Quattro Impromptus per pianoforte, op. 142, D. 935


Musica: Franz Schubert (1797 - 1828)
  1. Allegro moderato (fa minore)
  2. Allegretto (la bemolle maggiore)
  3. Andante (si bemolle maggiore)
  4. Allegro scherzando (fa minore)
Organico: pianoforte
Composizione: dicembre 1827
Edizione: Diabelli, Vienna, 1839
Guida all'ascolto 1 (nota 1)

E' nell'età del Biedermeier che la letteratura pianistica tende sempre più ad abbandonare l'impegnativo genere della sonata per rivolgersi verso brani di breve durata (Improvvisi, Notturni, Studi, Capricci); questo fenomeno è legato, più che a cause puramente musicali, ad un profondo mutamento nel costume esecutivo: l'affermazione della figura del solista virtuoso, che per le sue esibizioni aveva bisogno di opere in grado di mettere in luce la sua tecnica prodigiosa, indipendentemente dal loro contenuto musicale.

Da questo fenomeno Schubert, che come si sa non era un concertista professionista, fu toccato solo marginalmente; ma appunto perché egli aveva una concezione del pianismo assolutamente cameristica e antiesibizionistica, le sue raccolte di brevi miniature, nate negli anni della maturità sulla scia della moda imperante, acquistano un interesse particolare.

Gli Improvvisi opera 142 (D. 935) - che appartengono all'ultimo anno di vita del maestro e precedono di pochi mesi i grandi affreschi delle ultime tre sonate (D. 958/960) - furono pubblicati, per volere dell'autore, anche singolarmente. Tuttavia, in una celebre recensione del 1838, Schumann, pronunciando un giudizio pesantemente negativo sul terzo Improvviso, si dichiarava convinto che gli altri tre fossero in realtà movimenti di una sonata incompiuta, tesi che, ovviamente, è ancor oggi oggetto di discussione; e buona parte della critica è concorde - considerando fortemente riduttivo il giudizio di Schumann sul terzo brano - nel ritenere di trovarsi di fronte ad una vera e propria sonata. Certo non sono chiari i motivi che avrebbero spinto l'autore a smembrare nella pubblicazione una composizione unitaria (forse semplicemente motivi economici); ma, anche accettando la tesi di Schumann, vale la pena di rilevare la straordinaria ambivalenza di queste pagine, ognuna delle quali risulta assolutamente compiuta in sé, e forma contemporaneamente un armonioso contrasto con le altre, grazie all'intrinseco carattere dei singoli brani e alle loro relazioni tonali. Così, nel primo Improvviso, in forma sonata, la sostituzione dello, sviluppo con un nuovo episodio di estrema dolcezza sembra allontanarsi dai canoni classici della sonata, ma la riapparizione del primo tema nelle battute conclusive sembra rimandare, per una soluzione, al brano successivo. Questo, un Allegretto che prende il posto del minuetto, è uno dei migliori esempi del naturale, intimistico atteggiamento di Schubert verso il pianoforte, con l'ingenua cantabilità del suo tema e la morbidezza della linea del basso. Dispiace la condanna di Schumann verso il Tema con variazioni, un esempio di divertita giocosità pianistica che non ha bisogno di difese. L'Allegro scherzando, infine, è un rondò che, con i suoi accenti spostati e il suo mordente virtuosismo si avvicina al Capriccio; questo virtuosismo però è sottilmente velato di malinconia, ben lontano dalle estrose esibizioni dei concertisti del Biedermeier.

Guida all'ascolto 2 (nota 2)

I quattro Improvvisi dell'op. 142 furono pubblicati all'inizio separatamente, allo scopo di poterli vendere con più facilità, come risulta del resto da una lettera inviata dall'autore in data 21 febbraio 1828 all'editore Schott. Schumann però negò che questi pezzi pianistici fossero nati come Improvvisi, cioè come brevi ed estrosi momenti musicali, e non mancò di esprimere chiaramente la sua opinione in una pagina critica che vale la pena di rileggere. «Non riesco a credere - scrive Schumann - che sia stato veramente Schubert a intitolare "Improvvisi" questi movimenti. Il primo non può essere che il primo movimento di una Sonata; la perfetta costruzione e la scrittura accuratissima lo dimostrano con la massima evidenza e non ci permettono dubbi di sorta. Per quanto riguarda il secondo Improvviso, questo è a mio parere il secondo movimento della stesso Sonata; ed è infatti strettamente legato al primo sia nella tonalità sia nel carattere. A questo punto solo gli amici di Schubert possono sapere che cosa sia avvenuto dei due movimenti conclusivi, e se Schubert abbia compiuto o no questa Sonata; noi potremmo forse considerare come Finale il quarto movimento, per quanto a infirmare questa teoria contribuisca una certa trascuratezza nella costruzione del brano, che pure sarebbe accostabile agli altri due se non altro per la tonalità. Siamo nel campo delle congetture, che potrebbero essere confermate solo da uno studio del manoscritto originale...

Quanto al terzo Improvviso, che si compone di una serie di Variazioni mediocri su di un tema altrettanto mediocre, sarei piuttosto incline a credere che Schubert non l'abbia composto negli anni della sua prima giovinezza. Manca in questo pezzo ogni traccia di quell'immaginazione e di quell'inventiva di cui Schubert è così prodigo altrove e soprattutto nel genere delle Variazioni. Si suonino dunque di seguito i primi due Improvvisi, si continui col quarto per concludere su di una nota vivace e si avrà, se non una Sonata completa, almeno un bel ricordo di Schubert... Nel primo movimento, a separare i momenti lirici, si sgrana un'ornamentazione leggera e fantastica che ci porta dolcemente alla pace del sonno; l'intero movimento deve essere stato scritto in un momento di passione, di doloroso ricordo del passato. Il secondo movimento ha un carattere più contemplativo, un carattere che spesso troviamo nella musica di Schubert; il terzo [il quarto Improvviso] è diverso: c'è in esso un malumore pacato e ugualmente pieno di fascino che mi ricorda sempre il comico "Furore per un soldo perduto" di Beethoven, un brano che ben pochi conoscono ».

Ciò che risalta maggiormente in questo giudizio critico di Schumann sull'opera 142 è la netta condanna dell'Andante del terzo movimento con le cinque variazioni su un tema già usato nel Quartetto in la minore e nella musica della Rosamunda. Forse una presa di posizione troppo rigida e unilaterale, tale da suscitare riserve da parte di Alfred Einstein che invece sostiene che le variazioni sono così sonore, così ingenuamente virtuosistiche e perfettamente inserite nel loro contesto. Il primo Improvviso (Allegro moderato) è un rondò di piacevole e insinuante musicalità, come risulta dal tema di attacco ripreso poi nelle ultime dieci battute, dopo il sognante discorso melodico con le incantevoli modulazioni inserite nella parte centrale. Il secondo Improvviso (Allegretto) è una sarabanda più che un minuetto, da cui si sprigiona tutto quel clima di magia tipico del migliore pianismo romantico. In esso si avverte una eco dell'Allegretto del Trio con pianoforte op. 70 n. 2 di Beethoven, anche se in Schubert c'è un senso più malinconico della linea melodica. Un ritratto della Vienna schubertiana, gaia e sentimentale, è stato definito l'Andante del terzo Improvviso, da cui si snodano con gustoso divertimento sonoro le cinque variazioni, dove si riversa l'anima sognatrice e fanciullesca del musicista. Il quarto Improvviso è anch'esso un rondò, comprendente al centro l'Allegro scherzando, frutto di una fantasia capricciosa non solo nell'armonia e nella melodia, ma anche nel ritmo giocato sull'alternarsi del 3/8 e del 6/8. Gli Improvvisi dell'op. 142 durano quasi mezz'ora: esattamente 29 minuti e 12 secondi.

Guida all'ascolto 3 (nota 3)

«Non riesco a credere che sia stato veramente Schubert a intitolare Improvvisi questi movimenti», scriveva Robert Schumann nel 1838, recensendo la pubblicazione integrale - a nove anni dalla morte di Schubert - dei Quattro improvvisi op. 142. Schumann aveva capito subito che non di quattro composizioni staccate si trattava, bensì di una Sonata vera e propria (secondo lui in tre tempi, parendogli a torto il Tema con variazioni che costituisce il terzo Improvviso una pagina mediocre, che non aveva niente a che fare con le altre tre): si sbagliava, viceversa, nell'attribuire questa specie di travestimento a un'imposizione commerciale degli editori, come quella di cui era stato vittima egli stesso, quando gli era toccato di pubblicare la Sonata in fa minore sotto il titolo strampalato di Concerto senza orchestra.

L'idea che l'opera si sarebbe potuta vendere più facilmente se fatta passare per una serie di Improvvisi anziché come una grande Sonata in quattro tempi, secondo una chiara tendenza del mercato musicale di allora, era stata dello stesso Schubert, che anzi aveva voluto edizioni separate dei singoli movimenti, evidentemente scoraggiato dalla scarsissima fortuna che aveva caratterizzato i suoi rapporti con il mondo editoriale. Ma nonostante questa precisa intenzione del compositore, documentata dal manoscritto e dalle lettere, non si può considerare storicamente questo lavoro altro che come una Sonata, sia pure con tutte le anomalie e le licenze di cui c'è da tener conto quando si parla dei rapporti di Schubert con la grande forma; e anziché alla fioritura stupenda dei pezzi brevi per pianoforte (come tutti gli altri Improvvisi e i Momenti musicali) composti da Schubert fra il 1823 e il 1828, occorrerà ricollegarla storicamente al gruppo delle Sonate della maturità.

L'op. 142 fu composta nel dicembre del 1827: la precedevano le prime grandi Sonate schubertiane, l'op. 143 in la minore (1823), l'incompiuta Sonata in do (1825), quelle op. 42 e op. 53 (sempre del 1825); nel 1826, in ottobre, era nata l'op. 78, che per ottenere l'onore delle stampe si era dovuta anche lei travestire, intitolandosi Fantasia. Da questa alla triade delle ultime Sonate, i grandi capolavori del settembre 1828 (do minore, D. 958, la maggiore, D. 959, si bemolle, D. 960), due anni di vuoto, nei quali campeggiano appunto i Quattro improvvisi dell'op. 142, cui Schubert negò il giusto titolo di Sonata in fa minore. Di questo gruppo di Sonate — e in particolar modo delle ultime tre — i Quattro improvvisi condividono la fisionomia formale, la collocazione storica, il clima espressivo: nonché, ed è la cosa più importante, il valore artistico, che è tra i massimi. Al pari delle tre Sonate del 1828, infatti, i Quattro improvvisi respirano la felicità assoluta di una costruzione che non risente in alcun modo di quel contrasto fra l'abbondanza dei contenuti musicali — e delle istanze espressive delle quali questi si fanno veicolo — e la realtà degli schemi formali precostituiti che avrebbe angustiato un po' tutta la musica strumentale tedesca dopo Beethoven, e dopo le terribili avventure che Beethoven aveva fatto attraversare alla forma principe della composizione strumentale, la Sonata. Nell'op. 142 si ritrovano, già perfetti, i caratteri di quello stile compositivo che rende Schubert l'ideale complemento storico appunto di Beethoven, in un rapporto sotto certi aspetti del tutto antitetico, e tuttavia capace di affratellare due concezioni del comporre tanto diverse in una medesima prospettiva, quella del definitivo superamento delle regole — e delle stesse premesse etiche — che avevano determinato la fioritura strumentale del secondo Settecento viennese. In Beethoven — scomparso pochi mesi prima della composizione dei Quattro improvvisi, e giunto ai più avveniristici traguardi della sua esperienza creativa proprio negli stessi anni in cui Schubert viveva il decennio della sua precoce e brevissima maturità — c'era stato lo scardinamento delle simmetrie, l'incalzante radicalizzarsi del principio della variazione, la suprema esaltazione di un imperativo etico che privilegiando la forma — una forma sempre nuova, e capace di trovar legge solo in se stessa — aveva elevato l'impegno umano dalla contingenza del sensibile alle più rarefatte regioni dello spirito. In Schubert, viceversa, la naturale estraneità alle esigenze di quadratura, di controllo nelle proporzioni, di politezza formale che avevano mantenuto classiche anche le più grandiose intuizioni poetiche dell'ultimo Mozart, si risolse col tempo in una tranquilla vittoria su ogni schema aprioristico, celebrata sotto il segno di una straordinaria ricchezza di orizzonti espressivi, dilatando le forme a contenere una fluviale invenzione melodica, distesa nella felicità della ripetizione e dell'analogia. L'elaborazione tematica basata sulla violenta variazione di tutti gli elementi del motivo, condotta agli estremi limiti immaginabili da Beethoven, cedette in Schubert il passo a una forma di sviluppo che amava soffermarsi sul tema modificandolo solo in superficie, quasi a riproporlo ogni volta con diverse sottolineature armoniche, melodiche e ritmiche, liberandone tutto il potenziale espressivo: non la concentrazione implacabile delle Sonate beethoveniane dell'ultimo periodo, ma la «celestiale lunghezza» (l'espressione è di Schumann, ed è riferita all'ultima Sinfonia di Schubert, la «Grande»; e si attaglia benissimo alle Sonate di questi anni) di divagazioni senza fine, che in mano a chiunque altro sarebbe divenuta pura e semplice prolissità.

Il fatto formale, naturalmente, era il riflesso più immediato di un'esigenza espressiva, tipica di quella necessità di far poesia che rende Schubert il più autentico portabandiera della fase più pura del Romanticismo musicale. In Schubert, troppo spesso costretto da noi nell'immagine di un artista esclusivamente domestico, intimo, ingenuo, tutte le corde della sensibilità sapevano vibrare, anche le più drammatiche, anche le più visionarie: ma un'insopprimibile vocazione alla felicità sapeva — specialmente nel caso di composizioni di vasto respiro — equilibrarle in una larghezza di orizzonti espressivi capace di accoglierle tutte, facendo posto anche alle categorie del brillante e del leggero. Se ne ha la riprova fin dall'inizio dell'op. 142, nel primo Improvviso, che è un vero e proprio primo tempo di Sonata secundum Schubert: il primo tema è un lungo e composito gruppo di motivi, dove la fecondità dell'ispirazione melodica e ritmica caratterizza le più varie proposte espressive; il secondo tema, di accordi ribattuti, non giunge come un momento antitetico al primo, come sarebbe avvenuto, in un primo tempo di Sonata classico, ma anzi nasce naturalmente dalla prosecuzione di quello, attraverso un «ponte» che serve evidentemente a stabilire progressive analogie, anziché a sottolineare una diversità. La vera sorpresa arriva nella sezione centrale di questo primo tempo, che secondo regola dovrebbe essere dedicata agli «sviluppi» di uno o di ambedue i temi dell'esposizione, accogliendo elaborazioni il più possibile complesse, e che invece vive come episodio a sé stante: un canto gravido di suggestioni espressive, che si dipana in un dialogo fra il basso e la voce superiore, a cavallo della liquida fascia sonora delle armonie in accordi arpeggiati. «Un'ornamentazione leggera e fantastica», disse Schumann a questo proposito; aggiungendo, chissà perché, «che ci porta dolcemente alla pace del sonno»: ma non è certo il caso di dormire, che perderemmo la ripresa dei temi principali, che qui giunge non come soluzione di contrasti, ma come splendida ricognizione di un episodio in sé perfetto, mutato nell'itinerario tonale giusto quel tanto che ci vuole perché la forma, a grandi linee, sia salva. Poi un altro volo di fantasia, con il ritorno dell'episodio centrale, e un ultima affermazione del primo tema, a mo' di coda. Il secondo Improvviso (una specie di Scherzo lento), coniuga su un ritmo di Sarabanda un bel tema liederistico; Schumann volle trovarvi un carattere «contemplativo»: di fatto, è una pagina di poesia semplicissima, che si fa magica nel Trio, un fluire atematico di terzine della destra contro la elementare linea del basso. Il Tema con variazioni che costituisce il terzo Improvviso riprende un motivo carissimo a Schubert, che lo impiegò nelle musiche di scena per Rosamunde e nel Quartetto in la minore, anche qui per una serie di variazioni. Alla dolce cantabilità del tema subentra, nella prima variazione, una tendenza a un blando e gradevole virtuosismo; ancora più brillante la seconda, dove le sincopi dell'accompagnamento e il ritmo delle ornamentazioni della voce superiore sembrano proporre una specie di polacca in 4/4. Un clima diverso nella terza, forse la più bella di tutte, e la più complessa dal punto di vista dell'elaborazione del motivo di base, che dà luogo ad ampi sviluppi melodici contro un denso accompagnamento in terzine di accordi nei bassi. La quarta variazione recupera una moderata brillantezza, espandendosi ancora in vaste campiture melodiche alternate fra le due mani. La quinta e ultima variazione sembra rifarsi alla seconda, arricchendola di ulteriori ornamentazioni in uno scorrevole giuoco di scale e arpeggi: questa vivacità e leggerezza si smorza da ultimo nel ritorno, in pianissimo, del tema originale.

Daniele Spini


(1) Testo tratto dal programma di sala del Concerto dell'Accademia Filarmonica Romana,
Roma, 11 novembre 1987
(2) Testo tratto dal programma di sala del Concerto dell'Accademia Nazionale di santa Cecilia,
Roma, sala Accademica di via dei Greci, 6 febbraio 1981
(3) Testo tratto dal programma di sala del Concerto del Maggio Musicale Fiorentino,
Firenze, Teatro della Pergola, 14 maggio 1980


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Ultimo aggiornamento 18 ottobre 2018