Sonata (Grand Duo) in do maggiore, op. 140, D. 812

per pianoforte a quattro mani

Musica: Franz Schubert (1797 - 1828)
  1. Allegro moderato (do maggiore)
  2. Andante (la bemolle maggiore)
  3. Scherzo. Allegro vivace (do maggiore) e Trio (la bemolle maggiore)
  4. Allegro vivace (do maggiore)
Organico: pianoforte
Composizione: giugno 1824
Edizione: Diabelli, Vienna, 1838
Guida all'ascolto 1 (nota 1)

Nell'estate del 1818 Schubert fu assunto come maestro di musica delle due figlie di Johann Karl, conte di Esterhàzy, e accompagnò la famiglia nella residenza estiva di Zseliz, in Ungheria. Qui le due contessine, Marie e Karoline lo spinsero a scrivere una serie di composizioni per pianoforte a quattro mani, fra cui la Sonata in si bemolle maggiore D. 617, le Variationen über ein französisches Lied D. 624 e la Grande Sonata op. 140 D. 812, che fu pubblicata postuma nel 1838 sotto il titolo con cui è abitualmente conosciuta, non tanto per l'ampiezza della forma, quanto per l'andamento musicale solenne ed eroico, specie nel primo movimento. Del resto sin dall'inizio questa pagina, che Schubert chiamò semplicemente Sonata, ha suscitato pareri diversi sulla sua struttura e per primo Schumann nutrì il sospetto che questo Duo fosse la trascrizione per pianoforte di una sinfonia. «Sulla base della profonda conoscenza che ho del suo stile e del suo modo particolare di trattare il pianoforte - annotò Schumann - non riesco a spiegarmi questo lavoro se non come un pezzo orchestrale, soprattutto se lo paragono alle altre Sonate che esprimono nella loro forma più pura le caratteristiche e le possibilità dello strumento. In questo pezzo possiamo udire cantare gli archi e i fiati, troviamo i 'tutti', i passaggi solistici e il rullo dei tamburi». Questo giudizio di Schumann indusse Joachim a compiere una versione orchestrale del «Gran Duo», un tempo eseguita nelle sale da concerto.

Recentemente Alfred Einstein, e con lui un altro studioso schubertiano, Maurice Brown, hanno espresso parere diverso ed hanno sostenuto che la Sonata op. 140 è un lavoro nato per il pianoforte e non è una composizione originariamente concepita come una sinfonia, anche se non mancano certi passaggi che possano risvegliare idee orchestrali. Al di là di queste opinioni, è certo che la Sonata rivela un'ampiezza di elaborazione tipicamente schubertiana sin dall'Allegro moderato, aperto da accordi gravi e meditativi. Subito dopo l'esposizione assume un tono vigoroso e marcato, alternato a schiarite dolcemente melodiche. Nel contrasto fra i due momenti psicologici Schubert però imprime spiccato rilievo all'elemento ritmico, d'intonazione beethoveniana. Anche nell'Andante si avvertono reminiscenze del Larghetto della Seconda Sinfonia di Beethoven con le modulazioni dal minore al maggiore, ma il senso lirico del discorso musicale così morbido e sfumato appartiene interamente alle «confessioni» schubertiane.

Il terzo movimento è un brillante e spigliato allegro, inframezzato da un Trio in fa minore venato di delicata poesia. Il finale (Allegro vivace) è contrassegnato da un poderoso sviluppo tematico, che assume energia e slancio inconsueti nelle opere pianistiche di quel periodo dello stesso autore. Secondo Einstein, la pagina conclusiva della Sonata op. 140 è di gusto ungherese nel ritmo e nella melodia e nel suo martellante crescendo fa pensare ad una ouverture strumentale di vasto respiro.

Guida all'ascolto 2 (nota 2)

Spinto dalle sue precarie condizioni economiche, nel 1824 Schubert accettò di riprendere l'attività di maestro di musica, che aveva abbandonato per quella, esclusiva ed assorbente, di compositore. «Assunto» dal Conte Esterhazy come insegnante di pianoforte delle sue due figlie, Schubert parti con la nobile famiglia alla volta di Zseliz, in Ungheria. Nonostante il clima e l'ambiente sereno, di questa permanenza Franz parla nelle sue lettere senza entusiasmo, e con espressioni di viva nostalgia per la vita viennese; quanto all'attività creativa, questo 1824 è segnato da numerose pagine per pianoforte a quattro mani — ovviamente destinate alle due contessine — fra le quali figura la Sonata in do maggiore, conosciuta anche come «Gran Duo», e edita postuma come op. 140. Prima di allora, Schubert aveva composto per questa formazione una serie ininterrotta di Danze, Marce, Laendler: produzione fluviale che crea — nonostante alcuni esempi isolati di Mozart e Beethoven — il genere della Hausmusik, musica cioè non destinata a esecuzioni concertistiche, ma pensata per un ambiente ristretto e raccolto, un salotto in cui pochi amici si raccolgono per il piacere di fare e ascoltare musica insieme, magari con l'aggiunta di qualche ballo. Il primo esempio, ante litteram, di Gebrauchmusik.

Ma questo Duo, di dimensioni grandiose, di ampia architettura, sembra andare al di là della destinazione occasionale (pur tenendo evidentemente conto delle possibilità tecnico-manuali delle giovani pianiste dedicatarie); e il titolo di Sonata, impiegato da Schubert solo in un altro caso — l'op. 30 del 1818 —, ci consente una riflessione su questa forma che proprio con Schubert vivrà la sua ultima luminosa stagione, prima che il Romanticismo l'abbandoni per rivolgersi ai generi più immediati ed agili dell'Improvviso, della Ballata, della Romanza senza parole, del Preludio.

La presenza a Vienna del maestro di Bonn e l'opinione che Beethoven abbia portato a vertici insuperabili la forma-sonata hanno per lungo tempo giocato contro l'apprezzamento dell'opera pianistica di Schubert, il quale, d'altronde, giunse a comporre sonate piuttosto tardi e non riuscendo a dire, inizialmente, quelle parole assolute con cui si era espresso nella produzione di Lieder. E le tante Sonate rimaste incompiute o allo stato di frammento testimoniano, indubbiamente, di un certo disagio che il pur squisito inventore di accompagnamenti pianistici prova nel trattare lo strumento «en soliste». Ma fin dall'inizio, insieme agli echi di Mozart e Haydn, e alle risonanze di un certo pianismo brillante alla Hummel, emerge una concezione dello strumento e della struttura sonatistica che sarà, poi, solo schubertiana, che farà «suonare» il suo Hammerflügel cosi diversamente dal pianoforte non dico di Chopin o Liszt, ma anche dei più vicini Beethoven o Mendelssohn. Pensiamo alle tipiche scale parallele in ottava — ancor più evidenti nella scrittura a quattro mani, come nel Gran Duo — che suonano con il sapore dell'esercitazione, alle quali Schubert mai rinuncerà, neppure nei maggiori capolavori (non si tratta quindi di inesperienza da giovane apprendista); agli accordi «legnosi» e un po' vuoti ribattuti nel registro acuto; a una certa settecentesca ridondanza di abbellimenti; ai tremoli, cosi poco strumentali, alle ottave divise, alle lunghe melodie cosi caratterizzate, veri e propri «motivi» nell'accezione romantica, poco suscettibili di elaborazione e capaci solo di ripetersi in diverse tonalità con sottili «pieghe» che ne modificano i connotati espressivi. Melodie, queste delle Sonate di Schubert, che hanno assai poco di vocale: anche in questo caso l'esperienza liederistica non sembra determinare l'invenzione musicale in modo esclusivo: le più belle memorabili idee delle Sonate sono «cantabili», ma solo sul pianoforte, non sono pensate vocalmente e poi trascritte. È questo uno dei tratti più tipici del «tastierismo» di Schubert; che, per altro lato, raramente evoca sul pianoforte le risonanze di altri strumenti, o inclina a sostituirlo alla massa orchestrale: ed aveva torto Schumann ad ostinarsi nel veder nella Sonata in do maggiore per pianoforte a quattro mani la prima stesura di una pagina sinfonica non più realizzata: il pianoforte di Schubert è sempre uno strumento casalingo e modesto, di possibilità virtuosistiche magari non illimitate (quelle dell'autore o dei 'dilettanti' cui erano dedicate le varie pagine), destinato a risuonare in una delle solite «Schubertiadi». Nella Vienna della Restaurazione, negli anni successivi alla tempesta napoleonica, in cui un'apparente stabilità politica (costruita sulla repressione poliziesca e sul conservatorismo di Metternich) sembra aver ricondotto l'Europa a un clima fuori del tempo e senza turbamenti, questo giovane amante della semplice vita fra taverne ed amici, ci consegna con la sua arte l'espressione più compiuta di quello che è stato definito gusto Biedermeier. La piccola borghesia viennese ama ornare la sua modesta abitazione di graziose suppellettili, di ridenti tendine alle finestre, di quadretti di genere, di un pianoforte, appunto, a cui affidare con tenerezza e semplicità sommesse confessioni. E Schubert le fornisce: dapprima le Scozzesi, i Valzer, i Laendler, con una facilità e leggerezza di inventiva che non provocano eccessivi turbamenti; più tardi, negli ultimi anni di vita, potrà trovare, con gli Improvvisi, i Momenti musicali e le grandi Sonate, i modi di risposte più impegnative, di una finezza e un'interiorità da soddisfare esigenze più mature e ambiziose. E come il salotto Biedermeier si adorna di solido e robusto destinato a durare, emblema di una società benestante e sicura, cosi Schubert fornisce a questo stesso pubblico delle opere pianistiche di largo impegno e respiro. Recupera le forme della sonata classica, con tutte le possibili riprese e i più ampi sviluppi; distende certe idee troppo concise in architetture sonore ben articolate, non senza dimenticare qualche discreto omaggio a matrici popolari nel recupero di ritmi di danze: attinge così a una concezione dello spazio-tempo assolutamente «inedita» nei primi decenni dell'ottocento, che niente deve al Beethoven 'classico', ma, semmai, a quello monumentale della Nona sinfonia. Schubert sembra pensare a un uditorio un po' distratto, per il quale l'ascolto musicale non rappresenta un evento eccezionale, sconvolgente, coinvolgente (come pretendeva Beethoven) ; e gli porge, cosi, musica a larghi fiotti, quasi con il timore che non la ascolti, e gliela ripropone, ricanta le più belle frasi con inesausto entusiasmo. Questa nozione del tempo è soltanto schubertiana: per trovare un altro compositore che osi distendersi in cosi larghe volute, si dovrà attendere Brahms e la sua terza Sonata, cosi violenta, però, nei confronti delle capacità di ascolto del pubblico medio.

Se il piccolo borghese è l'immediato destinatario di questi messaggi sapientemente costruiti, Schubert non si preclude però la possibilità di mirare più in alto: e, in una dialettica che è, ancora una volta, schiettamente romantica, distende nell'ambito di una struttura apparentemente soffocante e ossequiente alla Tradizione, il suo universo degli affetti. Non siamo ancora a quella tensione che scoppierà in forme macroscopiche nel sinfonismo di Brahms, ove le idee secondarie che germinano le une sulle altre dai temi principali assumono rilievo protagonistico, contravvenendo alle leggi costitutive nel momento stesso in cui vengono, anche se formalmente, riaffermate. In Schubert non si può parlare di dramma della forma: gli ampi sviluppi sonatistici non impediscono l'effondersi sereno e compiuto dei più riposti moti dell'animo. Sulle ampie fiancate, sulle larghe superfici di queste solide costruzioni Biedermeier si rispecchiano, come gentili suppellettili, la ridente allegrezza della «Trota», l'angoscia amorosa di Gretchen, la calma solenne di «Meerestille», mentre il Viandante della «Winterreise» si china pensoso sulla tastiera d'avorio e v'intravvede, sconvolto, l'immagine riflessa del suo «Sosia».

Documento esemplare di questa rigorosa costruttività Biedermeister, oltre ai capolavori sonatistici, appare anche il Gran Duo in do maggiore, in primo luogo per l'ampiezza delle campiture e per la nobile calma che informa, fin dall'Allegro moderato iniziale, questa composizione. Un dolce tema un poco esitante, su un ritmo puntato, viene enunciato dal 'primo' in piano; e dopo poco ripreso in fortissimo, con un effetto affermativo; e su un' uguale figurazione ritmica si distende il secondo tema, in la bemolle (tonalità cui si giunge attraverso un passaggio enarmonico sol diesis/la bemolle), di contenuto emotivo non lontano dalla melodia di apertura. Ampia riesposizione, cui segue uno sviluppo veemente, chiaroscurato — con passaggi che toccano il marziale —; una forte coda, con passaggi in ottava, note ribattute, audaci armonie.

L'Andante successivo, in la bemolle, appare dominato da un intenso lirismo: la prima frase è difatti una delle tipiche melodie «lunghe» di Schubert nelle quali si effondono malinconia, tenerezza, senso della natura: poi, un sorprendente passaggio dalla tonalità di la bemolle a quella di mi maggiore proietta su questo clima un barbaglio drammatico. D'ora in poi, tutto il movimento, di «celestiale lunghezza » (secondo la definizione di Schumann) sarà improntato da un quasi nevrotico alternarsi di piani e fortissimi che sconvolge l'iniziale impressione di lirismo disteso; al limite, si potrebbe intravedere in questo Andante qualche tratto di quel demonico che cova nel profondo della sensibilità schubertiana e che attende ancora una messa a fuoco meno superficiale e occasionale di quanto sia stato finora fatto.

Lo Scherzo (Allegro vivace) è il «naturale» ritorno a Vienna di un esule (quale Schubert poteva sentirsi in Ungheria), ai suoi ritmi di danza all'aria aperta lungo il Danubio: festosità irruenta attenuata da un poetico Trio in fa minore. «Il Finale — scrive lo Einstein — è il movimento più importante, e presenta tutti i tratti del 'genius loci'. Ungherese nel ritmo e nella melodia, questo movimento, nonostante lo sviluppo che è quasi il più serio e il più abile di quanti Schubert avesse fino allora composto, è concepito nella forma e nello spirito di un'Ouverture di vasto respiro» e dominato — aggiungiamo noi — da una pulsazione ritmica piuttosto insolita, da un senso dinamico e vitale che ne fanno quasi un unicum nella vastissima produzione dell'autore della «Trota».

Cesare Orselli


(1) Testo tratto dal programma di sala del Concerto dell'Accademia di Santa Cecilia,
Roma, Sala Accademica di via dei Greci, 17 febbraio 1978
(2) Testo tratto dal programma di sala del Concerto del Maggio Musicale Fiorentino,
Firenze, Teatro Comunale, 7 giugno 1978


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Ultimo aggiornamento 11 dicembre 2018