniera del Carnaval; b) come un'opera in più numeri, di spiccatissimo interesse pianistico, alla maniera degli Studi di Chopin e Liszt e attraverso questi al loro archetipo violinistico, i Capricci di Paganini; c) come il più bell'esempio di tema con variazioni per pianoforte fra le Diabelli di Beethoven e i due quaderni brahmsiani (da Händel e da Paganini) degli anni Sessanta. E forse non per caso in tutti e quattro i casi il tema è opera altrui; sia pure con ben diversa nobiltà, nel caso dei due cicli brahmsiani, in paragone al valzerotto di Diabelli o al temino del barone von Fricken. Il quale, comunque, viene da Schumann, fin dalla sua presentazione in apertura dell'opera, gravato di una straordinaria potenzialità di significati. Quella che il decorso delle variazioni si incarica di far emergere con una capacità di proiezione fantastica pressoché insuperabile anche sul piano strettamente tecnico, della trasformazione del motivo. Fino a convergere nell'esplosione del Finale, un Rondò nel corso del quale Schumann si compiace di citare un tema, allora famoso, dall'opera Il Templare e l'Ebrea di Marschner: un omaggio al Romanticismo germanico e alle sue fonti britanniche, in sintonia, fra l'altro, con la dedica a un buon amico inglese, William Sternaale Bennett, conosciuto attraverso Mendelssohn e futuro alfiere della Bach-Renaissance in Gran Bretagna.

Daniele Spini


(1) Testo tratto dal programma di sala del Concerto dell'Accademia di Santa Cecilia,
Roma, Auditorio di via della Conciliazione, 1 dicembre 1995
(2) Testo tratto dal programma di sala del Concerto dell'Accademia Filarmonica Romana,
Roma, Teatro Olimpico, 14 gennaio 1993
(3) Testo tratto dal programma di sala del Concerto del Maggio Musicale Fiorentino,
Firenze, Teatro Comunale, 20 giugno 1983


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Ultimo aggiornamento 5 maggio 2016