Ouvertüre in mi bemolle minore, op. 115a

per il Manfred di George Byron

Musica: Robert Schumann (1810 - 1856)
Organico: 2 flauti, 2 oboi, 2 clarinetti, 2 fagotti, 4 corni, 3 trombe, 3 tromboni, timpani, archi
Composizione: Dresda, 19 ottobre 1848 - 1849
Prima esecuzione: Weimar, Großherzogliches Hoftheater, 14 marzo 1852
Edizione: Breitkopf & Härtel, Lipsia, 1852
Guida all'ascolto 1 (nota 1)

Si è sempre detto - ma da qualche anno si è cominciato a correggere questo giudizio - che la musica orchestrale di Robert Schumann rivelerebbe una miriade di difetti sia nella concezione formale, perché il pensiero musicale di Schumann si svolgerebbe con intuizioni fantastiche, improvvise svolte e collegamenti ellittici e quindi sarebbe impacciato dalle grandi architetture sinfoniche, sia nell'orchestrazione, perché Schumann non valorizzerebbe le possibilità dell'orchestra e la considererebbe semplicemente un'estensione del pianoforte, un "rivestimento sonoro" dato a posteriori a idee musicali nate indipendentemente dall'orchestra. E questo al contrario dei suoi contemporanei Berlioz e Wagner, creatori dell'orchestra moderna, per i quali la strumentazione è un elemento essenziale del linguaggio, legato indissolubilmente al pensiero musicale stesso.

Effettivamente l'orchestra di Schumann, per il frequente uso dei raddoppi, l'insistenza sui registri centrali degli strumenti, la mancata valorizzazione dei diversi timbri e la scarsa brillantezza, può sembrare povera e dare un'impressione d'inadeguatezza dei mezzi alle intenzioni: d'altra parte quella sensazione d'inadeguatezza è lo specchio della tensione verso l'irraggiungibile, dell'aspirazione a qualcosa d'indefinibile, della lotta d'una immaginazione romantica senza confini che si dibatte contro le limitazioni della materia. Per questo la musica orchestrale rivela un aspetto fondamentale del romanticismo schumanniano. È stata proprio questa attrazione per atmosfere ineffabili e incerte ad attrarre Schumann verso un poema di George Gordon Byron, Manfred, che si svolge tra dubbio, follia e morte: l'aveva letto da giovane e diciannove anni dopo compose le musiche di scena per questo "poema drammatico", lavorandovi dalla fine del 1848 al 1851, durante il soggiorno a Dresda, turbato da crisi di nervi, depressioni, fobie e allucinazioni, e l'ancor peggiore periodo trascorso a Düsseldorf come direttore d'orchestra. Rispetto a Byron Schumann cambiò però radicalmente il finale, perché Manfred non muore bestemmiando dio, chiuso nella sua orgogliosa solitudine, ma si spegne riappacificato con se stesso e con il mondo, mentre un requiem risuona in lontananza: "Egli è morto, la sua anima ha lasciato la terra. Ove sarà ora? L'idea mi atterrisce, ma essa è partita per l'eternità". Così modificato, Manfred divenne per Schumann quasi un'autoconfessione, come lo era stato per Byron.

L'ouverture è una vigorosa sintesi di questo "poema drammatico". Labili passaggi tonali, colori lividi, ritmi inquieti e sincopati, frasi appassionate, atteggiamenti ribelli, efficaci gradazioni emotive, tutto contribuisce a creare un'atmosfera angosciata. I temi di Manfred e di Astarté (la sorella-amante, morta a causa di questa relazione proibita) sono i due poli tematici di questo breve pezzo, vero capolavoro di concentrazione espressiva: il tema di Manfred è fremente, ribelle, percorso da guizzi spettrali, quello d'Astarté è dolce e pervaso di nostalgia, e s'innesta lieve sul primo, come evocato da un sogno o da un sortilegio. Dal contatto tra queste due forze ideali si sprigiona un tormento che si avverte nel tremito delle semicrome sotto la prima apparizione della limpida melodia di Astarté. L'intreccio dei due temi ha forte valore simbolico: alla sfida di Manfred, ai suoi contatti abissali con le forze oscure, si contrappone l'immagine celestiale d'Astarté, finché i furori e le angosce tormentose cedono a questo tema rasserenante, in un finale che è una delle più misteriose ispirazioni d'un musicista ricco di mistero.

Mauro Mariani

Guida all'ascolto 2 (nota 2)

È questione ancora aperta se spetti anche alla musica sinfonica di Schumann il riconosciuto valore, unico per intensità e idealismo, si direbbe, ed emblematico nella cultura romantica tedesca, dei suoi mirabili cicli per pianoforte, dei Lieder e di molti dei lavori da camera (primo il Quintetto col pianoforte, che tanto piacque anche a Wagner). No, forse il valore non è lo stesso, o meglio poche pagine sinfoniche di Schumann hanno il segno assoluto della novità e della libertà fantastica che ancora ci meraviglia nell'altra sua musica. Non dipende solo da una certa imperizia, in verità additata sempre con esagerazione, della sua scrittura sinfonica. Certo, Schumann non è l'orchestratore inventivo, coloristico, sorprendente, come furono gli innovatori dell'orchestra romantica suoi contemporanei, Berlioz, Mendelssohn, Liszt, Wagner (e la differenza si sente), anche perché nello stile sinfonico egli tendeva ad imporsi una rigidezza costruttiva e una severità di espressione estranee al suo genio. Sì, il decadimento del gusto nel pubblico tedesco e il predominio del virtuosismo edonistico, della moda melodrammatica, dell'arte da salotto lo riempivano di sdegno come oltraggi ai grandi appena morti (Weber, Beethoven, Schubert), che egli venerava e di cui si sentiva erede. Nei due decenni successivi a quelle morti dolorose, a lui, così colto e fedele, si era presentato urgente il problema della "sinfonia", come valore in sé, il problema, appunto, dell'eredità, - quel problema che nelle due ultime sue sinfonie Mendelssohn seppe aggirare con la prodigiosa sua serenità, e che Liszt e Wagner dichiararono insussistente per la morte stessa, come affermavano, del sinfonismo puro

A Schumann, invece, la realtà si presentava diversa ed egli tentò di respingere il pericolo che il mutamento dei tempi e degli ideali portasse con sé l'estinzione di quel valore. Per questo la raccolta dei suoi scritti critici e polemici è testimonianza eccezionale, oltre che di una lucida intelligenza analitica, di un'alta coscienza estetica: in nome della quale accadde a lui, spirito poetico e libero come pochi, di essere nelle sinfonie e a volte nella musica sinfonico-corale, un "conservatore", quasi uno di quei "filistei" che egli derideva. E sempre per questo si guastarono i rapporti con Liszt e con Wagner (che in seguito, dopo che Schumann morì, fu anche ingenerosamente ostile). Ma l'illusione "sinfonica" di Schumann non fece danni e anzi produsse qualche capolavoro (come certamente sono il Manfred e il Concerto in la minore).

Manfred

George Gordon Byron (1788-1824) scrisse il poema drammatico Manfred nel 1817, quando era già una celebrità in tutta l'Europa romantica, non solo per la sua poesia, copiosissima in ogni genere letterario, ma anche per la vita, altrettanto copiosa di avventure, viaggi, amori leciti e illeciti, scandali. L'ideale della vita estetica ed eroica (morì giovane in Grecia dove sperava di partecipare alla rivolta contro i Turchi oppressori) egli lo incarnò per primo e con verità assai maggiore dei molti che per almeno un secolo lo imitarono. Byron ebbe, certo, genialità poetica, originale e prepotente, e la quantità di occasioni che egli ha offerto alla musica, al melodramma e alla letteratura dell'Ottocento è solo essa già un merito eccezionale. Ma a leggere il suo Manfred, delirante e prolisso com'è, oggi ci è diffìcile comprendere non tanto il successo popolare di allora quanto l'ammirazione di geni ben superiori, come Goethe (che tradusse qualche pagina del Manfred, tra cui il primo monologo, che gli sembrava addirittura migliore del monologo di Amleto), Leopardi, Nietzsche (e nel 1885 Caikovskij compose anche lui la sua Sinfonia Manfred). Ci sono, sì, nel poema segni di vigore fantastico ed espressivo (parliamo di un poeta di rango), ma qui in genere tutto, situazioni e discorsi, ci suona esagerato e anche grottesco, quasi una parodia del Faust di Goethe.

Anche Schumann fu uno dei fervidi ammiratori del Manfred, e del turbamento che ebbe dalla lettura, anzi delle lacrime che versò, ci dà il racconto la moglie Clara. Se egli si era formato sui libri di scrittori romantici bizzarri ed estremi come erano Jean Paul e Ernst Th. A. Hoffmann, al momento dell'incontro col Manfred il suo genio, emotivo e fantastico, reagì pronto.

La vicenda in breve, per l'ascolto dell'Ouverture (che, sia chiaro, non racconta né illustra, ma esprime, come dirò, un esasperato carattere umano e una tonalità poetica). Il giovane Manfred vive in un castello solitario delle Alpi, sulle cui cime nevose egli si aggira, torturato da un rimorso. A lui né la filosofia, né la scienza, né le dottrine occulte hanno dato conforto. Al suo «Voglio dimenticare!» gli spettri che Manfred evoca non sanno dare risposta. Deciso a precipitarsi in un abisso, Manfred è miracolosamente salvato da un buon uomo, un "Cacciatore di camosci". Nella capanna del Cacciatore Manfred dice la sua colpa, oscuramente parlando di un amore consanguineo e di sangue versato (un incesto? uno stupro? un delitto?). Lo stesso enigma egli ripete alla Maga delle Alpi, apparsa dalla luce dell'arcobaleno. Le frenetiche allucinazioni spingono Manfred giù nell'ultima oscurità dell'anima - nella reggia di Arimane, il potente dio del male, e lì Manfred chiama dai morti la sua vittima, la fanciulla sacrificata, Astarte («Mi amavi troppo, così io te. [...] Anche se estremo peccato era l'amore che amavamo»). Il pallido spettro non lo condanna, non lo perdona, gli permette di morire: «il tuo strazio in terra cesserà domani». Nel suo castello Manfred respinge le devote parole di un Abate, ma vince, romantico Prometeo, anche le seduzioni del suo Genio maligno (il suicidio?): «Tu su me nulla puoi, questo lo sento. [...] Ciò che ho fatto, l'ho fatto; dentro porto un tormento che con i tuoi non cresce.» All'Abate che gli stringe la mano fredda, dice: «Vecchio, non è difficile morire!», e muore, libero.

Byron non aveva destinato il suo poema al teatro. Invece Schumann lo ripensò per la scena e nel 1848 compose le musiche per lo spettacolo, tentando così una "prova" di opera - del genere musicale che in quei decenni tutti i musicisti tedeschi, i massimi e i minori, cercavano di attirare nell'area del grande sinfonismo (e proprio in quel giro di anni Wagner sciolse la difficoltà). Dalla serie di soliloqui, incubi, apparizioni, invettive che è il testo letterario di Byron, egli scrisse, con la musica, un monodramma romantico, fantastico e spettrale, che non è un'opera, perché Schumann fu fin troppo rispettoso dei versi e perché il protagonista non è creato col canto; ma è quanto di più vicino egli abbia creato al tipo di dramma in musica, per la forza crescente del pathos, che ha un'ascesa di natura teatrale-drammatica (superiore in questo anche alla sua vera "opera" Genoveva), per l'intensità emotiva della scena centrale (il sublime lirismo dell'apparizione di Astarte, in pochi minuti di musica), infine per la severità della catarsi finale, che manca nell'originale di Byron e fu inventata da Schumann.

Delle troppo rare esecuzioni di queste musiche di scena forse è causa proprio questa mirabile Ouverture, che ne concentra tutto lo spirito, senza anticiparne motivi. Come ho detto, la musica ardente e dolorosa non è descrittiva, non è un racconto dei fatti, è il ritratto sonoro di un carattere, della sua mente e della psiche. "Il ritratto" in musica era un genere di moda, e se ne composero molti (Mendelssohn, Berlioz, Wagner, Liszt, e su fino a Strauss e oltre), ma pochi hanno la vigorosa efficacia di questo. La sua natura speciale sta nell'invenzione di temi ossessivamente "circolari" e affannosi (l'Ouverture al Coriolano di Beethoven ci sembra molto vicina), e nella dinamica dei contrasti, di motivi soprattutto, ma anche di ritmi e di colori, spinti uno contro l'altro con eccezionale ardimento costruttivo. Si additano di solito due temi principali, intitolandoli ai due protagonisti, Manfred e Astarte. Nulla giustifica questa interpretazione nelle musiche di scena (indipendentemente dalle quali Schumann ha concepito l'Ouverture), - interpretazione che anche confonde l'ascolto. In realtà questa musica esprime le angosce e i terrori di uno spirito colpevole, tormentato, coraggioso, e lo accompagna fino all'ultimo respiro (la calma meravigliosa delle ultime battute). Quasi tutta la musica sinfonica di Schumann è "sana", talora anche troppo: solo nel romantico Manfred arde la febbre mortale che in pochi anni avrebbe annientato anche l'artista.

Franco Serpa


(1) Testo tratto dal programma di sala del Concerto dell'Accademia Filarmonica Romana,
Roma, Teatro Olimpico. 17 maggio 2001
(2) Testo tratto dal programma di sala del Concerto dell'Accademia di Santa Cecilia;
Roma, Auditorium Parco della Musica, 20 novembre 2010


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Ultimo aggiornamento 21 maggio 2015