Quartetto per archi n. 15 in sol maggiore, op. 161, D. 887


Musica: Franz Schubert (1797 - 1828)
  1. Allegro molto moderato (sol maggiore)
  2. Andante un poco mosso (mi minore)
  3. Scherzo. Allegro vivace (sol maggiore) e Trio (sol maggiore)
  4. Allegro assai (sol maggiore)
Organico: 2 violini, viola, violoncello
Composizione: Vienna, 20 - 30 giugno 1826
Prima esecuzione: Vienna, Einladungskonzert, 26 marzo 1828
Edizione: Diabelli, Vienna, 1851
Guida all'ascolto 1 (nota 1)

Alcuni elementi particolari caratterizzano il Quartetto in sol maggiore D.887, l'ultimo dei quartetti per archi di Franz Schubert: pensiamo alla scelta della tonalità, alla scrittura spesso definita «orchestrale», al ruolo attribuito al violoncello. Sul primo aspetto, la decisione per un sol maggiore «raro» nell'autore, pare esservi una precisa intenzione «poetica»: che indica, come in altre pagine così tinteggiate (ad esempio la Fantasia per piano a quattro mani D.1, la Messa D. 167, Lieder come Il figlio delle Muse D. 764 e La Bella Mugnaia D. 795), ardore giovanile, coraggio di fronte all'avventura, limpidezza d'animo. E in effetti l'ispirazione generale pare frutto di un sentimento di sicurezza interiore, che tende a prevalere sulle inquietudini. Anche se la scelta iniziale sembra poi in un certo senso quasi essere sfuggita di mano al suo creatore: il Quartetto non è infatti «solo» in sol maggiore, e oscilla invece spesso su chiaroscuri minori. Questo non si verifica solo a livello di macrostruttura (ad esempio, i tempi esterni sono in sol maggiore, quelli interni sono rispettivamente in mi minore e si minore), ma anche nel naturale decorso dei temi, che sono ambiguamente variabili, dominati dal rapporto tonica-mediante e punteggiati da armonie maggiori-minori, diremmo, in perenne divenire. Sul carattere «orchestrale» basti osservare la scrittura spessa e complessa, l'uso tecnico di passaggi all'unisono, il ricorso al tremolo come elemento strutturale nell'accompagnamento e nelle linee tematiche, il fondersi di domande e risposte in più blocchi sonori. Tanto che molti commentatori hanno provato a immaginarne gli esiti eclatanti se mai vi fosse stata una vera traduzione orchestrale. Il cello, poi, assume un ruolo predominante nel brano, divenendone la guida: definendone quindi il «colore» complessivo, non solo in senso timbrico.

Nell'Allegro molto moderato un accordo tenuto in sol maggiore è come una sorta di domanda che trapassa, con soprassalto ritmico, a disegnare una figura vibrante e appuntita di risposta nel versus tonale di sol minore; l'intera figura è ripetuta alla dominante (re maggiore-minore) e poi si spegne in un commento ritmato in eco sull'inciso puntato-tipo. In pochi passaggi Schubert ha disegnato la matrice dell'intero lavoro, i cui diversi elementi giocheranno un ruolo centrale nel corso del Quartetto. Lo vediamo da questi giochi d'eco che si propagano da uno strumento all'altro, da una sezione all'altra in modo, appunto, «orchestrale». La cellula ritmica «misteriosa» sarà elemento strutturante del pensiero successivo. Così giunge anche il primo tema principale: derivato dall'introduzione sull'inciso-tipo, è un'idea enunciata dal violino, poi dal cello sullo sfondo di increspati tremoli in pp; segue, dopo un ricordo dell'accordo tenuto iniziale, un'ampia elaborazione del primo tema con imitazioni e crescendo in un clima armonico saturo, instabile, segmentato da profondi salti. Poi, scivolando dall'accordo di fa diesis maggiore all'ambito tonale di re maggiore che fa da quadro armonico di base, subentra il salottiero secondo tema, cantabile e sincopato, ancora sull'inciso-tipo; che trapassa in un veemente episodio-variante del tema in ff. Segue una citazione del secondo tema in sì bemolle maggiore alla voce del cello, in risalto sul pizzicato soprastante del trio; di nuovo ecco una sorta di polifonica espansione-variazione su agitati tremoli e veementi salti; una frase di collegamento del cello conduce allo sviluppo. Proprio in quest'ultimo, introdotto da un ondulato e irto percorso tutto fatto di tremoli sibilanti e fruscianti, si leva al violino il primo tema, più volte elaborato, insieme ad altri incisi e frammenti: cromatismi, improvvisi scarti dinamici, accordi stridenti e salti frammentano il tessuto sonoro, rendendo l'intera sezione violenta e drammatica. Finalmente una frase discendente del violino conclude lo sviluppo, allentando le tensioni e la spinta ritmica. Sopraggiunge allora una ripresa molto diversa rispetto all'esposizione. Vi è, infatti, un cambio sensibile di carattere: l'introduzione su accordo iniziale è in un minore che muta in maggiore, e le figurazioni successive, prive di nota puntata e ammorbidite anche nella dinamica in pp, comunicano un sentimento di rassegnazione meditativa. Schubert ci sorprende poi ancora quando torna il primo tema in forma di variazione attraverso calme ornamentazioni melodiche: articolato polifonicamente, in un dialogo piano, non più competitivo tra strumenti, è esposto dal violino, poi rammentato con il suo tipico inciso puntato dal cello; ritorna ancora l'accordo tenuto e seguono nuove elaborazioni del tema seguite, come nell'esposizione, da un passo conclusivo in crescendo segmentato da ampi salti. Anche il secondo tema è attenuato nei tratti e affiancato da una seconda linea in risalto, una melodia malinconica a sua volta derivata dal tema; una seconda variante del secondo tema porta a una nuova zona agitata e veemente; infine il secondo tema è alla viola, sul pizzicato degli altri archi, come nell'esposizione e segue una nuova elaborazione con asseverativa frase conclusiva su vibranti tremoli alternati a incisi di commiato del tema. Ora Schubert torna indietro sui propri passi, come in un ritorno allo stato d'origine: una frase di collegamento del cello su tremoli porta all'accordo iniziale, ancor più ripetuto nell'alternanza maggiore-minore, e intenso nell'esplosivo salto accordale ribadito con forza.

Nel secondo tempo, Andante un poco moto (un rondò in forma sonata nello schema A-B-A-B-A), per spirito d'unità è ancora un accordo tenuto, appena ornato, ad aprire la pagina; da esso si sprigiona il tema principale (A), una melodia luminosa del violoncello ripetuta, però come increspata nell'andamento da un respiro contrappuntistico di sostegno. Poi vi è l'elaborazione del tema con una melodia semplice al cello, cui segue il ritorno del tema variato. Ma immagini conflittuali piombano a offuscare il clima, creando un contrasto stridente: introdotto da una scansione all'unisono, subentra un episodio B in sol minore di carattere opposto, tutto saettanti movimenti, tuoni minacciosi, tratti folgoranti con salti, sforzati, corse improvvise, note puntate dal tratto ribelle, tremoli penetranti che rammentano in modo forse ancor più esplicito il carico di drammatismo implicito nel primo tempo. Una nuova, sottile scansione all'unisono avvia la seconda parte dell'episodio B, ancora altrettanto intensa e vibrante, in un clima d'icastica violenza. Il tema principale della sezione A riprende nella forma di corale a tre voci, ma con un pedale di fa diesis nel basso che risuona come un rintocco funebre; tuttavia, e benché il tema si sviluppi in si minore, riesce a schiarire il clima, soprattutto quando fiorisce in canone nelle voci intrecciate di violini e cello; la sezione A prosegue ancora con la frase tematica in veste elaborativa, sotto nuove vesti tonali e sottoposta a notevoli trasformazioni nella strumentazione. Poi, introdotto dal tratto all'unisono, ecco il ritorno variato e più veemente, ma pure più sintetico, dell'episodio B. Non si ripropone infatti per la seconda volta il «ponte» all'unisono, «duplicatore» di B, ma subentra, inaspettata, la citazione del secondo segmento della frase tematica principale (A), la melodia semplice del cello qui espansa in una specie di percorso a retrogrado; introduce infatti anche il primo segmento del tema principale con il motivo luminoso d'apertura, che è ribadito più volte nello scambio tra cello e violino primo. Con le citazioni tematiche che sono tutte un incerto vagare tra modo maggiore e minore. Nella Coda si conclude la seconda tappa di questo cammino ideale: il nucleo tematico iniziale è confermato più volte con deformazioni enfatiche del tratto, pause, giochi chiaroscurali che lo rendono, se possibile, ancor più plastico ed enigmatico.

Nel movimento seguente Schubert prolunga fedelmente lo spirito dei precedenti. Qui le note ribattute, eco dei tremoli caratteristici, sono elemento strutturale dello Scherzo; questo fruscio sussurrato, appena attraversato da rotondi, melodici arpeggi di frammenti accordali subito sovrastati, è innervato sulle note ripetute degli archi e diviene quindi tema principale: un tourbillon che è quasi un'ossessione in cui si rimane impigliati e da cui è impossibile sfuggire. Quindi prosegue il brusio ribattuto in un secondo passo di elaborazione del tessuto connettivo. Torna ancora la ripresa del tema iniziale, con il mormorio che per un attimo pare attenuarsi, indebolito nel suo scorrere veloce da qualche variante armonica e dall'inserzione di nuove stringhe melodiche e accordali tra gli strumenti; ma è solo un'illusione, perché il sordo, ineluttabile ronzio riprende vitalità e conclude con forza rinnovata. Il Trio (Allegretto) è una sorta di rifugio dalle intemperie: qui l'atmosfera armonica di sol maggiore avvolge un semplice tema di Ländler strumentato come un Lied con accompagnamento; è una melodia naive quella al cello, che si svolge teneramente e comunica con semplicità il ritorno alle cose perdute. La melodia si sviluppa poi passando a delizioso canone tra i due violini ed è di seguito ripetuta, prima dell'eco di chiusa del violoncello.

L'Allegro assai è un rondò-sonata che conferma la logica dei tempi precedenti. Vi ritroviamo le note ribattute, quasi un moto perpetuo che vale come estensione esplicita del riverbero del tremolo. E pure l'alternanza conflittuale tra modo maggiore e minore. Gli accordi tenuti dell'inizio del Quartetto tornano ad aprire un episodio del rondò e, più in generale, il ricorso a particene ritmiche come segmenti costruttivi diviene strutturale, coinvolgendo in una costellazione d'infinite varianti ritmiche l'intero materiale. Dopo la prima frase del tema-refrain, basata su ancheggianti, guizzanti moti in ritmo di 6/8 in tipico ritmo di tarantella su note ripetute, il tema evolve in una seconda frase che ne sviluppa il senso, sino a frammenti ritmicamente ansanti, affannosi dopo la lunga corsa; al ritorno del primo segmento del refrain, presto variato in nuove, avvolgenti, particelle ritmiche, seguono gli spunti sospesi e ansanti, qui conclusi da una frase un po' dispettosa e sbarazzina. Tutto scorre, senza interruzioni o ripensamenti: proseguono le variazioni sul tema e conducono a un primo episodio che funge da secondo spunto tematico, di stampo un po' «rossiniano», tutto fatto di guizzi, di motti, di lazzi sguscianti. Dopo un crescendo, una robusta transizione tutta accenti e gestuali fraseggi porta a una serie di scintillanti variazioni modulanti, da incisi dal secondo tema: sino ad autentici vortici discendenti (tratti da elementi del refrain) alternati a luminose ghirlande sonore (varianti del secondo tema). Poi una frase accordale, ricordo degli accordi tenuti, fa tutt'uno con un nuovo motivo di collegamento derivato da elementi del secondo tema. Senza respiro ecco la ripresa del refrain e subito, a intersecarsi, del secondo tema in una sezione di trapasso allo sviluppo: riconoscibile per i forti contrasti, le linee nette, le modulazioni improvvise. Qui, dopo un netto strappo in ff e sf, infatti, compare in un secondo episodio ricco di variazioni il refrain in la minore, in mi minore, in si maggiore, in do minore, rinnovato in do diesis minore per inversione e aumentazione al violino secondo in un raffinato passo e ancora al violino primo in una danza infinita che ancora si estende al fa diesis minore, al re minore, sino a sfociare nelle figure ansanti, prima e poi nel motivo sbarazzino. Ma la corsa non è finita: proseguono, amplificando il passo, le figure ansanti, quasi per autogemmazione, inframmezzate a nuove citazioni stringate del refrain, cui segue un'ennesima comparsa dell'idea sbarazzina spezzata dalle ultime, intense asserzioni. La sezione d'impianto sviluppativo trapassa senza soluzione di continuità, più «per carattere» che per vera cesura formale in una sorta di ripresa: ritornano il secondo tema, il crescendo e la transizione; poi le variazioni modulanti del secondo tema, con i vortici discendenti e le ghirlande sonore di commiato. Prosegue la libera ripresa del circolo tematico: frase accordale e motivo di collegamento da elementi del secondo tema, ripresa del refrain, ma senza il richiamo a segmenti del secondo tema, strappo accordale in ff e nuove brevi variazioni del refrain come se ora iniziasse un secondo sviluppo, che però è come ridotto e stilizzato in sintesi finale: le figure ansanti enfatizzate come climax espressivo. Davvero Schubert modella la forma a proprio piacimento con una maestria stupefacente. Temi e sezioni trapassano l'uno nell'altro cambiando funzione e contenuti nel segno di una spìnta ritmica incontrastata carica di fanciullesca energia. Nella coda la corsa prosegue con il motivo sbarazzino che chiudeva lo sviluppo, prima della perentoria cadenza finale.

Marino Mora

Guida all'ascolto 2 (nota 2)

Composto in un periodo di tempo incredibilmente breve - dal 20 al 30 giugno 1826 - il Quartetto in sol maggiore, l'ultimo dei Quindici Quartetti per archi di Schubert, è non solo il più lungo in assoluto (il calcolo delle battute arriva complessivamente a ben 1577) ma anche il più straordinario e profetico: l'unico in grado di stare accanto al monumento per eccellenza dell'arte quartettistica, l'op. 131 di Beethoven, che non a caso Schubert considerava il vertice della musica del suo tempo. Eppure neanche questo sfuggì al destino comune a tutti i grandi capolavori del tardo stile schubertiano. Vivente l'autore ne fu eseguito in pubblico soltanto il primo movimento, il 26 marzo 1828 al Musikverein di Vienna dal Quartetto Schuppanzigh, in occasione dell'unico concerto interamente dedicato a sue musiche a cui a Schubert fu concesso di assistere in tutta la sua vita. Rifiutato, nonostante la buona accoglienza e dopo trattative sfortunate, dall'editore Schott, venne pubblicato postumo soltanto nel novembre 1851 dalla casa Diabelli di Vienna, un anno dopo la prima esecuzione integrale avvenuta l'8 dicembre 1850 sempre al Musikverein di Vienna ad opera del Quartetto Hellmesberger. Occorre aggiungere che anche in seguito, e fino ai giorni nostri, il Quartetto in sol maggiore non ha avuto nella diffusione concertistica quel posto di rilievo che gli compete di diritto nella storia del genere, e che invece si è conquistato per esempio il Quartetto in re minore "La Morte e la Fanciulla". In effetti, a volerne giustificare i motivi al di là del dato esteriore della insolita lunghezza e di quello più intrinseco di una obbiettiva complessità, esso non presenta con la consueta dovizia quei tratti che siamo abituati a considerare tipici di Schubert, in primo luogo il dono appagante della melodia e l'immediata percezione di un tono malinconico, ora drammaticamente introverso ora trasfigurato liricamente, ma comunque attraente: com'è proprio di un'opera che si scuota di dosso i sogni del passato e si volga risolutamente a prefigurare un nuovo inizio, il Quartetto in sol maggiore sembra voler prendere di petto il problema della grande forma e procedere al suo interno con una ferma indagine - si vorrebbe dire quasi sovrapersonale - della natura e dei processi del linguaggio compositivo.

Già l'esordio costituisce a questo proposito un gesto emblematico di concentrazione massima: l'improvviso, scabro passaggio dall'accordo di sol maggiore, che cresce su se stesso dal "piano" al "forte", all'accordo di sol minore in "fortissimo" e quasi gridato a piena voce, segna uno squarcio che va molto oltre la vecchia sospensione, tanto cara a Schubert e per suo tramite a noi così familiare nel suo significato espressivo, di una stessa melodia fra modo maggiore e modo minore. Non si tratta più qui di un alternarsi di stati d'animo diversi ma complementari, bensì di una drastica contrapposizione di entità astratte e paritetiche, dove la melodia è virtualmente assente, quasi contratta nell'epifania armonica dell'accordo nudo e crudo, prima in maggiore, poi in minore: come se Schubert puntasse ora direttamente, senza perifrasi sentimentali, al cuore del problema, la riduzione all'essenza del sistema armonico-tonale e le prospettive del suo sviluppo secondo principi rifondati. Invano aspetteremmo, dopo questa introduzione altamente simbolica, una cantabilità distesa nelle sezioni tematiche, come Schubert ci aveva abituati in precedenza: il primo tema si basa su un inciso ritmico puntato del primo violino sul tremolo degli altri archi, che poi circolerà nei diversi strumenti con divisionistici ricami di contrappunti; il secondo, più compatto, è caratterizzato dalla sincope, che provoca continui spostamenti di accenti tra tempi deboli e tempi forti, trasponendo sul piano ritmico e metrico la contrapposizione immediata di modi degli accordi iniziali. La storia del primo movimento vive tutta sulla elaborazione di questi principi di equivalenza degli opposti. Ciascuno di essi, preso isolatamente, sviluppa un proprio percorso lineare e rettilineo fatto di digressioni e varianti che ne sfruttano le intrinseche implicazioni: tonalmente, la rete di relazioni che parte dalla dicotomia maggiore-minore si orienta verso le dominanti relative, con connessioni ignote alla tradizionale simmetria classica; ritmicamente, l'elemento dinamico del ritmo puntato ha il suo contrappeso statico nella terzina. Ma quando questo percorso parziale si è esaurito con una forza di riduzione in cui ogni singolo elemento per così dire si elabora da se stesso tendendo alla chiusura, ecco che nella Ripresa la prospettiva si capovolge e ciò che nell'Esposizione era semplicemente "dato" diviene realizzato: la compresenza di tutti i ritmi finora apparsi, ora sovrapposti insieme, e la riapparizione della scabra opposizione maggiore-minore dell'accordo iniziale proprio alla fine, indicano che la linearità è in realtà anche circolarità e che inizio e fine, specchiandosi, sono due facce della stessa misteriosa identità.

Quanto individuato nel colossale primo movimento si riverbera nei successivi senza tener conto delle consuete distribuzioni formali. L'Andante un poco mosso in mi minore si apre con una cadenza scentrata, sbilanciata sulla dominante, da cui si diparte un'ampia frase cantabile del violoncello, contrappuntata da un ostinato della viola e da frammentari incisi dei due violini. Anche qui convivono principi opposti, lineari e circolari, dinamici e statici, tenuti insieme da un uso della polifonia che assegna a ogni voce funzioni diverse, come se ognuna seguisse un proprio corso di pensieri, ma nello stesso tempo le attira in un campo magnetico di relazioni sotterranee. La variazione è già insita in questa disposizione polifonica a raggi concentrici: per così dire essa è consostanziale al tema. E difatti il movimento lento non si articola secondo lo schema del tema con variazioni, come accadeva ancora nei Quartetti "Rosamunde" e "La Morte e la Fanciulla", bensì sulla contrapposizione di due sezioni con caratteri distinti, la seconda delle quali oppone alla sospesa polifonia concentrica della prima un andamento omofonico di forte tensione drammatica, incalzante e quasi stridente nella sua irrequietezza cromatica. Le due sezioni, A e B, sono variate al loro interno fino a svelare nell'elaborazione analitica i varchi che le collegano: esse sono ripetute una volta ciascuna nello stesso ordine, ma in modo che i caratteri contrastanti, e le situazioni espressive di cui sono veicolo, si accorpino riavvicinandosi nel tempo e nello spazio fino da ultimo a coesistere.

Lo Scherzo, in si minore, presenta un modello compositivo ancora diverso. Le sedici misure del tema sono costituite dalla ripetizione di due unità ritmiche, ciascuna di una battuta: sei crome ribattute la prima, tre semiminime arpeggiate alternativamente in senso discendente e ascendente la seconda. Qui il contrasto è reso ancora più essenziale ed è dato semplicemente da uno slancio che si interrompe per poi riprendere la corsa; ma la ricchezza di combinazioni e di associazioni che ne deriva ha dell'incredibile: forse mai come in questo pezzo Schubert si avvicina al modello di sviluppo formale beethoveniano, consistente nel ricavare da un unico elemento fondamentale, in cui il contrasto è latente, tutte le conseguenze possibili. Il Trio, in sol maggiore, rallenta il tempo quasi a voler riprendere fiato e introduce l'unica nota vagamente diversiva del Quartetto: una melodia finalmente ampia e distesa parte dal violoncello per raggiungere il primo violino, sostenuta da un accompagnamento ondeggiante e sonoramente festoso, da danza popolare. È curioso osservare come questo improvviso squarcio sentimentale e nostalgico di uno Schubert più antico faccia qui l'impressione, nel contesto del Quartetto, di un tristissimo congedo dal mondo.

Con le sue 707 misure in 6/8 (Allegro assai in sol maggiore) l'ultimo tempo riprende lo schema della danza macabra che chiudeva il Quartetto in re minore: lo stesso ritmo di tarantella, la stessa febbre, la stessa apocalittica cavalcata. Questa della danza macabra è un'ossessione costante dei tardi Finali di Schubert, ma qui appare anche come la logica conseguenza dei tempi precedenti, integrati in ordine inverso: dallo Scherzo deriva il salto discendente e il gioco sulle note ribattute del primo tema, poi rovesciato nel mormorio prolungato della seconda sezione in re maggiore; dall'Andante trae origine l'episodio centrale in si minore, con un effetto di dilatazione ritmica per aumentazione che rallenta la corsa precipitosa; dal primo movimento proviene il cambiamento maggiore-minore che si estende fino alle unità minime del tessuto strumentale. La fine del movimento con la sua progressione d'intensità dal ppp al fff ha qualcosa di allucinato, di definitivo: un'esplosione materica che azzera ogni forma di costruzione, lasciando dietro di sé i frammenti di elementi simbolici ridotti all'essenza di cellule ritmiche ripetute e annullate nell'indistinto, come la scia di una cometa lanciata verso l'ignoto.

Sergio Sablich

Guida all'ascolto 3 (nota 3)

Il quindicesimo e ultimo quartetto di Schubert venne scritto in pochissimo tempo, soli dieci giorni tra il 20 e il 30 giugno del 1826: nello slancio drammatico e febbrile che lo percorre (ad eccezione, forse, dell'Andante) si potrebbe trovare un'eco di questa rapidità di scrittura, in pieno contrasto con la complessa elaborazione formale e l'inusuale lunghezza dei singoli brani. Siamo dunque nel periodo finale dell'attività schubertiana: due anni separano quest'opera dal quartetto intitolato dal Lied "La morte e la fanciulla" e altri due anni bisognerà attendere per i trii con pianoforte e per il quintetto.

Il solo primo movimento dell'op. 161 venne udito dall'autore, il 26 marzo 1828, nell'interpretazione del quartetto Schuppanzigh (con J.M. Böhm al posto del primo violino), mentre sia l'esecuzione integrale che l'edizione ebbero luogo dopo la morte di Schubert.

Alcuni tratti comuni legano i quattro tempi e caratterizzano l'opera già al primo ascolto. Innanzitutto la presenza dominante del violoncello, vero "primus inter pares" tra i quattro strumenti, alla cui calda voce cantabile è affidato il ruolo guida, in particolare nel primo e secondo tempo. Tutti gli archi hanno poi frequenti passaggi in "tremolo" che sottolineano l'atmosfera "drammatica" dell'intero quartetto e gli conferiscono una sonorità quasi orchestrale. Per finire, l'impiego di una condotta armonica molto movimentata, segnata in particolare da uno scambio continuo tra i modi maggiore e minore, lascia l'ascoltatore in uno stato di perenne incertezza.

Quest'ultimo elemento relativo all'armonia appare in realtà per primo all'inizio dell'Allegro quando un accordo maggiore in piano, passa immediatamente a un fortissimo minore: sorge allora, e dura per lo meno in tutta l'introduzione, uno scontro aperto fra i due modi. Ecco comparire, poche battute dopo, il tremolo agli archi inferiori sul quale il violino enuncia il primo tema, del quale si appropria subito il violoncello, amplificandolo. La seconcia idea, molto cantabile, viene enunciata dopo un accordo in fortissimo e presenta anch'essa motivi d'instabilità armonica (oltre che l'impiego della sincope), mentre il suo carattere lirico è accentuato dalla lettura che ne fa il violoncello. Lo sviluppo, ampio e drammatico, adotta una densa scrittura polifonica, all'interno della quale il dialogo degli strumenti si fa serrato, sfruttando sia gli effetti di tremolo che di pizzicato. Dopo la ripresa il movimento è concluso da una "coda" che ripropone ancora il contrasto maggiore-minore.

Dopo le tensioni dell'Allegro il secondo movimento sembra proporre, nell'iniziale frase del violoncello, una atmosfera di pace sottolineata dalla modulazione in do maggiore. Ben presto però gli interventi degli altri archi fanno capire che si trattava solo di una quiete illusoria: il contrasto si ripresenta ancora una volta fin quando, nell'ultima e più ampia sezione, un momento di particolare luminosità è raggiunto allorché il primo violino e il violoncello si scambiano "a canone" il tema.

Lo Scherzo vive della sua iniziale idea ritmica, inserendola in una tormentata scrittura fatta di tremoli, note ripetute accordi spezzati. Con quetsa atmosfera ossessiva fa contrasto l'episodio del Trio (in sol maggiore contro il si minore del restante movimento) aperto da una melodia in note lunghe del violoncello acuto.

Il Finale, in forma di rondò e di vastissimo taglio, rammenta nel piglio quello del Quartetto in re minore, e propone una corsa a perdifiato su un ritmo di tarantella, continuamente modificato nei suoi elementi ritmici e melodici.

Renato Bossa


(1) Testo tratto dal libretto inserito nel CD allegato al numero speciale 90-91 della rivista Amadeus
(2) Testo tratto dal programma di sala del Concerto dell'Accademia di Santa Cecilia,
Roma, Auditorio di via della Conciliazione, 14 febbraio 1997
(3) Testo tratto dal programma di sala del Concerto dell'Accademia Filarmonica Romana,
Roma, Teatro Olimpico, 4 marzo 1993


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Ultimo aggiornamento 12 aprile 2014