Genoveva, op. 81

Opera in quattro atti

Musica: Robert Schumann (1810 - 1856)
Libretto: Robert Reinick, da Ludwig Tieck e Friedrich Hebbel
Ruoli: Organico: 2 ottavini, 2 flauti, 2 oboi, 2 clarinetti, 2 fagotti, 4 corni, 2 trombe, 3 tromboni, timpani, archi
Composizione: Lipsia, 1 aprile 1847 - 4 agosto 1848
Prima rappresentazione: Lipsia, Stadttheater, 25 giugno 1850
Edizione: Peters, Lipsia, 1850
Guida all'ascolto (nota 1)

PROFILO DEL PERSONAGGIO

Genoveffa non è un personaggio creato solamente dalla fantasia dei poeti e particolarmente di quelli romantici o preromantici. Ha una sua storia quanto mai lunga e varia che meriterebbe forse la pena di esser più ampiamente discussa e conosciuta. Innanzi tutto occorre evitare una confusione, che si compie ancora di frequente: in Francia viene ancora esaltata Santa Genoveffa, detta di Parigi, realmente vissuta, a quanto pare, nel quinto secolo dopo Cristo, raffigurata in immagini e statue e recentemente cantata anche dal poeta cattolico Charles Péguy (La Tapisserie de Sainte Geneviève et de Jeanne d'Arc, Parigi 1913). Essa impose una eroica resistenza quando Attila devastava la Francia e con una serie di miracoli provvide al vettovagliamento di Parigi in successivi tempi difficili. Per quanto le fonti agiografiche che ne cantano le gesta siano molte, le sue opere rimangono legate a fatti realmente avvenuti anche se collocati in una luce di leggenda. Ma, come si può immaginare, questa pura figura di Santa, che ha qualcosa di Caterina da Siena e insieme di Giovanna d'Arco, non va confusa con Genoveffa di Brabanie, personaggio interamente affidato alla tradizione poetica del tardo Medioevo. Un punto di contatto però tra le due donne c'è - e forse ha giustificato la scelta del nome -: Santa Genoveffa, come Genoveffa di Brabante, si trova a un certo punto calunniata, ingiuriata, accusata per la ostinazione con cui difende la sua idea, proprio come la nobildonna, che, per mantener fede al marito lontano, subisce le più atroci angherie dal suo vendicativo innamorato. E come la Santa vien salvata quasi da un miracolo, cosi Genoveffa di Brabante viene infine riabilitata, dopoché il marito ingannato l'ha condannata a morte e dopo che la sentenza, che doveva, aver luogo in un punto nascosto di una foresta, non è stata, eseguita, perché gli assassini si sono impietositi (o un servo fedele li ha allontanati con la forza o con un grosso compenso). Ma all'infuori di questo punto comune sarà bene dimenticare la Santa protettrice di Parigi, per venire unicamente alla gentildonna, insidiata dal più fedele amico del marito. La situazione di Genoveffa di Brabante ricorda quella di altre eroine chiamate a esser protagoniste di storie d'amore, da Isotta a Francesca: ma ha un colorito particolare; la fantasìa dei cantori medioevali, su su fino a quella dei poeti del Sei e Settecento rimase prevalentemente colpita dalla scena del bosco, o meglio dalla vita che la nobildonna è costretta a condurre, insieme al figlioletto, di cui il marito, Sigfrido, conte palatino, ignora perfino l'esistenza, tra le infinite insidie della foresta, in una grotta più che modesta, e nella continua unsìa dì venir scoperta. Le sue vesti consunte, i lunghi capelli, che le cadono ai piedi e costituiscono ancora un segno della sua regale bellezza, la renderebbero dopo anni di lontananza irriconoscibile e la potrebbero presentare quasi come una penitente di amico stampo, se non ci fosse la presenza del figlio, che non a caso viene chiamato concordemente dai poeti tedeschi Schmerzenreich (cioè letteralmente: ricco di dolori). E compagna della strana eremita è una cerva, che ha allattato il bambino nei primi tempi e che rappresenta il miracoloso punto di contatto col mondo perduto, in quanto, dopo alcuni anni, Sigfrido, insieme a Colo, e altri cavalieri, durante una battuta di caccia in grande stile, inseguendo la povera bestia ferita, giungono al rifugio di Genoveffa e tutti, stupiti, commossi e pentiti, riconoscono nella donna che improvvisatnenie si presenta ai loro occhi la castellana già creduta morta. Sigfrido si getta ai suoi piedi e implora perdono mentre il colpevole Golo, smentito clamorosamente, vien condannalo a una morte atroce: quattro cavalli (o quattro tori) che vanno in direzioni differenti lo squartano.

Si comprende che, in questa cornice pittoresca e avventurosa, la figura di Genoveffa piacesse e alle classi più elevate, durante alcuni secoli, dal Trecento in poi e anche al popolo. Si ebbero così redazioni dotte, per così dire, e volgarizzanti, in terra tedesca come in terra francese. La fedele contessa brabantina ebbe dunque assicurata la sua esistenza da uno di quei Volksbücher (letteralmente: libri popolari) che mantennero viva la sua figura sinché qualche poeta di fama non la scelse a protagonista dì una sua opera, né più né meno - in certo senso - come capitò al dottor Faust. Ma l'introduzione ufficiale nel mondo letterario e più precisamente nella storia della poesia tedesca, volle dire, per lei, cambiare un poco ì connotati. Primo a rievocarne la storia fu quel Ludwig Tieck, (esaltato forse oltre misura dai teorici del Romanticismo Federico e Guglielmo Schlegel) che più che un vero e proprio genio, fu un creatore geniale di motivi e spunti, sviluppati poi con maggior impegno e successo dagli scrittori che lo seguirono. Nel 1799 egli pubblicava un poema drammatico (piuttosto che un dramma in versi) intitolato Vita e morte di Santa Genoveffa con una caterva di personaggi (una trentina), che sì presentavano, si eclissavano, ritornavano in scena con vario ritmo per oltre 270 pagine! Era questa una specie dì riesumazione di un'antica leggenda medioevale, perfettamente consona ai princìpi del Romanticismo, ma non libera, ancora di quella confusione a cui si è accennato or ora, in quanto l'ultimo verso, declamato in latino nientemeno che da S. Bonifacio suonava: «Ora pro nobis Sancta Genoveva!» mentre la vera Santa era completamente ignorata.

L'opera di Tieck ebbe larga risonanza, anche se il successo, per le lungaggini e la macchinosità del dramma, rimase circoscritto, e oggi l'opera si salva solo per quei momenti lirici, e quegli spunti immediati e felici, che a Tieck non mancavano. Va detto inoltre, a onor del vero, che i versi di questo poeta, par la loro musicalità si prestavano magnificamente per un libretto d'opera. Con assai maggior vigore e coerenza drammatica, affrontò l'argomento Friedrich Müller, detto comunemente Maler Müller, uno dei rappresentanti più validi dello Sturm und Drang in una tragedia in cinque atti intitolata Golo e Genoveffa, pubblicata solo nel 1811, ma a cui il poeta aveva messo mano già nel 1776 come dimostrano alcuni frammenti pubblicati in riviste o antologie. Qui già si profila il cambiamento nel ruolo dei personaggi che verrà compiuto da Hebbel; inoltre appare in scena una nuova figura ignota alla leggenda e alla tradizione: quella della contessa Matilde, tipo di donna astuta, senza scrupoli, falsa eppur attraente, vera «potenza delle tenebre», ricalcata evidentemente sul modello di Adelaide di Walldorf del Gótz von Berlichingen di Goethe. E la derivazione pare confermata anche dalla dedica che, nel manoscritto, ancora si legge all'autore del Faust. Con Matilde entrava in scena, accanto a Golo, una natura diabolica, appassionatamente tesa verso una mèta, e che, anche cadendo nella lotta, riusciva drammaticamente interessante. Così avvenne che, per i romantici, l'interesse venne spostandosi da Genoveffa a Golo, fatalmente trascinato dal suo amore anche verso azioni che ripugnano al suo cuore e pronto a subire, come una penitenza meritata, la condanna che verrà su di lui pronunciata. Questo è appunto il nucleo del dramma Genoveva che Federico Hebbel scrisse nel 1843 e a cui fece seguire nel 1852 un epilogo.

Riassumendo, secondo la nuova interpretazione del personaggio, i motivi della leggenda, Hebhel aveva anzi chiuso il dramma con la morte di Golo e solo in un secondo tempo s'era risolto ad aggiungere l'epilogo in cui i due sposi si ritrovavano e Schmerzenreich veniva finalmente a conoscere suo padre: era un finale un po' convenzionale, che non poteva mancare in un melodramma, ma che in sostanza non arricchiva gran che il dramma. Con l'opera di Hebbel si può dir chiuso il ciclo delle elobrazioni psicologiche dei personaggi; ve ne furono alcune successive anche notevoli, ma nessuna aggiunse a Genoveffa un tratto nuovo e sino a oggi si attende, forse inutilmente, che il tema venga ripreso con qualche successo da uno scrittore moderno.

Se Golo, nell'interpretazione romantica, viene a passare in primo piano, vuol dire dunque che Genoveffa è diminuita in qualche modo? Si può rispondere, senza timore, negativamente. All'immagine della nobildonna, dai capelli fluenti, consumata dagli stenti e dall'ansia della solitaria vita nella foresta, si sostituisce ora la castellana imperiosa e insieme umile dinanzi a Dio, fedele sino alla morte, incapace di compromessi, anche del più modesto, generosa con tutti ma implacabile contro chi attenta al suo onore. Quante eroine romantiche non rivelano qualche tratto in comune con lei! Basti pensare a Kätohen von Heilbronn di Kleist, alla stessa Agnes Bernauer di Hebbel e a cento altre per trovare figure che in qualche modo la ricordano. Gli è che la leggenda faceva già, attraverso la profonda fedeltà della donna verso l'amato, di lei un personaggio del mondo romantico, in certo senso ante litteram. Era quindi perfettamente naturale che i poeti tedeschi, verso la fine del Settecento e durante la prima metà dell'Ottocento sviluppassero questo motivo, che non era stato svolto ancora, ai loro occhi, con quella ampiezza che meritava e che d'altra parte non escludeva affatto l'altro - della vita nascosta nella foresta - e in certo senso anzi lo completava, lo metteva in luce più chiara. Se Genoveffa è entrata ormai nel novero di quelle figure che, come Orlando, Armida, Tristano e, da un mondo ancor più lontano, Orfeo, Prometeo, Elettra, i secoli si tramandano, senza lasciarli mai scomparire completamente vuol dire che in lei sono racchiusi diversi germi di vita, e ogni tempo - forse anche il nostro - può sviluppare quello che più risponde alle sue esigenze, ai suoi gusti, in modo da vedersi quasi specchiato in lei come in un simbolo.

LA «GENOVEFFA» DI SCHUMANN

Può forse giungere nuovo a qualche conoscitore dell'opera pianistica e dei Lieder di Schumann, ma è ormai accertato che sin dall 1830 l'autore del Carnaval pensava a un'opera. Nel 1841 scriveva a un amico: «Sa qual''è la mia preghiera d'artista, al mattino e alla sera? Un'opera tedesca». E dopo aver terminato Il Paradiso e la Peri, specie di oratorio profano con riferimenti però religiosi, fissava nel diario questa affermazione: «Il prossimo lavoro sarà un'opera... ne sono tutto entusiasmato». E per la mente gli passarono diversi argomenti, tutti molto elevati: dopo quelli derivati dall'immancabile Shakespeare (che figura in testa con un Amleto) si nota tra l'altro con qualche stupore nella lista un Lohengrin, un Canto dei Nibelunghi, perfino una specie di Tannhäuser: temi, come si vede cari a un «vicin suo grande», a Riccardo Wagner. Nella primavera del 1847 gli capitò tra le mani la Genoveva di Hebbel e subito Schumann sentì di aver trovato il testo che gli occorreva. S'era già provato nel genere teatrale con alcune musiche di scena scritte per il Faust goethiano e ardeva dal desiderio di dare al teatro tedesco così scarso di un repertorio musicale proprio, un'opera valida e duratura. Incaricò un amico, il pittore poeta Robert Reinick della stesura del testo ma presto incominciarono i guai.

«E' un buon e simpatico uomo il nostro Reinick» scriveva il compositore «ma tremendamente sentimentale». E Schumann aveva una cultura e un intuito troppo profondo per abbandonarsi a certe effusioni convenzionali, che venivano quasi richieste dai libretti del tempo. Si rivolse perciò direttamente a Hebbel chiedendogli il permesso di ridurre da sé, per un'opera, la tragedia, con una lettera che è un capolavoro di modestia sincera, quale s'incontra solo nei grandi. Tra l'altro diceva: «Alla lettura della Sua Genoveffa (io sono un musicista) insieme alla poesia in se, mi sentivo pervaso dall'idea: quale magnifico argomento questo lavoro potrebbe fornire a un compositore!... e quanto più spesso leggevo la sua tragedia, tanto più viva mi si presentava musicalmente la poesia». Hebbel, che era anche un fervido ammiratore di Schumann tanto che gli dedicò poi, nel 1850, il suo dramma Michelangelo, rispose con entusiasmo e si disse pronto anche a collaborare col musicista. Nel luglio del 1847 i due artisti si incontrarono a Dresda; ma il colloquio col chiarimento dei punti oscuri non avvenne: ebbe luogo una scena veramente inspiegabile, a prima vista. Dopo aver salutato brevemente Schumann, che si dichiarò felice di «far la sua conoscenza» Hebbel si mise a sedere e aspettò che l'altro parlasse. Ma il musicista stava seduto, guardava lo scrittore e taceva. «Anch'io stetti zitto, per vedere quanto sarebbe durata questa storia» confessò Hebbel poi. Dopo un quarto d'ora però si levò in piedi e dichiarò di volersene andare. Allora Schumann si mise in testa anche lui il cappello e accompagnò Hebbel all'albergo, sempre senza dir una parola.

A molti verrà in mente che il musicista morì di una malattia mentale - ma sarebbe fuori luogo pensare che già in questo episodio essa si manifestasse. Occorre, conoscere il carattere chiuso di certi nordici per spiegarsi come una scena di questo genere sia potuta avvenire e soprattutto sia potuta restare - dall'una e dall'altra parte - senza conseguenze: si hanno infatti testimonianze sicure della reciproca stima che i due artisti conservarono intatta anche dopo questo strano incontro. Inoltre, da parte di Schumann un certo ritegno può spiegarsi col fatto che egli aveva stabilito, forse per necessità melodrammatiche di alternare al testo di Hebbel, più o meno rielaborato, interi brani di Tieck, che nel 1799 aveva dato, come s'è già visto, il primo impulso a una elaborazione «romantica» dell'antica leggenda.

Non contento di ciò nell'ultimo atto introdusse perfino una poesia di Heine, cambiandone il titolo (da Ein Weib = Una donna divenne un Gaunerleid = Canto di malandrini), e perfino il testo, per poter ridurre le quattro strofe a due sole. Il libretto è dunque un mosaico, con elaborazioni poetiche tratte da tre scrittori, sostanzialmente diversi e neppure fusi da una sola mano, che occorrerebbe aver sotto gli occhi il manoscritto originale per vedere quanto, del testo, è ancora di Reinick e quanto di Schumann. E' comunque sicuro che mentre il primo aveva cercato dì dare una notevole evidenza agli elementi sostanziali della leggenda - quali la cerva, la vita solitaria di Genoveffa col bambino nel bosco - Schumann, forse per restare fedele il più possibile allo spirito del dramma hebbeliano, o forse per eliminare gli elementi «pittoreschi» e viene voglia di dire quasi «impressionistici» della scena della foresta, ridusse tutto non all'essenziale, ma ai minimi termini danneggiando così il ritmo logico della tragedia. Mettendo insieme Hebbel con Tieck non si accorse di aver combinato un guaio che la musica difficilmente avrebbe potuto rimediare. Il vero protagonista del dramma hebbeliano non è Genoveffa, ma Golo, l'innamoralo respinto che, pur portando a compimento, almeno intenzionalmente il suo delitto, è tormentato continuamente dal rimorso e quasi attende la punizione con un senso, diremmo, di sollievo. Hebbel anzi, portando questo impulso agli estremi, ci mostra come Golo alla fine del dramma chieda d'esser abbandonato nella foresta dopo essersi, con un pugnale, di sua mano, cavato ambedue gli occhi. Nella Genoveffa schumanniana invece, dopo aver dato incarico a due manigoldi di compier l'opera che a lui non riesce - quella di uccidere la nobildonna - egli si allontana con un discorso misterioso e non compare più in scena. Manca così al protagonista la sua evidenza drammatica; e la situazione è peggiorata anche da una trovata, lì per lì forse efficace, ma che svisa completamente il carattere di Golo. Genoveffa insidiata da lui, dopo aver tentato tutti i mezzi per abbandonarlo, lo chiama «vile bastardo» e questa ingiuria suscita in Golo un tale risentimento da vincere anche, sia pur tra continui dubbi, l'amore. Il sottile giuoco psicologico intessuto da Hebbel cade così, trasformando Golo da eroe romantico, in personaggio melodrammatico, da cui ci si aspetta da un momento all'altro che dica, come qualche nostra cara conoscenza ottocentesca «Vendetta avrò» oppure «Vendetta, tremenda vendetta». Ci sono poi altre incoerenze: Sigfrido, per esempio, pronuncia la condanna a morte della sposa, prima ancora di aver consultato la maga e lo specchio incantato. Questa scena che è il nucleo stesso di tutto il terzo atto vien a perdere così la sua giustificazione drammatica, e, forse per questo, Riccardo Wagner, che in fatto di senso tragico ne possedeva certo più di Schumann, lo dichiarò senza ambagi «infelicemente insipido» e con questo complimento invitava l'autore a modificarlo. Ma il creatore degli Studi sinfonici se n'ebbe a male, sospettando che Wagner gli volesse sciupare l'effetto delle apparizioni magiche e, per quanto dichiarasse più volte di aver molta stima di lui come poeta e come autore drammatico, non gli dette retta. Il creatore della Tetralogia lo ripagò di ugual moneta quando in Mein Leben dichiarò che, da parte sua, la consuetudine con Schumann non gli offrì nessuno «spunto vero e proprio» e che in fondo anche questi era inaccessibile a influssi che venissero dall'esterno, tanto che, aggiunge in tono sottilmente malizioso Wagner, «il mio esempio gli era servito solo esteriormente, a riconoscer cioè giusto di scriversi il testo di un'opera da sé» - e l'esempio a cui qui si accenna è la partitura del Tannhäuser che Schumann conobbe e, almeno in parte, ammirò. Ma in questa critica del testo non bisogna andare troppo oltre; né è giusto attaccare l'unica opera dell'autore di Carnaval partendo dalle incongruenze del libretto. Non saremo davvero noi italiani a poter lanciare la prima pietra contro questa Genoveffa con tanti capolavori musicali scritti, in tre secoli almeno, sopra una trama scenica - per non ricordare i versi, le strofette, le canzonette - che non si potrebbe certo proporre a modello di coerenza drammatica.

Resta da vedere la parte che questa opera di Schumann ha e nell'evoluzione del compositore e nella storia della musica, in generale, e di quella tedesca in particolare. Su questo punto altrettanto severe sono state le riserve poste dalla critica. Schumann, agli occhi di qualcuno, sarebbe solo un lirico, che stenta a muoversi nel mondo del melodramma e, dopo qualche tentativo fatto per convincersi di non sapersi orientare nel teatro lirico, torna alle forme che più gli sono familiari. Invano si cercherebbe nelle poche prove melodrammatiche ch'egli ci ha lasciato - e di cui Genoveffa è la più impegnativa - quella contrapposizione drammatica operata appunto attraverso la musica, che costituirebbe il nucleo vitale dell'opera di teatro. Se anche queste obbiezioni non mancano completamente di qualche giustificazione, a una valutazione obbiettiva esse risultano per lo meno esagerate. Intanto non è vero che dal melodramma - nelle sue varie forme - Schumann distogliesse la sua attenzione: prova ne sia quel Manfredi (sul testo di Byron) che ancor oggi s'impone all'attenzione e all'ammirazione di molti ascoltatori, forse non in Italia, ma almeno in Germania e all'estero. Inoltre sopra un punto positivo la critica è concorde: l'Ouverture della Genoveffa è una pagina sinfonica degna in tutto di un grande maestro. Nello spunto iniziale, in cui, sul pianissimo dell'orchestra i violini accennano come un lirico lamento, si presenta subito, prima con la voce dei violoncelli, poi con quella delle viole e dei fagotti un motivo breve, scattante, torbido che si riaffaccia spesso nell'opera quando compare Golo o di lui si parla, tanto che qualche critico l'ha riconosciuto come un tema legato a questo personaggio oppure al principio dell'odio, che domina il torbido innamorato di Genoveffa. Ma si ha il diritto di parlare qui di qualcosa come un leit motiv, un motivo conduttore wagneriano? Evidentemente no, ma mi pare profondamente interessante notare come l'identificazione di una cellula musicale con un personaggio, o almeno con un dato sentimento di un protagonista non fosse estraneo a Schumann, come del resto non lo era stato, sia pur in senso più lato, ad altri musicisti prima di lui. Già da questi elementi che l'Ouverture offre, ma che hanno piena evidenza solo nel quadro di tutta l'opera si può intravedere quale sia l'importanza di Genoveffa: essa si propone sempre di più accanto alle opere di un Weber come un anello di congiunzione tra il vecchio Singspiel tedesco e il nuovo dramma wagneriano. La concitazione che regna nell'Ouverture dopo il drammatico inizio si irradia per tutta l'opera e non può, in alcuni momenti non imporsi all'attenzione di un ascoltatore non prevenuto, a qualunque epoca egli appartenga. Forse potremo venir tacciati di troppo zelo se tentiamo di porre l'accento sugli elementi positivi - anche dal punto di vista del dramma musicale - di questa Genoveffa schumanniana. Ma le nostre osservazioni vogliono piuttosto proporre un giudizio più equilibrato sopra un'opera che, comunque, è uscita dalla penna di un grande musicista. Non sfuggono a nessun occhio attento le pagine prettamente liriche o liederistiche dello spartito, come il canto di Golo («Pace, scendi nel mio petto») nel primo atto, la canzone a due nel secondo («Se fossi un augelletto»), le dolci melodie che accompagnano le apparizioni suggerite dallo specchio magico nel terzo; né si può fare a meno di notare nella partitura certi passi che sanno troppo di accompagnamento pianistico e in cui il giuoco timbrico degli strumenti è naturalmente trascurato. Ma questo è solo uno degli aspetti di Genoveffa, che, se nella parabola ascendente del melodramma romantico poteva nuocere alla sua fortuna e diffusione, oggi forse; dopo tanto imperversare d'intonazioni drammatiche, che escono qualche volta dai limiti segnati dalla musica pura, come per esempio, il coro parlato, si è venuta creando una disposizione di spirito, una Stimmung in cui anche le effusioni liriche, in un melodramma, sono accettate con minore ostilità di un tempo. Né va dimenticato che la composizione di Genoveffa terminata in partitura esattamente il 4 agosto 1849, era stata preceduta da un'esperienza notevole, compiuta da Schumann nelle forme corali di ampio respiro - e che di questa esperienza egli seppe ampiamente valersi. Si badi per esempio al coro iniziale, che anche se intonato da cavalieri, sacerdoti e popolani del Medioevo ha l'andamento e il profilo del corale protestante. E' un canto solenne, pieno, robusto che non ha nulla di particolarmente romantico, né di quelle effusioni commosse e personali che siamo abituati a ritrovare nell'autore degli Studi Sinfonici. Evidentemente quel canto piaceva anche all'autore se con una felice trovata egli lo ha ripreso nell'ultimo atto quando Genoveffa e Sigfrido, ricongiunti dopo le prove più dure rivolgono ancora una volta il loro animo a Dio. E qui s'era presentata alla fantasia di Schumann una idea veramente geniale: sul canto di ringraziamento dei cacciatori e di Sigfrido, che avevano trovato nel bosco Genoveffa - canto che ha una sua potenza musicale evidentissima - s'innesta a un certo punto il canto religioso intonato nella chiesa e già noto attraverso la prima scena del primo atto. La chiusa si presentava qui come naturale e infatti Schumann aveva pensato di terminare con questo solenne richiamo all'inizio la sua opera, almeno in un primo tempo. Ma nel dicembre del 1848, mentre era ancora deciso a non far parlare un'altra volta il vescovo Hidulfus, già pensava a un ampliamento del finale, che permettesse a tutto il coro di comparire in scena e d'inneggiare a Genoveffa e Sigfrido. Drammaticamente e anche musicalmente la soluzione più spontanea era la migliore e il coro di chiusura par messo lì, come ha osservato spiritosamenle un critico tedesco, «per assicurare gli ascoltatori che i due sposi sono veramente giunti al loro castello». Ma, come dianzi, anche qui un difetto non deve cancellare la leale bellezza di una pagina musicale veramente alta. E questi momenti, che potremmo chiamare epici e altri ancora che capitano nello spartito, e che si possono dire senz'altro drammatici, devono imporre il massimo rispetto verso questa opera di Schumann, maltrattata sinora forse oltre ì limiti del giusto. Gli è che le creazioni degli autentici musicisti vanno avvicinate senza preconcetti, e neppure con quelle idee, che per necessità di metodo e di sistemazione, la critica impone a volte come dogmi. Quando la si consideri con animo non prevenuto anche Genoveffa potrà rivelare a chiunque pagine di alta poesia musicale.

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La prima rappresentazione dell'opera schumanniana avvenne il 25 giugno del 1850 a Lipsia, sotto la direzione dell'autore. Musicisti di prim'ordine assistettero alla «prima assoluta», tra gli altri ricorderemo: Liszt, Bülow, Meyerbeer, Gade, Spohr. Il successo fu tiepido; Schumann si illuse che una parte della colpa ricadesse sulla esecuzione; tra l'altro, la prima sera, capitò uno di quei ridicoli incidenti che pesano però sul destino di un lavoro: nel terzo atto quando Golo deve consegnare a Sigfrido la lettera, naturalmente falsificata, in cui è rivelata e proclamata l'infedeltà di Genoveffa, questi non trovava più il foglio; cercava disperatamente, ma non riusciva a raccapezzare neppure qualcosa che simbolicamente lo sostituisse: di qui un certo imbarazzo nel pubblico. I critici e i musicisti furono di parere molto diverso: quello di Wagner è noto, Liszt invece, senza nascondersi l'insufficienza drammatica dell'insieme, apprezzava molto la parte puramente musicale, Spohr n'era addirittura entusiasta. Hanslick pur riconoscendo i meriti dell'opera pensava che le incoerenze del testo e della musica risalissero a quella malattia che esplose poi nel decennio successivo sino a condurre il maestro tedesco a morte prematura. Ma forse il giudizio più giusto venne dato da Hermann Levi, il direttore d'orchestra che doveva poi diventar celebre per la sua maestria nel concertare le opere di Wagner: «Se si potessero togliere certi difetti puramente formali questo lavoro potrebbe diventare uno dei preferiti nel repertorio di tutto il teatro musicale tedesco». E' molto interessante notare questo parere favorevole pronunciato da un grande interprete di Wagner e forse la riesumazione odierna consentirà di vedere se, col mutar dei tempi, quegli elementi «puramente formali» che al suo primo apparire hanno ostacolato la diffusione di Genoveffa siano ormai attenuati dalle esperienze compiute in tutti questi anni e permettano di apprezzare in giusta misura le pagine di musica che sono sparse nella partitura.

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Come in poesia, anche in musica la Genoveffa di Schumann ha degli antecedenti notevoli e un seguito ugualmente non trascurabile. Nel ricercare i precedenti più lontani mi son imbattuto in un lavoro che non ho visto ricordato altrove e che dimostra come l'argomento fosse di dominio pubblico, anche in Italia, come testimonia la Geneviefa (sic) dramma per musica, «cantato nelle vacanze del carnevale 1685 da' Signori convittori del nobile collegio Tolomei di Siena nell'aprimento del nuovo teatro» un libretto di Girolamo Gigli su cui Giuseppe Fabbrini ebbe modo di stendere la sua musica. Ma, trascurando gli episodi di minore importanza sarà bene ricordare il precedente più illustre, una Genoveffa di Joseph Havdn scritta per il teatro di marionette del principe Esterhazy. Con felice intuito l'autore della Creazione aveva scelto soltanto la «quarta parte» (Genovefens vierter Teil e il titolo tedesco) in cui con la scena del ritrovamento nel bosco e della caccia, contrariamente a Schumann, si offriva al musicista il modo «di colorire» sia pur ingenuamente e nello stile classico che gli era abituale, il mondo altrimenti limitato dei burattini. E dopo Schumann, nel 1859 e poi nel 1867 Giacomo Offenbach presentò a Parigi una sua Geneviève de Brabant, opera in 2 atti e 2 quadri, che esulava da qualsiasi proposito parodistico, così vivo in questo compositore. Né mancano durante tutto l'Ottocento anche in Italia, nuove elaborazioni musicali melodrammatiche che s'incentrano nella figura di Genoveffa, che se sono dovute a compositori il cui nome non ha una risonanza duratura. La figura della donna nobile e fedele sino all'estremo sacrificio, lo sfondo «pittoresco» del bosco e del castello medioevale accendevano la fantasia dei musicisti romantici ma la vicenda ha in sé spunti drammatici e poetici tali da imporla forse domani anche all'attenzione di un moderno.

Rodolfo Paoli


(1) Testo tratto dal programma di sala del Concerto dell'Accademia di Santa Cecilia;
Roma, Auditorio di Via della Conciliazione, 13 dicembre 1970


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Ultimo aggiornamento 14 marzo 2017